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Si possono fare film non tipicamente italiani in Italia? Ma in fondo, cosa significa fare un film italiano?
Troppo spesso questa accezione sta a intendere un cinema “chiuso nelle sue stanze”, per citare Majakovskij, intrappolato nelle varie declinazioni di quella commedia che tanto ci ha fatto conoscere e apprezzare nel mondo ma che, ad oggi, non sembra regalare più le emozioni di un tempo. Ma il cinema italiano è anche sogno, meraviglia, stupore (si pensi ai capolavori di Fellini).

Paola Randi è una regista che osa e il suo “Tito e gli alieni”, presentato alla Casa del Cinema di Roma il 4 giugno, esplora territori semi-sconosciuti al pubblico nostrano, non abituato alla fantascienza made in Italy e proprio per questo rappresenta un tentativo di mettersi in sintonia con i suoi nuovi desideri.

Valerio Mastandrea è un professore che, da quando ha perso sua moglie, passa il tempo su un divano nel deserto del Nevada, accanto alla misteriosa Area 51, contemplando le stelle e ascoltando il suono dello Spazio. È uno scienziato, dovrebbe lavorare ad un progetto segreto per gli Stati Uniti ma è chiuso nell’intimità del suo mondo e si lascia andare a giornate tutte uguali, senza uno scopo preciso, galleggiando nel torpore. Il suo solo contatto con il mondo è Stella (Clémence Poésy), una ragazza che organizza matrimoni spaziali per turisti a caccia di alieni. Un messaggio da Napoli gli cambia la vita: suo fratello sta morendo e gli affida i suoi figli.
Anita e Tito (Chiara Stella Riccio e Luca Esposito, perfetti nelle loro parti) arrivano aspettandosi Las Vegas ma ritrovandosi, di fatto, in mezzo al nulla, in un luogo strano lontano dal mondo e per di più nelle mani di uno zio che è “un macello”.
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Paola Randi evoca più che esplicitare – come lei stessa ha spiegato nella conferenza stampa – gli elementi fantascientifici e li coniuga in modo delicato ma sapiente con il totem di ricordi costruito (letteralmente) dal professore attraverso l’incrocio di una ripresa dal vivo e di ricostruzione digitale. 
Il risultato è un film dolcemente vintage, con reminescenze spielberghiane che si incontrano perfettamente con gli echi di quella napoletanità profonda, fatta di superstizione e fede nella quale un ipotetico dialogo con l’aldilà non risulta così assurdo (il cameo di Gianfelice Imparato, in questo senso, rende il tutto ancora più credibile). Soprattutto, è un film italiano nella miglior accezione possibile, dove la risata e la lacrima creano un connubio intenso e mai scontato.

“Tito e gli alieni” è prodotto dalla BiBi Film e Rai Cinema, in associazione con TimVision e con il sostegno della Regione Lazio. Distribuito da Lucky Red sarà nelle sale dal 7 giugno.

Giorgia Sdei  06/06/18

Come ogni supereroe che si rispetti anche Deadpool ha diritto ad una nemesi. Sin dalla sua nascita cartacea però Wade Wiston Wiston - questo è il suo vero nome - si è palesato come diverso da tutti gli Altri: teledipendente, ironico, omnisessuale, politicamente scorretto e soprattutto logorroico, tanto da essere soprannominato: “the merc with a mouth”, che più o meno suona come “il mercenario chiacchierone”. È da un’idea di Rob Liefeld e Fabian Nicieza che nel 1991 nasce il più eccentrico supereroe Made in Marvel. A contraddistinguerlo anche in “Deadpool 2” - da martedì 15 maggio nelle sale italiane - è l’avversione a tutti gli schemi ed i codici di comportamento socialmente accettabili. Una peculiarità che gli permette di prendersi delle libertà che nessun altro dei suoi eroici colleghi sognerebbe mai di concedersi, ad esempio un’irriverente parodia di Superman. In questo secondo capitolo imitando lo stile di Kal El, Deadpool entra in una cabina telefonica per indossare il suo costume ma impiega così tanto tempo per farlo, che nel frattempo la povera vittima viene brutalmente uccisa dal rapinatore. Come se non bastasse una volta uscito si trova davanti niente meno che Mr. Stan Lee. “Bel costume!” asserisce quest’ultimo che viene prontamente ammutolito dal supereroe con uno “Stai zitto, Stan Lee!”. Non è certo una novità che il fondatore della Marvel si conceda per brevissimi camei nei suoi film, ma sicuramente è la prima volta che qualcuno lo interpella per nome rompendo, o meglio frantumando, ancora una volta quella quarta parete che ci separa da Lui. 

