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Cinquant'anni senza Luigi Tenco, cantautore primigenio

Gen 27

"Io suonavo [...] ma non ero contento, mi è sempre piaciuto suonare con qualcuno che capisca, invece quelli non volevano che gridare più forte. Toccai ancora la chitarra andando a casa e qualcuno cantava. La nebbia mi bagnava la mano. Ero stufo di quella vita" (Cesare Pavese. Incipit di "Il compagno", 1947)

Sembra così complicato diventare un mistero. Eppure basta una notte, forse meno. Tra il 26 e il 27 gennaio di cinquant'anni fa Luigi Tenco si è avvolto in un alone scuro, da cui è difficile ma necessario divincolarsi. La cronaca e il pettegolezzo offuscano la lucidità del racconto di un personaggio primario – se non fondamentale – per la storia della nostra canzone d’autore, non foss'altro perché a lui è intitolato il Premio Tenco, che ogni anno ne tasta il polso.
"Piccolo principe che non credeva nella morte, giovane angelo che girava senza spada", Tenco era uno che non nascondeva le proprie idee perché non poteva, non gli era permesso dalla storia. Il primo accordo contrattuale con la Ricordi è datato 1959. Cantacronache, movimento di opposizione alla canzonetta figlia del melodramma simboleggiata dalle gastronomie melodiche sanremesi, era nato da due anni. Ha iniziato a operare nella musica – prima come sassofonista nel giro che coinvolgeva anche De André e Gino Paoli – quando la canzone d'autore era ancora un embrione nei vicoli di Genova, in un Paese ancora agganciato all'idea consolatoria del boom economico e cieco di fronte alla progressiva invasione della mercificazione dell'arte, che Pasolini cominciava a gridare. Il movimento torinese raccontava l'Italia da una prospettiva anticonformista, reinventando il folklore popolare in funzione di protesta. I modelli erano precisi: il realismo, la canzone civile di Brecht – marchio forte anche della scuola milanese – il folk americano e la tradizione francese.
Queste tre dimensioni Tenco le ha attraversate tutte, distanziandosi dal linguaggio artefatto e virtuoso di certe canzoni dell’epoca e facendo collimare il vissuto – il disagio, la protesta, l’amore – con il cantato. A Brecht aggiungeva non tanto la vis partigiana che connotava i canti di Liberovici e Amodei, quanto il travaglio esistenziale narrato da Pavese o da Leopardi. Nei versi sciolti di Luigi Tenco si annoda lo stile anti-convenzionale creato da chi non aveva bisogno di urlare più forte come volevano fare quegli altri (un po’ quello che Piero Ciampi trasformerà in chiave maudit-bohemienne). Gli bastava suonare: un piano, un sax, una chitarra, la voce, che si sposava spesso sillabicamente con le parole.
L’esaurirsi dell’esperienza di Cantacronache ha coinciso con il primo dei suoi tre dischi (il suo canzoniere raccoglie più o meno cento episodi). Era il 1962. L'ironia sulla Chiesa non era gradita, la figura di una donna libera tanto meno. Lo scotto per la schiettezza era l'inibizione, che rende necessario il rifugio in un mondo surreale, in una valle dove morire lontani da patimenti evitabili e conflitti astiosi. La sua scrittura diretta trova spunti di matrice quasi buzzatiana, in cui l’idiosincrasia si manifesta non solo nei confronti dello spazio, ma anche del tempo; un tempo interiore e contraddittorio, e uno esteriore ancorato a ricordi di amori quotidiani inseriti in una composizione non emotiva ma sincera (“Mi sono innamorato di te”), o proteso in voli verso il futuro (“Quando”, “Lontano lontano”, “Un giorno dopo l’altro”, “Vedrai vedrai”).
Tenco era uno, un io libero. Io lirico che aveva l’unica, semplice e umana ambizione di essere compreso. Una versione silente e fascinosa di un fanciullino che “piange e ride senza un perché di cose, che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione” (Pascoli, "Il Fanciullino" 1897, cap. III). La sua poetica ha un che di rivoluzionario se si pensa al filo, nemmeno troppo sottile, che lo lega alle figure autoriali a lui coeve e successive. In primis a De André, che di ritorno dal funerale dell’amico ha scritto una preghiera piena di amore e rabbia, primo brano del suo primo album, "Volume I". Era il 1967: “Signori benpensanti/spero non vi dispiaccia/se in cielo, in mezzo ai Santi/Dio, fra le sue braccia/soffocherà il singhiozzo/di quelle labbra smorte/che all’odio e all’ignoranza/preferirono la morte”.


Nell’immaginario collettivo Tenco rimane un mistero, perché legato forzatamente a un unico, tragico, fatale istante. Ma era una figura vera, un cantautore primigenio che scriveva e cantava se stesso per gli altri. Era oltretutto un compositore raffinato, che sapeva unire suoni più melanconici e spigolosi a fresche ballate, pigiate struggenti a proteste in chiave jazz, l'intimismo alle pillole di sarcasmo, il lirismo da camera a una prosa coriacea e spesso faticosa, ma dall’armonia sapiente.
"Ti ricorderai di me quando m'avrai perduto e ripeterai le frasi che io t'ho insegnato". Tenco era un monito. Ai giovani del suo tempo, a se stesso, io con cui dibatteva. Ma è nei decadenti tempi odierni che, forse, la sua verità trova attualissima applicazione, a leggere le poche righe lanciate come una folgore da Salvatore Quasimodo su “Il Tempo” il 10 febbraio 1967. “E non siamo forse un po’ tutti responsabili dell’atto estremo del cantante, noi che esaltiamo e sopportiamo il carosello del festival, da anni, senza esigere nemmeno un livello minimo di intelligenza nei contenuti delle canzoni? [...] I giovani e in questo caso i cantanti, i divi, sono esseri viventi e non prodotti da lanciare sul mercato e da gettare via quando i gusti dei consumatori reclamano una nuova etichetta”. Le canzoni di Luigi Tenco parlano di un disagio forse illecito per le assonnate menti benpensanti, placidamente e tristemente adagiate su ciò che non le scuote e non le porta a riflessione. Su questo insiste Quasimodo: "chi non è in grado di domandare un minimo di intelligenza a una canzone non può certo capire una morte".

Daniele Sidonio 27/01/2017

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