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Dal fronte al feed: come i social network plasmano le guerre del XXI secolo

06-11-2025 18:11

Davide Bellalba

Archivio,

C’è una guerra che non si combatte nei cieli o nelle trincee, ma nei circuiti invisibili dei social network. È una guerra di immagini e di parole, di

C’è una guerra che non si combatte nei cieli o nelle trincee, ma nei circuiti invisibili dei social network. È una guerra di immagini e di parole, di frame e di algoritmi, di emozioni che scorrono a velocità di connessione. Laddove un tempo il fronte separava chi combatteva da chi assisteva, oggi il confine è dissolto: ogni utente diventa potenziale testimone, propagatore o manipolatore. Il feed è il nuovo campo di battaglia, e lo scroll sostituisce il passo dell’avanzata.

Le guerre del XXI secolo non hanno più soltanto un versante militare: possiedono un’anima mediatica che le attraversa e, spesso, le determina. I social network si sono imposti come strumenti di informazione e di propaganda, di solidarietà e di controllo. Nelle loro trame digitali si costruisce la percezione del conflitto, si forgia l’immagine del nemico, si decide chi è vittima e chi carnefice. La viralità diventa una nuova forma di potere, capace di orientare l’opinione pubblica e, talvolta, di influenzare le decisioni politiche.

Dalla guerra in Ucraina a quella in Medio Oriente, la narrazione bellica si è spostata dallo spazio fisico a quello simbolico. Le immagini dei bombardamenti, le testimonianze dirette, i video amatoriali diffusi in tempo reale trasformano la cronaca in una diretta perpetua, in un racconto che non concede distanza. Lo spettatore è risucchiato nel flusso, partecipe e impotente, commosso e confuso. In questo continuo oscillare tra empatia e saturazione, il rischio è che la guerra perda la sua gravità e si riduca a un evento da consumare, a un’emozione istantanea destinata a scomparire nel successivo aggiornamento.

La velocità della rete, che sembrava sinonimo di trasparenza, diventa spesso la sua ombra. Nell’immediatezza della condivisione si annidano la distorsione e la falsificazione. Le notizie si moltiplicano, le fonti si sovrappongono, e la verità diventa una materia sfuggente, liquida, continuamente riscritta. I social, nati come spazi di libertà, si rivelano luoghi di potere, dove gli algoritmi decidono cosa merita di essere visto e cosa deve restare nell’ombra. Ogni like è un voto invisibile, ogni condivisione un atto politico inconsapevole.

Eppure, in questa stessa ambiguità risiede anche la forza emancipatrice dei social. Mai come oggi le popolazioni civili hanno potuto raccontare in prima persona la propria esperienza, aggirando i filtri dell’informazione ufficiale. Le immagini provenienti dai territori di guerra, anche quando frammentarie, restituiscono la dimensione umana del conflitto: i volti, le voci, le piccole resistenze quotidiane che i grandi resoconti geopolitici spesso tacciono. È in questa coralità, fragile e disordinata, che riaffiora un senso di verità, o almeno di testimonianza.

Il paradosso è che i social, strumenti di libertà, sono al tempo stesso meccanismi di sorveglianza. Ogni post è tracciabile, ogni parola può essere usata come prova, ogni flusso di dati diventa fonte d’intelligence. Le guerre digitali non si combattono soltanto con i missili ma con i codici, con le campagne coordinate di disinformazione, con la capacità di orientare l’opinione pubblica globale. La battaglia non si gioca più soltanto per il controllo del territorio, ma per il controllo del racconto.

Dal fronte al feed, la guerra contemporanea interroga la nostra responsabilità di spettatori. Guardare non è più un gesto neutro: significa partecipare, contribuire, alimentare il circuito della visibilità. Nella società dell’immagine, ogni sguardo è un atto politico. E forse il vero compito di chi osserva è resistere all’immediatezza, rallentare il flusso, chiedersi cosa resta oltre la superficie luminosa dello schermo.

Perché se la guerra è sempre stata, in fondo, una questione di narrazione, oggi quella narrazione non appartiene più agli stati o ai generali, ma a una moltitudine connessa. La verità, dispersa in miliardi di post, non è più un punto d’arrivo ma un percorso collettivo, fragile, reversibile. E in questo labirinto di immagini e voci, resta una domanda che nessun algoritmo può sciogliere: cosa significa davvero vedere, quando tutto è visibile?

 

Davide Antonio Bellalba  31/10/2025

© 2004-2026 Recensito | Testata giornalistica registrata al n°17/2004 del Tribunale di Catania | ISSN: 3034-879X

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