Dopo un incipit decisamente tragico - vietato dilungarsi oltre in merito visto l’elevato allarme spoiler - che ha per protagonisti Deadpool (Ryan Reynolds) e la compagna Vanessa (Morena Baccarin), l’antieroe per eccellenza ritrova la forza di andare avanti per proteggere Russell (Julian Dennison), adolescente mutante dai poteri inarrestabili, perseguitato dal terribile Cable (Josh Brolin). Con l’aiuto del fedele amico Weasel (T.J Miller) Deadpool mette su il più sgangherato team di X-Force - “perché suona più inclusivo di X-Men”- che si sia mai visto, spicca per minime competenze raggiunte Domino (Zazie Beetz) - volto noto della pluripremiata serie Atlanta - il cui superpotere è un’incredibile fortuna.

In “Deadpool 2” David Leicht sostituisce alla regia Tim Miller. Sulla vicenda sono susseguiti nutriti rumors nei mesi precedenti all’uscita del film. La motivazione di questo prematuro divorzio sarebbe da ricondurre ai forti contrasti fra il regista statunitense e il protagonista e sceneggiatore Ryan Reynolds. I due, dopo essere stati a tutti gli effetti i veri fautori di questo progetto cinematografico adults only - negli Stati Uniti il film è vietato ai minori di 17 anni - avrebbero avuto pareri piuttosto discordanti sulla forma da far prendere al secondo capitolo. Ad oggi possiamo affermare che fortunatamente ha prevalso la quota dell’attore canadese, “Deadpool 2” è infatti uno dei sequel di genere più divertenti e sorprendenti degli ultimi anni. Grazie al suo poliedrico contributo Reynolds - sceneggiatore, produttore e interprete del primo e secondo capitolo - è riuscito nell’ambizioso progetto di trasformare un ‘sottoprodotto’ Marvel Comics in un blockbuster da 783 milioni di dollari.

Luisa Djabali 15/05/2018

Joe (Joaquin Phoenix) è un ex marine, un ex agente FBI, un servitore degli Stati Uniti che ha visto troppe scene del crimine. Solitario e tormentato l’uomo sceglie di vivere nell’ombra, al riparo dai fantasmi di un passato troppo denso per poter essere superato, si guadagna da vivere salvando dietro compenso giovani ragazze inghiottite dal vortice della prostituzione. L’uomo non ha amici, non ha amanti, non ha relazioni sociali che oltrepassino le quattro mura domestiche condivise con l’anziana e inetta madre di cui si prende amorevolmente cura. Un giorno Joe riceve la chiamata di un senatore newyorkese disposto a tutto pur di riabbracciare la figlia Nina (Ekaterina Samsonov), fatta prigioniera in bordello di Manhattan. Nel tentativo di districare la giovane dalle grinfie dei suoi carnefici, scopre una vasta e ramificata rete di violenza e corruzione. Quando nel tentativo di ostacolarlo proveranno a sottrargli l’unica persona che conti veramente per lui, Joe inizia un implacabile e folle cammino alla ricerca della verità. 

