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Adalgisa Vavassori racconta a Recensito il suo spettacolo “The hard way to understand each other”

Venerdì 27 aprile all’interno della terza edizione di Mutaverso Teatro andrà in scena “The hard way to understand each other, spettacolo della compagnia Teatro Presente, che arriva a Salerno in prima regionale .
Lo spettacolo di cui firma progetto e regia Adalgisa Vavassori, interpretato da Daniele Cavone Felicioni, Gabriele Ciavarra, Clelia Cicero, Julio Dante Greco, Adele Raes, ha vinto il Premio Scintille 2016, quello Giovani Realtà del Teatro 2016, ed è stato Selezione Visionari Kilowatt Festival 2017.
Frutto di una scrittura collettiva, “The hard way to understand each other” narra con un linguaggio originale, e che fa a meno della parola, l’incomunicabilità vigente all’interno dei rapporti umani, la difficoltà di stare assieme in un’epoca dominata da dispositivi tecnologici e forme di comunicazione che ostacolano il confronto sincero con l’altro.
Cinque attori mettono in scena i mondi interiori dei protagonisti, e lo fanno proiettando sul palcoscenico un’immagine sdoppiata di se stessi, in cui esprimono quei pensieri e preoccupazioni che non avremmo mai il coraggio di esternare, ma di cui soffriamo comunque e inevitabilmente il tormento.
In questa intervista sulle pagine di Recensito la regista Adalgisa Vavassori racconta l’origine di questo lavoro e il loro obiettivo di restituire un delicato dipinto della contemporaneità e della difficoltà di intessere relazioni profonde al giorno d’oggi.

In “The hard way to understand each other” si parla dell’incomunicabilità all’interno dei rapporti umani e relazionali proprio attraverso la mancanza di parola, o meglio con un linguaggio originale. Com’è nato questo progetto?
“L'esigenza di parlare di questo tema è arrivata dalle nostre vite personali, ma anche dalla vita di compagnia. Venivamo da un momento in cui capirci e comunicare tra di noi era diventato molto complicato, a volte anche nei momenti in cui condividevamo le stesse opinioni.
Ho proposto allora l'idea di creare uno spettacolo su questo problema con il metodo che avevamo praticato insieme e condiviso negli ultimi quattro anni, e così abbiamo fatto.
Ho creato un questionario che hanno compilato gli attori e alcuni amici e parenti in modo anonimo e partendo dalle risposte abbiamo suddiviso questo macro-argomenti in sotto-temi, per poi improvvisare insieme e creare immagini.”

Come portate in scena questa assenza di comunicazione?TheHardWay 4alta def ph. Matteo G. Teti
“Quello che portiamo in scena arriva direttamente dalla vite degli attori e la mia, siamo stati i primi a mettere a nudo le nostre dinamiche o quelle che abbiamo osservato nelle persone che ci erano vicine.
Per cercare di rendere queste “dinamiche” in qualche modo universali ho deciso di abbassare il volume della parola e usare delle immagini, delle metafore per mostrare quello che accade nei mondi intimi dei protagonisti in scena.
Non c'è affatto giudizio, ma un'osservazione su quanto sia difficile a volte capirsi.”

È uno spettacolo fortemente attuale che parla di una società che purtroppo tende a chiudersi in se stessa e a comunicare solo attraverso dispositivi tecnologici, a discapito di pensieri, sensazioni, emozioni. Secondo te, come si può far fronte a questo problema, limite? Il teatro può essere un valido strumento per riappropriarsi delle emozioni?
“Io credo che le persone non provino meno emozioni, ma che forse le mostrino di meno. Forse le paure rispetto al giudizio degli altri sono aumentate e la tecnologia non fa altro che fornirci dei comodi strumenti per aggirare l'ostacolo di affrontarle direttamente.
Trovo che sia un compito della società formare gli individui sulla gestione delle emozioni, su dar loro un nome e saperle riconoscere. Il teatro sicuramente può aiutare sotto forma di gioco nell'esercitarsi su questo, e fare da specchio per cercare di aumentare la consapevolezza collettiva.”

The hard way to understand each other” è una partitura musicale su cui il gesto si muove silenzioso. Che ruolo e che funzione hanno il movimento e la musica all‘interno dello spettacolo?
“Per come è costruito lo spettacolo gli attori non hanno margine di improvvisazione, le musiche sono state cucite sulle scene e viceversa. Ringrazio per questo Gianluca Agostini che seguendo le prove le ha composte.
La musica aiuta anche a distinguere i due livelli di linguaggio usati nello spettacolo: il contesto reale e quella che io chiamo la “bolla” ovvero la visione del mondo interiore o della dinamica del personaggio.
La mia idea è quella di affrontare il tema dell'incomunicabilità e il dolore che provoca nei personaggi con una certa ironia e leggerezza, e la musica aiuta (insieme al contesto primaverile) a mantenere questo tono giocoso, per sottolineare - dal mio punto di vista - l'autoironia con cui noi stessi ci siamo messi in gioco.”

Vi siete ispirati a qualche modello in particolare, ad esempio il cinema muto?
“Devo dire di no, o meglio non direttamente. Non abbiamo pensato ad un modello in particolare, ma sicuramente tutto quello che abbiamo visto nella nostra vista ha influenzato fortemente il risultato dello spettacolo. Quindi con molta probabilità anche il cinema muto ne fa parte.
L'idea è stata più quella di riprodurre l'osservazione di una strada dalla finestra di una casa, quindi non potendo sentire cosa dicono i passanti, intuendo dal loro comportamento ciò che sta accadendo loro.”

Chi sono i protagonisti?
“Ho iniziato questo progetto pensando a quello che sarebbe piaciuto a me vedere a teatro. Non riesco spesso ad identificarmi in grandi eroine o personaggi sopra le righe, avrei quindi voluto che parlasse di me, di una persona apparentemente “normale”, che parlasse di tutte quelle persone che vedevo ogni giorno, di quella lotta silenziosa e quotidiana che per me è la difficoltà di capirci l'un l'altro: tra passanti, tra amici, in coppia, con se stessi.”

Cosa sperate possa arrivare al pubblico?
“Quello che ci piacerebbe è far sì che lo spettatore possa riconoscersi (o riconoscere qualcuno) in alcune delle dinamiche di comunicazione che proponiamo e che magari possa acquisire una maggiore consapevolezza. Non necessariamente per cambiare quel comportamento, ma per far sì che non sia più solo un automatismo.”

Lo spettacolo, vincitore già di alcuni premi, è sicuramente frutto di un lavoro di squadra, della vostra compagnia Teatro Presente. Com’è nata e quali sono i vostri progetti futuri?
“La compagnia è nata attorno alla figura di César Brie, con cui abbiamo collaborato per cinque anni, creando insieme cinque spettacoli.
Condividiamo quindi il metodo che abbiamo appreso da lui, della creazione collettiva e il linguaggio della metafora.
Questo è il nostro primo progetto con una regia interna, io infatti sono una delle attrici della compagnia.
In futuro vogliamo continuare a seguire il nostro bisogno di rappresentare il Presente che ci circonda, portando in scena ciò di cui sentiremo l'esigenza “rispecchiare” nel pubblico, e in noi.”

Maresa Palmacci 25-04-2018

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