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Recensito incontra Fabrizio Arcuri, regista di “Cenerentola” e “Pinocchio”

Direttore artistico del festival Short Theatre, fondatore dell’Accademia degli Artefatti, aiuto regia di Luca Ronconi, il regista Fabrizio Arcuri è al Teatro India di Roma dal 24 al 29 aprile con il dittico “Cenerentola” e “Pinocchio”. Ha raccontato a Recensito la sua visione di teatro, divertente e didattico.

Quali sono i motivi dietro la scelta di mettere in scena “Cenerentola” e “Pinocchio” di Joel Pommerat?
“L’idea è nata dalla lettura dei testi di Joel Pommerat, drammaturgo francese autore di alcune riscritture di favole classiche: “Cendrillon”, “Pinocchio” e “Le Petit Chaperon rouge”. Sia “Cenerentola” sia “Pinocchio” presentano caratteristiche interessanti, sono storie che conosciamo tutti e dalle quali emergono nodi e questioni che ci riguardano ancora. “Cenerentola” è rivolta ad un discorso personale e interpersonale: riguarda i sensi di colpa e le difficoltà delle relazioni soprattutto all’interno della sfera familiare; riguarda la difficoltà di crescere e le problematiche legate alla dimensione adolescenziale. Tutti in qualche modo ci raccontiamo delle storie: anche se sappiamo che non sono vere ci aiutano a vivere. In “Pinocchio”, invece, si approfondiscono da una parte il rapporto individuo-società, dall’altra la nostra capacità di pensare e progettare un futuro. I temi sono assolutamente attuali. Mi è sembrato divertente scegliere testi noti che ci accompagnano dall’infanzia e trovare sfumature e sfaccettature che non sono immediatamente evidenti dal momento che, purtroppo, abbiamo nella memoria soprattutto la versione edulcorata a firma Disney.”

cenerentola locandina

Rispetto alla versione registica francese, per la quale Pommerat usa l’espressione “réalité fantôme”, nella regia di “Cenerentola” c’è un’attualizzazione evidente del contesto per costumi e scenografia, il risultato è meno inquietante, più divertente. In che modo si è distaccato dalla visione registica di Pommerat?
“Ho visto molti lavori di Pommerat in passato. Come drammaturgo ha un’idea originale di teatro alla quale sono fortemente legati i suoi testi, queste favole presentano strutture più aperte che permettono un lavoro registico differente. I due testi sono, però, molto diversi. “Cenerentola” implica inevitabilmente delle riflessioni psicologiche, perché su questo si costruisce il testo, dunque sarebbe impossibile non affrontarlo. “Pinocchio”, invece, è un testo più aperto e politico.”

Cosa c’è dietro la scelta di un uomo, Gabriele Benedetti, per interpretare la fata in "Cenerentola"? Come vengono costruiti gli altri personaggi?
“L’idea nasce da una situazione di lavoro in sala. In fondo quasi nessun personaggio corrisponde alla sua vera identità (ad esempio le sorellastre sono molto più adulte). C’è un gioco interno che permette una distanza dal personaggio. Mi sembrava curioso rappresentare la fata per quello che è, motivo per cui il genere era indifferente. Era interessante, piuttosto, mettere in scena tipologie di racconto e di personaggi. Come nel lavoro di Pommerat d’altronde il quale, essendo un contemporaneo, lavora sugli scarti tra l’attore e la costruzione della figura che porta in scena. Pommerat usa spesso manichini e pupazzi, perché è interessato dal carattere, non dal percorso del personaggio che rappresenta un’idea obsoleta di teatro.”

"Cenerentola" e le fiabe in generale hanno un valore paradigmatico. Crede che la musica scelta per l’accompagnamento (fiabesca ma anche pop, rock e punk) possa esercitare o esaltare la potenza del “mito”?
Lo spettacolo è costruito come una sorta di carillon che lentamente si scompone e decompone. Segue l’idea di andare a ricercare sonorità che aiutino a costruire queste piccole scene giustapposte con piccoli intervalli che accentuano il piccolo carillon di un ménage familiare. Non ci sono particolari indicazioni nel testo di Pommerat relativamente alla musica, quindi si era liberi di intervenire. La festa da ballo, ad esempio, è ambientata in epoca contemporanea, quindi è stata scelta una generica musica da discoteca. “Mad World” [di Gary Jules, ndr], brano di chiusura, è scelto per il significato del testo, ma non si può pretendere che tutti lo conoscano, anche se in effetti le parole del testo sembrano proprio scritte per la chiosa del lavoro affrontato.”

cenerentola fabrizio arcuri foto 2C’è un valore didattico-educativo dietro alla scelta di raccontare fiabe? Cerca un pubblico più giovane della media o si appella al “fanciullino” dentro tutti noi?
“La costruzione dello spettacolo non prevede il pensiero al pubblico. Il risultato, invece, può essere valutato come fruibile per tutti oppure no. Una volta realizzato lo spettacolo posso avere una sensazione rispetto al tipo di lavoro che è venuto fuori e quindi pensare se un pubblico di adolescenti o di bambini è possibile. Pensare al pubblico non è una strada percorribile al momento della creazione perché non è possibile fare spettacoli ad hoc per un determinato pubblico: significherebbe avere dei preconcetti, avere l’ambizione di conoscere i gusti del pubblico.”