Nelle sale dal 1 maggio, “A Beautiful Day” è scritto e diretto da Lynne Ramsay e basato sul racconto di Jonathan AmesNon sei mai stato qui” da cui è tratto il titolo originale del film, “You Were Never Really Here”. Presentato in anteprima alla 70ª edizione del Festival di Cannes è stato premiato per la Migliore sceneggiatura e la Miglior interpretazione maschile. Al suo quarto lungometraggio, l’autrice scozzese fa sfoggio di una spiccata abilità registica che le consente di esprimere al meglio il forte impatto visivo che da sempre caratterizza il suo cinema. Senza mai scadere nell’autocelebrazione, la Ramsay conferma una naturale propensione alla narrazione per immagini. Una maturità stilistica coltivata nel corso di una carriera costellata da molti riconoscimenti e pochi titoli in filmografia, sapientemente distribuiti nel corso di oltre un ventennio di attività. Dopo l’esordio ancora ventisettenne con il corto di diploma “Small Death”, si fa notare sulla croisette nel 1999 con “Ratcatcher – Acchiappatopi”, commovente racconto di formazione ambientato nel sottoproletariato scozzese. “A Beautiful Day” attinge a piene mani, ed apparentemente in totale consapevolezza, al consolidato repertorio del thriller senza mai venir meno alla propria marca autoriale. Il montaggio - curato da Joe Bini - è studiatissimo ed incalzante: tagli netti ed un audio sempre in anticipo rispetto all’immagine danno l’idea di voler giungere in soccorso ad una sceneggiatura atipicamente asciutta per il genere. Le lunghe e continue digressioni oniriche da un lato rallentano la progressione narrativa, dall’altro la arricchiscono con un’impattante portata estetica un Soggetto non esattamente inedito.

Joe è un personaggio ibrido, una personalità duplice in cui convergono e convivono istanze diametralmente opposte. Alla fisicità brutale e mascolina si alterna una spiccata sensibilità e un senso di responsabilità e premura di stampo materno. In equilibrio fra vita e morte, l’uomo sembra perennemente indeciso se porre fine alle terribili allucinazioni che lo perseguitano o continuare a vivere per quella madre così fragile e bisognosa. Così lo troviamo in bilico sulla banchina della metro, intento a trastullarsi con un coltello a scatto o ancora a spingersi al limite dell’asfissia costringendosi la testa in sacchetti di plastica. Una resistenza al dolore, fisico e psicologico, costantemente esercitata, indotta ed addestrata con metodologie degne della Legione Straniera. Joe è l’incarnazione di una figura archetipica del cinema hollywoodiano, il giustiziere della notte, il killer solitario. Phoenix - in stato di grazia - dimostra ancora una volta la sua capacità di assimilare totalmente i personaggi che interpreta. Fisico imbolsito, respiro pesante, barba e capelli che lasciano un’unica via d’accesso allo sguardo spiritato da soggetto borderline. Un’interpretazione stanislavskijana degna del Travis Bickle/Robert De Niro di “Taxi Diver”. Ma la catarsi attoriale non è il solo punto d’incontro con il capolavoro di Martin Scorsese. Caschetto biondo, fisico acerbo e viso da bambina fanno di Nina la corrispondente postmoderna di Iris/Jodie Foster, la prostituta tredicenne che Travis cerca di strappare - con la stessa brutalità di cui Joe è capace - a un crudele destino. Una città in perenne movimento - restituita nel suo cupo e profondo fascino dalla fotografia di Thomas Townend - custode di un’umanità volubile, corrotta e profondamente ipocrita. Un senso di violenza latente accompagna tre quarti di visione per poi esplodere con una forza impattante, ad alto tasso splatter, degna dei migliori titoli della ‘New Hollywood’ e sorprendere lo spettatore come un fulmine a ciel sereno. L’affresco metropolitano immaginato dalla Ramsay non dista molto da quello seventies di “The Deuce”, ideato per il piccolo schermo da David Simon e George Pelecanos. Il tappeto sonoro creato ad hoc da Jonny Greenwood - storico chitarrista della band britannica, Radiohead - conduce passo dopo passo la narrazione con sonorità sintetiche ed incalzanti che ricordano molto l’ultimo lavoro dei Safdie Brothers, “Good Time”. Del resto la musica sembra voler fuoriuscire ovunque in “A Beautiful Day”, dalle radio perennemente accese alla selezione extradiegetica delle 60’s hits - d’effetto la sequenza snodo che poggia sulla candida voce di Rosie Hamlin in “Angel Baby” - fino alle stesse improbabili interpretazioni vocali dei protagonisti in bilico fra vita e morte.

