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Il corpo e la voce dell’Altro: l’intervista a Domenico Iannacone

In occasione della messa in onda del nuovo programma televisivo Che ci faccio qui, abbiamo intervistato il suo autore, nonché noto giornalista, Domenico Iannacone, che si è voluto raccontare con estrema cura e profondità, la stessa che da sempre caratterizza il suo lavoro.

Quello che più colpisce nel tuo modo di intervistare è un forte livello empatico ed emotivo. Chi guarda trova difficile restare con occhi asciutti. Ci riferiamo alle interviste a Ezio Bosso (hai iniziato a parlare a sottovoce, proprio come il grande musicista) o agli ergastolani di Volterra e a molti altri. Ritieni che questo toccare le corde più intime dell’umano sia la tua personale vocazione?

"Ritengo che sia il mezzo più efficace per arrivare agli altri, per conoscere gli altri. Se la dovessi definire in una sola parola è la mia maieutica: il meccanismo che mi permette di abbattere le distanze, di non trovare ostacoli emotivi e di entrare in empatia con gli altri. Per quanto riguarda Ezio Bosso, ho iniziato a parlare a sottovoce come a dirgli: io sono come te. Era come se fosse la nostra sinfonia, il nostro tono della voce; avevamo bisogno di avere lo stesso tipo di intensità. Pensate che dislivello ci sarebbe stato, se io avessi alzato anche di un decimo la mia voce rispetto alla sua, che in quel momento era sofferente. La voce è la nostra modulazione interiore. Amelia Rosselli, una delle più grandi poetesse italiane, raccontava sempre che ognuno di noi ha degli spazi metrici che possiede, anche inconsapevolmente - anche voi li avete, anche io che sto parlando con voi li ho -; è come una scansione, è il ritmo dell’anima che si esprime attraverso le parole per consentire a ogni cosa di venire fuori. Un altro aspetto su cui faccio delle resistenze, quando entro in relazione con qualcuno, è quello del tu e del lei. Il lei, paradossalmente, seppure nelle diverse situazioni, dovrebbe essere dato in base all’età. Devo trovare l’escamotage per non sembrare irriverente; ma il tu non è un becero abbassamento del rapporto, bensì una chiave d’accesso. Se tra me e loro ci fosse il lei, sarebbe come un ostacolo nell’entrare nella vita dell’altro. In fondo, le cose che mi vengono raccontate sono così intime che il lei risulterebbe un qualcosa di distonico".

Il tuo rapporto con l’intervistato sembra sempre delicato, riservato, professionale, ma allo stesso tempo familiare. Ci sono stati momenti in cui, intervistando, ti sei sentito a disagio o scomodo, o hai visto “oltre quello che vedevi” come nella puntata La forma delle cose in Che ci faccio qui?

"Nella mia vita ho cercato di avere una bussola. Io sono testimone di qualcos’altro e, in quanto testimone, devo avere la certezza di non far perdere all’intervistato la propria dignità. C’è una cosa che racconto sempre ed è che un po’ di anni fa lavoravo in una trasmissione che si chiama Presa diretta; mi occupavo di mafia al nord. Raccontavo la ‘Ndrangheta in Piemonte e mi capitò, per una questione casuale, di incontrare la moglie di un signore accusato di far parte dell’associazione criminale: era un imprenditore di un comune che si chiama Leini, sciolto poi per infiltrazione mafiosa, che era stato sindaco, ma poi accusato e rinchiuso in carcere; in quel periodo facevo un giornalismo d’assalto e meno meditativo. Un giorno passavo dinanzi alla casa di questo signore e incalzando la moglie, le ho chiesto come mai non fosse a conoscenza del fatto che suo marito incontrasse personaggi mafiosi. Lei rispondeva in maniera quasi candida, dicendo di non sapere nulla, di non capire niente e più continuavo ad incalzarla, più lei si ritraeva. In quell’attimo è arrivato il postino e lei, non curandosi del fatto che io fossi lì, ha aperto una lettera con scritto: “Cara…, ti scrivo dal carcere”. Il mio operatore si è fiondato subito sopra il foglio e io ho capito come, in realtà, quell’attimo fosse quello giusto per fermarmi; misi io stesso la mano sulla telecamera e spinsi indietro l’operatore. Questo per me era lo spartiacque. Il limite che io non potevo valicare. L’assoluta certezza di non far perdere agli altri la dignità".

Il tuo dar voce agli emarginati, alle periferie di quartieri un po’ dimenticati, che fanno poca notizia, mettendo in risalto l’umanità, è una cifra stilistica ben precisa. In qualche modo le tue puntate rendono straordinario l’ordinario, la gente comune ed invisibile. Da dove nasce questa tua passione?