Ha un ricordo di infanzia legato alle fiabe?
“Non ne ricordo uno in particolare, ma mi hanno sempre colpito la cattiveria e la ferocia, l’assoluta mancanza di filtri nelle fiabe originali. Penso all’incesto di Perrault in “Pelle d’asino”, ad esempio. Per mettere in scena “Cenerentola” ho riletto l’originale e sono rimasto sorpreso dal finale truce e truculento: durante il matrimonio di Cenerentola con il principe, le sorellastre sono accecate da due corvi. Sono scene che, per il tipo di cultura che abbiamo sviluppato in questi anni, sarebbero addirittura proibitive per un pubblico di ragazzini. Mi ha sempre fatto effetto la distanza tra l’idea del valore didattico-educativo attribuito alle fiabe nel passato e quella che abbiamo noi oggi di salvaguardia, come se i bambini non dovessero conoscere quello che succede nel mondo e dovessero esserne preservati.”

Qual è la sua opinione riguardo l’assenza di un insegnamento, che sia esso teorico o pratico, del teatro nel percorso scolastico italiano?
cenerentola fabrizio arcuri foto3“Credo che i programmi scolastici siano da molti anni fortemente carenti anche su punti assai più importanti. Non è un caso che il teatro non ci sia. Tutto ciò fa parte di un’idea di trascuratezza di cultura che sta prendendo piede in Italia e che ci rende i cittadini che siamo. Il teatro è una delle poche arti che ha un suo aspetto pedagogico che non necessariamente porta ad una professione, ma permette di apprendere un modo di relazionarsi con l’altro e di conoscere l’altro. Naturalmente sia la pratica sia la teoria del teatro aiuterebbero le persone a crescere in maniera più civile e più aperta, con l’abitudine a leggere i segni che ci vengono proposti. Caratteristica principale del teatro non è l’intrattenimento, perché in questo senso il teatro ha perso la sfida dall’inizio: consideriamo anche solo la scomodità di raggiungere il teatro quando l’intrattenimento con la televisione è a portata di mano. Il teatro da sempre ha avuto una relazione stretta con la società, almeno fino all’Ottocento. Cercare di recuperare un’idea di relazione con la società è compito fondamentale del teatro, ma dovrebbe esserlo in primis delle istituzioni.”

Dal 2005 al 2008 è assistente alla regia di Luca Ronconi. Quale ricordo ha del Maestro?
Sono stato assistente alla regia di Ronconi in età adulta, quando avevo già avviato la mia carriera. L’ho fatto per una questione di stima e di desiderio di conoscere in modo più approfondito il metodo di uno degli ultimi maestri che abbiamo avuto in Italia. Ho fatto con lui circa quattro spettacoli. L’aspetto in assoluto più sorprendente era la sua capacità di leggere i testi: vedere come riusciva ad aprirli, vedere quante cose riusciva a tirare fuori dai nodi drammaturgici è stata un’esperienza importante. In quegli anni è come se avessi studiato dei libri che nessuno ha mai scritto e che nessuno scriverà mai rispetto a un modo di fare teatro che risente del tempo di Ronconi. I motivi stessi per cui sceglieva i testi e il modo in cui decideva di leggerli erano di grande stimolo: ho avuto una grande fortuna.”

Come cambia il rapporto del regista con la propria opera dopo il debutto? E qual è il suo personale rapporto con la critica?
“Se amo una messa in scena, continuo ad amarla anche se non è apprezzata. Se me ne disamoro è perché credo di non essere riuscito a mettere a punto quello che volevo, anche se le recensioni la esaltano non me ne innamoro di nuovo. Si può riflettere su spunti più o meno validi che derivano dalla critica, ma dipende se è stata compresa oppure no l’operazione e non sempre quello che leggo è centrato rispetto all’obiettivo che mi ero prefissato. Il rapporto personale con la propria opera non ha niente a che fare con il rapporto che l’opera ha quando viene data in pasto al pubblico e alla critica.”

Alessandra Pratesi 28/04/2018

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