 

Luisa Djabali  29/04/2018

Correva l’anno 2000 quando Pina Bausch sorprese pubblico e ballerini con una nuova e inaspettata versione over 65 della sua celebre coreografia “Kontakthof”, letteralmente “luogo d’incontro”. I passi erano rimasti esattamente quelli messi in scena dal suo gruppo storico, il Tanztheater Wuppertal. L’atmosfera però era completamente diversa. La ricerca del contatto uomo-donna, l’eterna rincorsa verso l’altro si tingeva, nelle mosse di questi danzatori ormai avanti con gli anni, di un sapore nostalgico e malinconico - senza mai, però, rinunciare a una velata ironia. D’altronde, si sa, che da anziani torniamo tutti un po’ bambini.

Oggi come allora, un malinconico spirito fanciullesco domina anche “Una jeune fille de 90 ans”, documentario di Valeria Bruni Tedeschi e Yann Coridian, in cui danza, terza età e il loro reciproco rapporto hanno raggiunto il massimo sviluppo. Di anni, infatti, ne sono passati quasi venti da quella rivoluzionaria intuizione della Bausch. Nel frattempo molte cose sono cambiate: da un lato l’arteterapia in tutte le sue varianti, compresa la danza, si è radicata sempre di più come forma ausiliare di trattamento, dall’altra siamo tutti testimoni di come, l’aumento dell’età media abbia portato con sé una serie di problematiche alle quali stiamo iniziando gradualmente ad approcciarci, ma siamo ancora lontani dal trovarne una risposta certa. Sempre più anziani sono soli, mentre aumentano le malattie legate all’invecchiamento, prima fra tutte l’Alzheimer, definita da molti esperti l’emergenza della nostra epoca.

Ecco dunque che la sala d’incontro del "Kontakthof" – forse un oratorio o un circolo per anziani – lascia qui spazio a un vero e proprio reparto geriatrico di un ospedale francese, il Charles Foix d’Ivry-sur-Seine, nei pressi di Parigi, dove i pazienti malati di Alzheimer sono stati coinvolti in un laboratorio di danza condotto dal coreografo di fama internazionale Thierry Thieû Niang. Anche dal punto di vista tecnico, la narrazione di quello che a tutti gli effetti è un vero e proprio esperimento sociale è al passo coi nostri tempi: i registi e il coreografo hanno scelto infatti di testimoniare il tutto tramite un documentario, genere che sta godendo di un rinnovato successo, dal cinema alla televisione. Anzi un documentario estremo, lo si potrebbe considerare. Una narrazione in fieri, in cui gli autori e le telecamere seguono gli sviluppi del percorso, giorno per giorno, senza un copione, senza espedienti per forzarne la trama, che, ad un certo punto, prende un risvolto talmente inatteso, da essere definito dagli stessi «un miracolo». Blanche Moreau - la «jeune fille» di 92 anni, che, alla luce del profondo rapporto instauratosi tra lei e Thierry, è diventata inevitabilmente la protagonista assoluta del film – si innamora del coreografo e, nel crepuscolo della sua spoglia stanza d’ospedale, gli confessa «je t’aime».une jeune fille de 90 ans 6

