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Recensito incontra il regista di "Echoes", Massimo di Michele

Al Teatro India, dal 19 al 29 aprile, va in scena “Echoes”, diretto da Massimo Di Michele e tratto dal testo del giornalista e drammaturgo inglese Henry Naylor. Lo spettacolo, in prima nazionale italiana, è incentrato su due storie di violenza contro le donne. Negli spazi dell’Accademia Silvio d’Amico il regista racconta agli allievi del Master in Critica Giornalistica l’iter di messa in scena del dialogo fra due echi: quello di Tillie (Federica Rosellini) e quello di Samira (Francesca Ciocchetti). Con fare amichevole e spirito performativo, Di Michele si esprime con passione ed entusiasmo.

Qual è il tema principale di “Echoes”?

“La femminilità come eco. Siamo in un’epoca senza tempo, in un limbo in cui due donne si incontrano e parlano sì sé. La prima cosa che ho immaginato sullo spettacolo era che le protagoniste fossero due donne dialoganti, non volevo mettere in scena due monologhi”.

Hai lavorato su un testo contemporaneo che in Italia non era mai stato messo in scena. Puoi raccontarci com’è nata la decisione di realizzare questo spettacolo?

“Prima di scegliere di lavorare su “Echoes”, vincitore del festival di Edimburgo, ho letto ben 77 testi in due mesi; questo mi è piaciuto particolarmente e ho cominciato subito a immaginare come avrei voluto metterlo in scena. Echoes1Un testo per me funziona se, quando ho finito di leggerlo, comincio a viaggiare con la mente”.

La regia è interamente frutto della tua mente. Qual è il punto di partenza per mettere in scena un testo?

“Attingo dalla vita reale e poi rendo tutto astratto. Vivere è la cosa più importante e il teatro è un’altra cosa, bisogna distinguere tra realtà e immaginario”.

Il testo è scritto e diretto da un punto di vista maschile. Pensi che sia giusto che un uomo parli di violenza sulle donne?

“È necessario. Io da uomo mi vergogno vedendo altri uomini fare certe cose. Se una donna viene maltrattata e uccisa il problema non è solo delle donne ma anche e soprattutto degli uomini. Un discorso fra sole donne diventa autoreferenziale e fine a sé stesso. Spero che il mio contributo sia di buon auspicio”.

Cosa intendi per violenza di genere?

“Gli abusi sulla donna rientrano in un bacino più vasto. Dobbiamo chiederci perché oggi esiste la violenza. Gli attentati sono forse un eco di quello che abbiamo fatto noi occidentali durante il colonialismo?”

La violenza torna sempre indietro, le donne sono vittime di un odio universale che supera le differenze di genere e trova echi in una realtà attuale di terrorismo. Ma la tua messinscena è etichettata come femminicidio. Come valuti il significato di questa parola?

“Per me è solo un termine dal significato generico: non comprende solo l’omicidio ma ogni forma di violenza che intacca l’universo femminile. Nonostante questo ho cercato di rendere il racconto meno retorico possibile”.

C’è rimedio alla violenza?

“L’eco si perpetua: si tratta di un parallelo fra la donna dell’Ottocento e la donna di oggi e la realtà non è cambiata. L’elemento di cambiamento nel mio spettacolo è il fatto che la donna, da vittima, si trasforma in carnefice”.

Sembra che si sia ribaltato anche il rapporto fra donne e maternità: quest’ultima è il fine delle protagoniste mentre nel mondo di oggi lo scopo primario è il lavoro e la conseguente rinuncia all’essere madre.

“Esattamente. Tillie e Samira cercano la maternità perché è un dovere ed è la religione che impone loro questo; il fatto che nessuna delle due ci riesca mina la loro essenza femminile”.

Come hai scelto le due attrici in relazione al testo?

“In realtà ho modellato il testo su di loro. Per esempio ho omesso l’età: non dico che sono diciassettenni. Le ho scelte perché sono molto diverse eppure complementari. Federica ha già lavorato con me, c’è una grande intesa; interpreta il ruolo di Tillie, una donna più realistica, più intuitiva. Francesca interpreta Samira e si è molto emozionata durante il percorso di immedesimazione”.

Come sei solito lavorare con gli attori?

“Il lavoro con gli attori è importantissimo. Il fine non è soltanto la messinscena ma anche una crescita umana, un percorso emotivo, psicologico e fisico. È necessario lavorare con leggerezza e creare un clima di serenità anche quando si affrontano tematiche serie. L’attore non deve essere comandato ma usato come artista, come parte creativa del lavoro. Credo nello scambio reciproco”.

In “Echoes” convivono recitazione e coreografia. Come hai unito questi due linguaggi?

“Da una parte sono sempre alla ricerca di nuovi modi di esprimersi. Dall’altra vedo una grande attinenza tra movimenti e parlato.Massimodimichele2 Abbiamo lavorato su un doppio binario, quello della drammaturgia del corpo e quello della drammaturgia della parola. Ho fatto grande uso di gesti simbolici e ricorrenti”.

I gesti coreografici rimandano alle danze indiane e medio-orientali che utilizzano una tecnica chironomica emblematica...

“In realtà non hanno niente a che fare con queste danze. I gesti descrivono azioni, pensieri ed eventi. Ho avuto il piacere di collaborare con Francesca Zaccaria che ha studiato con Pina Bausch. Sono da sempre un grande amatore della danza contemporanea e del linguaggio del corpo e molte cose sono nate dall’improvvisazione, da un’idea mia o di Francesca; il secondo passo è quello di sviluppare i movimenti accennati, plasmandoli sulle capacità delle due interpreti”.

In scena vediamo dei tubi gialli. Puoi spiegarci il perché di questa scelta?

“Ho scelto dei tubi perché si annodano e s’intrecciano e per me sono una metafora dei grovigli dei pensieri che imprigionano Tillie e Samira. La scelta del giallo, poi, non è casuale: per citare Van Gogh è il colore dell’urlo e il colore di Dio e non a caso si tratta di un testo con una forte valenza religiosa. Il tubo può inoltre rappresentare un tunnel attraversato dalle due donne, oppure simboleggiare le loro vene".

Le donne indossano abiti chiari. C’è una simbologia legata al colore dei costumi?

“I costumi sono color carne perché io volevo in scena due donne nude, più nello specifico due bambole rotte nude. Ho detto ad Alessandro Lai, costumista importantissimo e mio amico, che mi sarebbe piaciuto vedere sul palco delle barbie”.

Qual è il tuo rapporto con la critica teatrale?

“Credo che il web abbia in parte distrutto il ruolo del critico. Una critica può essere positiva o negativa ma deve sempre essere argomentata. Succede troppo spesso di leggere recensioni che assomigliano a post di Facebook scritti male. Faccio parte di una generazione di registi che ha imparato a non dare troppo peso alle stroncature, credo sia parte del gioco”.

Da regista, qual è la più grande soddisfazione a cui aspiri?

“Sono egoista, faccio gli spettacoli per me. Vedo la messinscena come una tela bianca da disegnare e il primo da soddisfare sono io. Come seconda cosa l’emozione vera del pubblico che non si riscontra quasi mai alla prima recita. Nella prima c’è troppa emozione. Sono un attore, so come ci si sente”.

Benedetta Colasanti, Chiara D’Andrea 28/04/2018

Recensione "Echoes": https://www.recensito.net/teatro/echoes-henry-naylor-massimo-di-michele-teatro-di-roma.html

 

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