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"Heiner Müller tre paesaggi”: intervista a Giorgio Barberio Corsetti

Dal 23 al 26 febbraio, all’interno della prestigiosa Villa Piccolomini di Roma, gli allievi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” hanno portato in scena Heiner Müller tre paesaggi. Tre studi tratti da altrettante opere del celebre drammaturgo tedesco e dirette da tre allievi del II anno del Corso di Regia: HamletMaschine, basato su uno dei testi più noti dell’autore, Anatomia Tito. The Fall of Rome. Un commento shakesperiano e Paesaggio con Argonauti. La messa in scena delle opere di Müller ha coinvolto l’intera classe del II anno di Recitazione oltre a otto attori professionisti diplomati all’Accademia e gli allievi del Master di Drammaturgia e Sceneggiatura. Abbiamo rivolto alcune domande a Giorgio Barberio Corsetti, che ha guidato i ragazzi durante il lungo progetto di elaborazione scenica. Dopo i progetti su Pier Paolo Pasolini e Heinrich von Kleist, questo è il terzo anno che il maestro collabora con l’Accademia, proponendo ogni volta agli allievi uno studio esaustivo su un grande autore.

Quanto è stato importante Heiner Müller per la drammaturgia contemporanea e perché riesce a essere ancora oggi così attuale?

Müller è uno degli autori più geniali del Novecento. La sua opera è tuttora vivissima e ancora da sviscerare in tutta la sua profondità. Prima di tutto la sua scrittura lascia molte possibilità interpretative e rappresentative. Il linguaggio dei suoi testi è spesso scuro, criptico: ha a che fare con i sogni, con l’inconscio e con le esistenze di tutti noi. Riflette i nostri desideri, le nostre pulsioni, e con esse anche i lati più neri e terribili dell’uomo e della Storia così come la abbiamo vissuta negli ultimi decenni. I testi di Müller raccontano come pochi altri le origini della civiltà contemporanea durante il periodo delle grandi ideologie. Il suo teatro non è certo di immediata comprensione, ma se si va oltre la superficie ci si accorge che è uno specchio delle nostre radici e quindi della nostra epoca.

Perché Lei e gli allievi dell’Accademia avete deciso di portare in scena questi tre testi di Müller, ispirati alla mitologia greca e alla tragedia shakesperiana? Quali potenzialità di interpretazione e di elaborazione scenica hanno offerto?

La scrittura di Müller lascia aperto un infinito spazio alla creazione, all’invenzione, al gioco. I testi non hanno una struttura drammaturgica definita: spesso contengono elementi non continuativi, riferimenti eterogenei alla letteratura e riflessioni meta-teatrali; inoltre viene dato spazio ai sensi e alla corporeità. Sono stati i ragazzi a scegliere in totale autonomia i testi di Müller, che presentano tematiche totalmente differenti, dalla tragedia dei migranti alle forme di crudeltà dell’uomo verso i propri simili, fino al cabaret. L’intenzione era proprio quella di fornire un materiale totalmente libero ai giovani registi per poter sperimentare partendo dalla loro sensibilità senza dover seguire troppe regole, per creare propri universi scenici senza limiti né confini. Al di là del risultato finale, è stato un grande esercizio d’immaginazione.

Com’è stato seguire i tre giovani registi (Tommaso Capodanno, Paolo Costantini e Marco Fasciana) e gli attori coinvolti durante il processo creativo?Corsetti1

È stata un’esperienza intensa. Gli allievi si sono confrontati con grande entusiasmo e senza schemi mentali dentro questa materia ruvida, scomoda, violenta e terribile che è la scrittura di Müller. All’inizio non è stato facile. Per chi fa teatro, avvicinarsi a un testo di Müller per la prima volta è spiazzante: ci si ritrova davanti a un deserto infinito, senza più riferimenti né certezze. Per fare un paragone, è come quando si chiede agli allievi del Conservatorio di suonare Schönberg: una musica che non ha forma, che non è fatta di melodie, ma di dissonanze che graffiano l’anima. Con lo studio e la ricerca, i giovani hanno poi ritrovato entusiasmo e coraggio. Si sono persi, hanno ritrovato il cammino, si sono persi di nuovo, e alla fine hanno trovato la giusta strada. In questa meravigliosa alternanza di smarrimenti e illuminazioni, comune a ogni processo di creazione artistica, io li ho solo aiutati a proseguire; il percorso però lo hanno deciso loro.

I testi sono messi in scena in una sorta di spettacolo itinerante che coinvolge tre spazi presso Villa Piccolomini. È soddisfatto della location?

Sì, mi piace tantissimo. Si tratta di un luogo fortemente connotato, ma nello stesso tempo anche molto aperto e libero, che può essere letto e interpretato in tanti modi diversi. Funziona e si adatta alla perfezione per il tipo di progetto che avevamo in mente, così come funzionava l’anno scorso quando abbiamo rappresentato l’opera di Kleist. Adoro la Serra abbandonata nel mezzo della vegetazione (luogo di Paesaggio con Argonauti e Tito Andronico N.d.R.). Il grande salone all’interno della Villa, così intriso di passato, è la sede ideale per il cabaret estemporaneo di HamletMaschine: è come se fossimo da qualche parte a Berlino.

Come deve essere il teatro per sopravvivere ancora oggi?

Il teatro non deve sopravvivere, deve vivere. Per farlo, deve essere quindi un teatro vivo. Bisogna che durante uno spettacolo succeda sempre qualcosa e che si compia un processo, una trasformazione. Serve che gli attori vivano intensamente un’esperienza attraverso lo spettacolo, coinvolgendo di conseguenza anche il pubblico. Il teatro non è parola scritta, letteratura: è un’arte che deve rinnovarsi ogni singolo giorno, grazie al vigore e alla presenza fisica degli attori. Deve porre interrogativi, sconvolgere, mettere in discussione i grandi enigmi di cui è fatta l’esistenza. È lì che il pubblico si ritrova. Se questo accade, il teatro non deve più porsi la questione della sua sopravvivenza, perché già vive.

Michele Alinovi
23/02/2017

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