Un’unione indissolubile tra film e realtà, tra arte e vita, dove i confini sono estremamente labili e spesso sensibili. Ecco perché il documentario, pur nella sua impeccabilità tecnica e nella sua intensità tematica, non è stato esente da critiche, in primis dal punto di vista morale. Ci si è chiesti soprattutto fino a che punto fosse lecito filmare dei pazienti che, proprio a causa della loro malattia, erano per lo più inconsapevoli di essere ripresi e regalavano momenti preziosi e intime memorie a un vasto pubblico di sconosciuti. Certo, è vero che - come ha raccontato lo stesso Coridian in occasione della presentazione del film al Nuovo Cinema Sacher di Roma il 5 aprile scorso, durante la sesta edizione del Rendez-Vous – Festival del nuovo cinema francese – durante la proiezione molti di loro non si sono neanche riconosciuti. Però la questione è talmente delicata che risulta particolarmente difficile condurne un dibattito etico. Sarebbe probabilmente più facile, invece, analizzare dal punto di vista medico gli effetti che il laboratorio ha avuto sui pazienti coinvolti- positivi e negativi. Il tutto è durato infatti solamente sei giorni – il tempo delle riprese – e poi ognuno è tornato alla sua vita. Sicuramente l’approccio alla danza, i metodi dolci e pazienti di Thierry, il contatto con l’altro e la distrazione da una routine malata, hanno portato, durante il seminario, a degli evidenti benefici, visibili nello stesso film. Ma che ne è stato dei pazienti una volta smontato il set? La magia per gli artisti era finita, la vita, lì all’ospedale, per i pazienti continuava.

Tanti quesiti rimangono dunque aperti, non solo dal punto di vista delle scelte di ripresa. Il messaggio che il documentario ci trasmette è, infatti, forse ancora più forte di ogni questione etica o medica. La raffigurazione cruda e poetica della fine vita, della quarta età e di una malattia come l’Alzheimer – temi sempre più attuali, ma cui la nostra società sembra cercar solo di fuggire – non può che tenerci a bocca aperta, dalla prima all’ultima scena. Si rimane senza parole, scossi, commossi, divertiti e turbati, in vortice di sentimenti che si stagliano in una dimensione spazio-temporale sospesa per 85 lunghi ma intensi minuti. E che fuori stia scoppiando la primavera, che i fiori di pesco siano en pendant con i manifesti del Rendez-Vouz proprio ce ne dimentichiamo.

Virginia Zettin 27/04/2018

Costa Smeralda: nelle stanze della villa del Cavaliere, tempio sacro di feste notturne e fughe dalla realtà, una pecora, ansimante sul lussuoso pavimento, resta uccisa dal fortissimo impianto d’aria condizionata, mentre echeggia, dalla televisione, uno show con Mike Bongiorno. Lo spirito di "Loro 1" di Paolo Sorrentino potrebbe benissimo esser custodito esclusivamente da questi fotogrammi: è il ritratto dell’Italia ai tempi del berlusconismo, la fastidiosa fotografia di una società condotta sull’orlo del baratro dall’ambizione e dalla sete di denaro, incarnati, più di chiunque altro, da Lui: Silvio. Il sacerdote, il re, l’imperatore di un mondo destinato a estinguersi, ma che cambierà il Paese per sempre.

Sorrentino torna a raccontare un grande personaggio della politica nostrana 10 anni dopo "Il Divo", concentrandosi stavolta sugli antefatti del tema principale; Toni Servillo, trasformato letteralmente (e volutamente) in una maschera tragicomica da spettacolo di second’ordine, dietro un abbondante strato di cerone, autoabbronzante e capelli posticci, riesce a restituire un Berlusconi che simbolizza appieno la decadenza del potere. ALOROOO Eppure, la sua prima apparizione sullo schermo arriva solo a fine film, o meglio, a circa 25 minuti dal finale; scelta senz’altro opinabile ma audacemente intelligente, oltre che coerente. L’attesa del pubblico, infatti, rispecchia quella dei protagonisti di questo primo capitolo. Per più di un’ora assistiamo alle imprese di Sergio Morra (personaggio che ricalca dichiaratamente Gianpaolo Tarantini), interpretato da un ottimo Riccardo Scamarcio, che insieme alla compagna Tamara (Beatrice Axen) e aiutato dalla escort Kira (Kasia Smutniak), vive nell’ansia spasmodica di poter, prima o poi, avvicinarsi a Lui (così, quasi sempre, ci si riferisce a Berlusconi in Loro 1), grazie ai suoi traffici di droga e di giovani donne in vendita, ovvero quel grottesco valzer infinito di “vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo e la notorietà” che denunciava un’annichilita Veronica Lario ai tempi della separazione dal celeberrimo consorte. A tal proposito Elena Sofia Ricci, perfetta nei panni di una stanca e dolente Veronica, rappresenta psicologicamente la “sezione interna” del racconto, con le ripercussioni e il dolore dell’altro lato del potere. Al marito, che spera di acquistare la sua comprensione coi diamanti, risponde: “Preferivo quando sapevi che avevo freddo e mi regalavi le pantofole”. Al di fuori, intanto, continua la costruzione del “set” per Loro 2: prende forma, inesorabilmente, la corte dei miracoli del Presidente, tra scene (abbellite dal solito perfezionismo sorrentiniano stavolta meno solenne e, visto il tema, più kitsch) che ricordano "Caligola" di Tinto Brass e "The Wolf of Wall Street" di Martin Scorsese. Perché Lui, dopotutto, nulla sarebbe stato senza Loro, cioè “quelli che contano”. Com’è tipico di Sorrentino, anche in Loro 1 ritroviamo un tocco dostoevskijano: il personaggio principale è indiscutibilmente negativo. Quelli che lo circondano, però, sono molto peggio.

Alfonso Romeo 26/04/2018

 

Geniale, incompreso, radicale, innovativo, unico. Van Gogh è sicuramente uno degli artisti più controversi e interessanti che abbia mai attraversato questo mondo e tanto è stato detto su di lui e sulla sua arte. Il documentario diretto da Giovanni Piscaglia e scritto da Matteo Moneta, “Van Gogh. Tra il grano e il cielo”, offre uno sguardo nuovo e parte dal lascito della più grande collezionista delle sue opere, Helene Kröller-Müller, per raccontare l’unione spirituale di due anime affini, dominate entrambe dal tormento e dall’inquietudine. I due non si incontrarono mai in vita ma condivisero la stessa tensione verso l’infinito e la ricerca forsennata di una dimensione religiosa pura. L’occasione per ripercorrere l’intensa parabola artistica di Van Gogh è la mostra curata dallo storico dell’arte Marco Goldin e allestita alla Basilica Palladiana di Vicenza, che raccoglie 40 dipinti e 85 disegni provenienti dal Kröller-Müller Museum di Otterlo, in Olanda. La delicata voce di Valeria Bruni Tedeschi accompagna l’intero racconto attraverso le tante lettere scritte da entrambi nella loro vita. Ripresa all’interno della chiesa di Auvers-sur-Oise, la stessa dipinta da Van Gogh qualche settimana prima di suicidarsi, l’attrice ci porta per mano lungo i principali periodi dell’attività del pittore. Dagli anni olandesi, dominati dai colori scuri, terrosi, che richiamano le scene di vita contadina così magnificamente ritratte, si passa al periodo parigino dove Van Gogh sperimenta soluzioni mai provate da nessuno. Scopre Seurat, conosce Signac ed è subito l’esplosione del colore.

Gli accostamenti cromatici della pittura a piccoli tocchi degli Impressionisti e ancor di più dei Post-Impressionisti viene portata ai massimi livelli espressivi, segnando lo stile unico che lo ha reso indimenticabile. Ma è solo sotto il sole di Arles, in Provenza, che il pittore si perde nella luce e nell’estasi della pittura en plein air. Sarà il periodo più felice di Van Gogh, che di lì a poco manifesterà le prime crisi che lo porteranno prima al ricovero e poi al suicidio. Al viaggio dentro la mostra, che dà un grande rilievo anche al disegno nella pratica artistica del pittore, si affianca quello in alcuni dei luoghi più importanti per la sua arte, oltre a una serie di riprese del Kröller-Müller Museum. Sfortunato in vita, Van Gogh poteva facilmente essere dimenticato insieme alle sue opere se non fosse stato per Helene Kröller-Müller che con la sua collezione è riuscita a restituirgli l’affetto e il riconoscimento che non aveva avuto in vita. Van Gogh è per lei un esempio da seguire, qualcuno in cui riconoscersi. Una delle donne più ricche d’Olanda, Helene Kröller-Müller dopo un viaggio in Italia, tra Milano, Roma e Firenze decide di fondare un museo per condividere con gli altri la serenità e il conforto che trae dall’arte. Convinta che l’arte si gusti meglio solo lontano dal tumulto della città, lo pone immerso nel suggestivo bosco di una vasta riserva naturale e, oltre alle opere di Van Gogh che occupano il cuore del museo, all’interno si trovano capolavori di Picasso, Seurat, Signac mentre all’esterno un grande parco della scultura accoglie lavori di Rodin, Moore, Fontana e molti altri. Distribuito da Nexo Digital, “Van Gogh. Tra il grano e il cielo” (al cinema solo il 9-10-11 aprile) ci avvicina quindi alla tormentata vita del pittore che forse più di ogni altro ha influenzato l’arte del XX secolo e lo fa narrandoci l’intreccio indissolubile di arte e vita che ha condiviso con la sua più grande ammiratrice.

Giorgia Sdei 31/03/2018

 

Giorgia Sdei

30/03/2018

Avvicinare il più possibile il confine tra finzione e realtà, fino a renderlo irriconoscibile. Sembra questo il più che ambizioso obiettivo di Fabio Bastianello con il suo film “h36”. Un progetto sperimentale portato avanti locandina h36dal regista friulano, già autore di “Secondo Tempo”, un film di 105 minuti girato interamente in piano sequenza, che si annuncia essere come qualcosa di mai provato prima, un'impresa ai limiti del possibile: “h36” è, infatti, il primo film nella storia del cinema girato e trasmesso in tempo reale in diretta per 36 ore consecutive. Un'opera cinematografica che si avvicina dunque a un prodotto televisivo, un reality, o una sorta di gioco di ruolo. Sì, perché per riempire i quasi due giorni di trasmissione sarebbe stato impossibile pensare a una sceneggiatura dettagliata, né a una totale improvvisazione. Si è optato, quindi, per una via di mezzo: una strada che condurrà gli attori verso una direzione senza però poterne definire con precisione le tappe e le dinamiche interne.

Il numeroso cast, composto da 14 attori, sta provando da circa 10 mesi con un chiaro intento: imparare a recitare una parte e non un copione. Gli attori dovranno essere capaci di entrare appieno nei loro personaggi, in modo tale da improvvisare in maniera credibile e coerente.
La magia avrà inizio sabato 1 luglio alle ore 10:00 e proseguirà fino alle 21 di domenica 2 luglio. Lo streaming non verrà mai interrotto grazie all'utilizzo di quattro macchine da presa a circuito chiuso posizionate accuratamente sul set. Sarà possibile fruire il film in tre modalità diverse: in streaming su YouTube, sul sito www.h36.live e, per i più temerari, nella maratona proposta dal Cinema Beltrade a Milano.
L'intento è quello di creare una vita parallela che scorre senza sosta per l'intera durata del film, permettendo allo spettatore di visionarlo anche solo a stralci.

La trama si svolge all'interno di uno studio radiofonico, dove un gruppo di impiegati disperati si trasformerà in sequestratori per cercare di ottenere una via di comunicazione diretta con il Paese. La scaletta sulla quale gli attori si stanno esercitando è dotata di colpi di scena e imprevisti di cui solo il regista è a conoscenza. Un'ennesima trovata per rendere ancora più realistico il dipanarsi degli eventi.
Non resta altro, dunque, che visionare l'opera attraverso i canali offerti dalla produzione (Overall Pictures) sperando di trovarsi davanti a un prodotto che vada oltre il mero sperimentalismo e che emozioni al di là di un voyeurismo da Grande Fratello. Un film di buona qualità, insomma, che risulti coerente con le coraggiose e valide premesse con cui è stato pensato.

Carlo D'Acquisto 30/06/2017

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