"Nasce da un retroterra culturale, dalle mie letture, fatte di scritti di Pasolini, di reportage, di meccanismi che mi hanno condotto anche a toccare le vicende degli ultimi. Ho una forte propensione per loro, come se sentissi quasi un bisogno intimo di contatto. Credo che la parte migliore della narrazione si muove nelle periferie. È lì che trovo una forte carica identitaria. Io credo che i personaggi che ho incontrato abbiano a che fare con un rapporto diretto con l’anima, in qualunque condizione essi si trovino. Questo mi permette di trovarci un’umanità nascosta. Mi piace pensare come ci sia una forma inaspettata di salvezza posta davanti ai nostri occhi".

In ogni servizio che fai, porti avanti, in parallelo, sempre due concetti: Rinascita e Ingiustizia. Questo perché credi fortemente che la testimonianza diretta sia uno dei pochi sistemi che abbiamo per dare voce, risalto e realtà a entrambi questi due termini?

"Se vi riferite al caso dei superstiti della strage di Viareggio, c’è una forma di sofferenza che non si risana mai. Le cicatrici non possono essere cancellate, sono tracce sul corpo. Io credo che in questi casi la ricerca della verità, diventi motivo di esistenza. È quando questa ricerca viene negata che ci si allontana dalla vita. Lì si è di fronte a personaggi intervistati, ciascuno con una propria volontà. Daniela, questa signora che ha perso la figlia dopo un’agonia terribile, era evidente che avesse bisogno di trovare una verità che, anche se scomoda, le avrebbe permesso di elaborare il lutto. Ci sono regole nel racconto che spesso portano a trovare dei meccanismi tali da permettere alle persone che vivono situazioni estreme di rinascere. Io non sono uno che racconta storie, un pessimista. Penso che ci sia sempre qualcosa che viene a salvarci: è come se avessimo un’ancora di protezione che ci permetta di dire: Va bene. Ce la possiamo fare".

In Che ci faccio qui dichiari come il corpo diviene testimonianza di sofferenza, fragilità e ingiustizia. Allo stesso tempo, però, mostri come quello stesso corpo può diventare amore e rinascita. Questo concetto ci ha riportato al pensiero di uno scrittore, Brian Weiss, che scrive: “I nostri corpi sono solo i personaggi sul palco, mentre le nostre anime gli attori. Mentre recitano il dramma, i personaggi possono trovarsi coinvolti in disgrazie terribili, possono addirittura morire. Ma gli attori no. Dal punto di vista della nostra immortalità, nell’eternità che trascende il tempo, ogni cosa è esattamente come dovrebbe essere”. Non trovi, quindi, che quello che è più emozionante alla vista del fruitore, non sia tanto il corpo in sé come testimonianza del dolore, ma proprio il processo interiore che ciascuno dei tuoi intervistati fa, nell’anima, come riflesso di quell’amore e rinascita personale?

"Certo, si riallaccia molto al concetto espresso prima. È il mio corpo che parla per me, io con la voce mi esprimo pochissimo. Non utilizzo la tecnica delle domande a raffica, non mi servono. È quasi una presenza, una testimonianza che trasla la mia attenzione su chi sta a casa e guarda. Il mio corpo è come se dicesse: “Io sono qui, in questo momento ed in questa situazione.” Provo a dare all’altro, la persona intervistata, la certezza di essere veramente presente lì, davanti a lui. E allora tutto quello che mi viene raccontato è sempre di una purezza assoluta".

In Che ci faccio qui tu dichiari: “la pandemia chiede di allontanarsi, io voglio fare resistenza emotiva”. Questo riferimento in psicologia è associato a chi, affrontando dure prove nella vita, riesce a resistere uscendone addirittura più forte di prima. È tra l’altro un concetto che hai toccato un po’ in tutte le puntate, da Quello che resta a Io sono vivo che mostra come, letteralmente, dalle ceneri ci si può “trasformare” in acqua. Qual è la resistenza emotiva che, personalmente, stai adottando per far fronte a una situazione che ci sta piegando e ci sta facendo sentire impotenti su ogni fronte?

"In questa fase mi interessava che il mio modo di raccontare non perdesse di vista una forma legata all’emozione. Io credo che, in buona sostanza, gran parte del racconto televisivo sia diventato distante, un po’ per il distanziamento sociale, un po’ per esigenze di narrazione. Vorrei opporre resistenza a queste modalità e non allontanarmi invece da un racconto che ha bisogno di vicinanza e contatto. Io spesso le persone le tocco: c’è bisogno dei sensi, no? È chiaro che questo non si può fare ora, o si può fare di meno, però quello che conta è che io non voglio perdere la relazione, il calore emozionale tra me e chi ho di fronte. In questa serie questo è stato difficile: ha avuto le limitazioni più dure, abbiamo fatto tamponi costanti, progetti più ridotti e con pochi operatori. Non essendo situazioni molto collettive, la cosa è anche più vantaggiosa, perché si può lavorare con le modalità a me più congeniali, che non mi allontanano troppo da quanto fatto in precedenza".

C’è una frase che ci è rimasta impressa della puntata Io sono vivo ed è: “Non potendo parlare, urlavo nel silenzio”. Quante persone, secondo te, in questo periodo di distanza fisica e mentale, stanno urlando nel silenzio?

"Tantissime. Stiamo vivendo una fase di grande isolamento che porta chiunque a urlare nel silenzio. Venerdì prossimo andrà in onda un documentario, in prima serata, dal titolo L’Odissea, che racchiude tutta questa esperienza. È un racconto corale di un gruppo di persone, dove ognuna ha una propria difficoltà esistenziale. Pensate per queste persone cosa è significato il blocco. Il lungometraggio è legato alla fragilità e all’isolamento, ma non solo: ci deve far riflettere del perché il rapporto tra il chi siamo, il nostro sentirci sani e la follia è terribilmente labile. Questa cosa mi consente di fare moltissime considerazioni sul concetto di urlare in silenzio: non poter esprimere le proprie emozioni e tenerle imprigionate. Le persone a oggi sono vinte. C’è un meccanismo di rassegnazione che si crea quando non si vedono vie d’uscita e quando c’è la certezza che le proprie ragioni non saranno mai ascoltate. Penso che bisognerà ricreare una nuova costituzione che deve comprendere ogni tipo di essere vivente, dagli animali, alle piante, ai rapporti con le persone. Solo così si potrà riconquistare la speranza della vita".

Hai vinto tre volte il Premio Ilaria Alpi come migliore reportage lungo con il Terzo Mondo, con Il Progetto – Storia di un’Italia incosciente e con Evasori. Hai pubblicato un libro dal titolo Ladri. Viaggio nell’Italia degli evasori fiscali e sei stato autore di documentari di impatto sociale e di inchieste. Realizzi nel 2002 Grammatica di un terremoto sulla tragedia di San Giuliano di Puglia, e nel 2008 per Rai 3 il documentario Vacanze d'Italia. Purtroppo però, questo tipo di giornalismo, quello d’inchiesta, in Italia e, soprattutto negli ultimi anni, ha subito una crisi e un taglio nelle redazioni. Sai giustificare il motivo? Hai un consiglio per chi vorrebbe intraprendere questo mestiere di giornalista/reporter come il tuo?

"Rispetto al mezzo televisivo, in Italia, si è investito molto poco sul giornalismo d’inchiesta. Questo perchè sono nati i talk che sono l’antitesi dell’approfondimento. Solo Report è un caso isolato di giornalismo d’inchiesta a livello analitico, in cui c’è una ricerca ossessiva del colpevole. Ma tutte le altre trasmissioni sono talk televisivi caratterizzate da un giornalismo fragile: in 6 minuti non puoi raccontare una verità, non c’è tempo pratico e ci si accontenta di rincorrere delle mode. I talk sono diventati contenitori che non rappresentano il giornalismo d’inchiesta la cui deontologia è caratterizzata dalla ricerca della verità. A oggi non avendo la possibilità di farla emergere, rimane tutto sotto traccia; ci sono mezze verità che non consentono di avere la pienezza e questo comporta la non ricezione di un messaggio di integrità di chi racconta. Se dovessi dare un mio consiglio è che in qualunque condizione, se si vuole fare un racconto, lo si deve fare con profondità. Se non si dà, è come se si disperdessero energie. La profondità è un elemento essenziale per chi vuole fare questo lavoro".

C’è una cura complessiva molto meticolosa nelle tue puntate, nel montaggio, nel sonoro. A tutti gli effetti sembrerebbero dei docufilm, delle testimonianze a memoria futura, facilmente fruibili. Sei sempre in ricerca? Hai dei progetti futuri, oltre a quello in corso di Che ci faccio qui?

"In questo momento sto immaginando di lavorare sulla mappa dei sentimenti, fare una serie lunga in cui posso disegnarli e farli diventare una sorta di corollario. Le mie storie devono avere densità, devono esprimerla. Devono essere delle cartine tornasole e portarci a riflettere anche una volta finita la puntata. Bisogna continuare a elaborare i pensieri che devono restarci agganciati addosso anche giorni dopo".

Manuela Poidomani e Gabriella Birardi Mazzone 01/04/2021

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