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Il Quartetto Prometeo illumina la “Notte delle Dissonanze” di Mozart al Teatro Argentina

Feb 09

Vienna, 12 febbraio 1785. Nel suo nuovo appartamento lussuoso e centralissimo al primo piano di Schulerstrasse 846, il ventiseienne Wolfgang Amadeus Mozart riceve la visita (l’ultima) del padre: vuole toccarne con mano la fortuna, il vecchio Leopold, verificare che il figlio si sia fatto il suo posto nella capitale austriaca, e il compositore ha organizzato una serata speciale apposta per convincerlo a mettere da parte ogni avversione per le sue scelte azzardate. Dopo la rottura con l’arcivescovo di Salisburgo Hieronymus von Colloredo nel 1781, l’insediamento nella Vienna giuseppina come musicista di professione, indipendente dagli obblighi del mestiere di Konzertmeister stipendiato, rischia infatti di tramutarsi per Mozart in un salto nel buio; ma ai suoi concerti da camera gli spettatori sono molti e influenti, gli altri canali attraverso cui può sostentarsi (tramite le lezioni private e i buoni rapporti con gli editori) sono in attivo e l’ingresso alle logge massoniche sancisce ormai il suo pieno riconoscimento entro l’establishment asburgico. Quella sera, dunque, Mozart vuole festeggiare nell’intimità raccolta della casa e degli affetti il gran passo verso il successo. Sono almeno sette gli invitati: oltre a lui, al padre, alla moglie Constanze e al primo figlio (Karl Thomas) che sia riuscito a sopravvivere, anche i fratelli baroni Anton e Bartholomäus von Tinti e il compositore vivente più famoso dell’epoca, nonché padre putativo di Mozart, Franz Joseph Haydn. Era già capitato, soltanto un mese prima, che Haydn fosse presente a una delle sedute quartettistiche salottiere del suo allievo prediletto: in quell’occasione Mozart aveva celebrato l’anziano maestro eseguendo insieme a lui i primi tre dei sei “Quartetti” per archi, composti fra il dicembre 1782 e il gennaio 1785, che gli aveva dedicato. Ma questa volta la stima profonda di Haydn verso il giovane talento salisburghese si sarebbe spinta fino a far commuovere il buon Leopold: «Affermo davanti a Dio, da uomo onesto, che vostro figlio è il più grande compositore che io conosca, di persona o per reputazione; ha del gusto e, inoltre, la più grande scienza della composizione».
Ora, pare opportuno ricordare tutto ciò perché tante furono invece le perplessità che il sesto quartetto del ciclo (eseguito per la prima volta quella sera verosimilmente dagli stessi ospiti), il n. 19 in do maggiore K. 465 (detto “delle Dissonanze”), suscitò tra i contemporanei all’indomani della pubblicazione e, ancora per tutto l’Ottocento, presso i mozartiani più fanatici. L’Adagio introduttivo possedeva una tale arditezza armonica da far parlare alcuni censori di «eccessiva speziatura», se non addirittura di stonature (le incomprese dissonanze, appunto) da «orecchio guasto». Tuttavia, ad ascoltare le ventidue battute che il violino primo ripete nella frase d’apertura, non si può non leggervi la modernità di un autore che, mediante intervalli allora proibiti della sintassi armonica, si libera dal razionalismo invalso di Haydn per privilegiare un materiale di impronta più dotta e un’elaborazione contrappuntistica in cui si intravede l’omaggio all’antica dottrina tedesca di Bach e Händel.
Era un po’ questa, del resto, la vocazione del quartetto d’archi (e più in generale della musica da camera): anticipare i tempi grazie alla qualità essenziale dei suoi componenti, come un «vascello che getti lo scandaglio nei mari più profondi» (Luciano Berio). Due violini, una viola, un violoncello che, nel concerto-racconto eseguito al Teatro Argentina di Roma giovedì scorso, all’interno della stagione concertistica dell’Accademia Filarmonica Romana, dall’attivissimo e pluripremiato Quartetto Prometeo (composto da Giulio Rovighi, Aldo Campagnari, Massimo Piva e Francesco Dillon) con voce narrante del critico e storico della musica, Sandro Cappelletto (autore del libro “Mozart: la notte delle dissonanze”, edito da EDT nel 2006), hanno restituito magistralmente la dialettica della partitura incriminata, sintesi ideale fra identità dei singoli e omogeneità dell’insieme. Anche quando la scrittura rientra nei binari delle relazioni ammesse nell’Allegro brioso che segue o nell’ampio Finale sonatistico (dove l’imprevisto si affaccia nelle pause improvvise o nelle tonalità inattese dei giochi imitativi tra violino e violoncello), si percepisce un’incertezza di fondo, uno smarrimento, un’«ansia», come – spiega Cappelletto – di «un’anima rotta, spezzata, che non trova ascolto, che vaga dentro».
Mozart fu il primo compositore a esplorare l’abisso dell’inconscio col quartetto, ma non fu l’unico: il n. 14 in do diesis minore op. 131, monumento dell’ultima produzione di Ludwig van Beethoven (15 agosto 1826) e secondo pezzo in programma, è attraversato dallo stesso mistero, dalla stessa inquietudine del suo precedente illustre. L’indeterminatezza dei brevi incisi tematici basati sull’uso del semitono come cellula motivica essenziale sembra di nuovo volerci introdurre entro l’atto creativo, nel laboratorio delle idee dell’artista. Il ritmo, la melodia, l’armonia sono scomposti quasi fino alla disintegrazione. «Non custodire più il segreto della tua sordità» scrive Beethoven in un’annotazione autografa rendendo omaggio all’altro genio “duro d’orecchi”, Mozart. Muovendosi entrambi verso l’autonomia del frammento, avevano sposato una tendenza suicida, decretando la fine di quel linguaggio proporzionato fra aree tonali, temi e sviluppi che fu la grande conquista del tardo Settecento musicale.

Valentina Crosetto 09/02/2016

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