Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 617

Teatro dei Venti: maestrale per Angeli o scirocco per Demoni?

Visto al Teatro delle Passioni di Modena il 21 giugno 2015.

Foto: Chiara Ferrin. 


Ci sono canti che non dimentichi. Che si attaccano alla pelle, sotto la pelle, ed entrano nel sangue, lenti e prepotenti, evocando richiami dimenticati, ricordi ancestrali, passaggi di tempo. Canti che si fanno preghiere, ripetizioni di forme sonore, che partono dalla pancia e attraverso l'ugola si espandono al mondo. Un mondo straniero, lontano, che prende distanza dalla diversità che avanza a un ritmo incessante e incontrollato (incontrollabile?), in cui pregare non serve - perché si chiudono gli occhi di fronte ai ponti e alle speranze - ma sicuramente aiuta. 
Gli Angeli e i Demoni del Teatro dei Venti sono così, anime rivolte al cielo, anime spiaggiate, anime alla deriva, che dalle prediche armoniche e penetranti dei minareti si ritrovano, scaraventati al ritmo incalzante dei tamburi, a scavare nelle pieghe della morte e del dolore, a cercare una salvezza in battesimi di mare e di terra.
La terza tappa dello studio sulla Gerusalemme Liberata – creato sulla base di un laboratorio artistico con detenuti e internati della Casa di Reclusione di Castelfranco e della Casa Circondariale di Modena, insieme agli attori della compagnia e a giovani corsisti del Teatro dei Venti – scorpora e rende minimale l’opera di Tasso, la attualizza e la mette a nudo, lasciando sullo sfondo deserto, arsura, odore di sangue.
La messa in scena del regista Stefano Tè ha una struttura circolare come la nenia ossessiva di un rosario o del valzer di Shostakovich – quello che frigge nella festa di “Eyes Wide Shut” - entro la quale i gesti passano di mano e in mano e ci parlano di morte e di vita, di resurrezione, con poesia, intensità, lucidità.
Undici uomini al centro di un’arena simbolica e scarna si preparano alla battaglia e alla difesa attraverso una danza tribale che sembra restituire il cuore alla terra. Ogni gesto diventa rito, tentativo d’intimidazione e di protezione al tempo stesso, dove le parole si annullano o si dipanano. La narrazione, infatti, è affidata ai corpi, ai movimenti degli attori e dei carcerati (con cicatrici di vita evidenti sopra e sotto la pelle), delle donne (tanto importanti nella drammaturgia, a livello simbolico), degli adolescenti dallo sguardo pulito e dai vestiti colorati; s’incontrano, si scontrano, si confondono, si contaminano.
Tè è abile a rendere la dicotomia potente e struggente (nonostante la fuga di tre carcerati, nei giorni precedenti allo spettacolo, abbia rischiato di indebolire l’equilibrio di questo lungo e faticoso lavoro), senza scendere in cliché o banalizzazioni; non si limita a contrapporre musulmani e cristiani, luce e ombra, ma va oltre. Gli Angeli e i Demoni non hanno identità o ideologia stigmatizzata, non ci sono buoni o cattivi, ma disperazione e speranza, dolore e volontà di espiazione, amore e vendetta. Le donne, infatti, vestite in nero (tranne una in bianco, angelica, che sembra quasi volare, nella prima parte dello spettacolo, sopra al corpo esanime di una delle vittime) sono qui anime di morte e di malattia, simboli di contagio, di barriere decadenti, di impotenza: di grande impatto è la lotta tra due ipotetici Tancredi e Clorinda, con un ribaltamento narrativo rispetto all’opera del Tasso. Sarà lei a uccidere, ma soprattutto a svelare e a riconoscere l’identità dell’altro, attraverso un pianto straziante, disperato, redentore, come a dirci che solo l’amore può tenere in vita le persone, ma è un dono per pochi. Seguirà il naufragio, a braccetto con il rinnovamento: sono i giovani a invadere la scena sul finale, con colori e sorrisi, raccolgono i soffi di vita di chi – come ultimo sforzo – si appella a un qualsiasi dio per chiedere carità e perdono e ne ripercorrono i gesti iniziali. Si battono il petto per sfidare la sorte e rivendicare un’identità certa, si sporcano il volto con la sabbia, la terra, per non dimenticarsi mai di un legame che va oltre il sangue.
Con Stanze di Teatro in Carcere (http://www.teatrocarcere-emiliaromagna.it/progetti/stanze-2015/), Teatro dei Venti porta avanti una poetica teatrale e di vita che tutto prende, tutto assorbe e tutto illumina, donando, sia a chi osserva, sia a chi vi si sporca le mani un nuovo punto di partenza, una smisurata preghiera che suona più o meno così:
“(…) ricorda Signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco, non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti, come una svista, come un'anomalia, come una distrazione, come un dovere” (Fabrizio De Andrè).  
 
Giulia Focardi 27/06/2015

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM