Dal 2005, ricci-forte fondano la propria sperimentazione teatrale sulla fisicità e sulla violenza emotiva, ma la loro arte è in continua evoluzione. Adesso propongono uno spettacolo sulla lezione pasoliniana. Stefano Ricci ha risposto ad alcune nostre domande sulla contestualizzazione del lavoro della compagnia.
Dal 14 al 16 giugno è andato in scena al Teatro Argentina di Roma “PPP, ultimo inventario prima di liquidazione”, un omaggio a Pierpaolo Pasolini nel 40° anno dalla scomparsa. Com’è nato lo spettacolo, da dove siete partiti?
“Siamo partiti dall’ultimo periodo della produzione pasoliniana, quindi, per quanto riguarda la narrativa, da Petrolio e da Salò, per quanto riguarda il cinema. Già dallo spettacolo d’esordio della nostra compagnia cominciavano a circolare aggettivi come “pasoliniano” perché c’era un discorso legato alla critica della società e alla degenerazione di essa. A un approccio superficiale, c’era stato affibbiato il termine “pasoliniano” e negli anni questa parola è tornata più volte. Si riferiva al nostro atteggiamento nei confronti di una società che degenera, che tradisce poi il bisogno di etica dell’individuo. A quarant’anni dalla morte abbiamo voluto celebrare un rapporto con l’autore che non è volto a crearne un santino. Non ci interessava mettere in scena un romanzo o un film perché non è nella nostra grammatica. Noi ci prestiamo a creare una piattaforma sulla quale poi innestare una riflessione e cercare di comprendere che senso ha quella figura d’intellettuale e che senso ha per noi, generazione di oggi, stabilire delle connessioni con la sua opera. In questo senso ci interessava proprio l’ultima produzione perché, per Pasolini, le ultime opere sono state quasi un testamento spirituale e anche un’abiura rispetto al percorso precedente. La “trilogia della vita”, insieme alla possibilità di ricorrere alla sensualità come ultima salvezza, era stata poi smentita in Petrolio. E noi siamo partiti proprio da lì, da una disillusione comune. Nel senso che per noi lo spettacolo è stato una riflessione sul tradimento anche nel linguaggio. Anche noi, negli anni, siamo stati molte volte fraintesi. È stato frainteso quello che abbiamo prodotto, magari è stato guardato in maniera un pochino superficiale soprattutto il lavoro che abbiamo fatto sulla fisicità e sulla violenza emotiva. Qualche volta sui nostri spettacoli c’è stata tutta una girandola di aggettivi per definirci... Oggi, probabilmente perché in dieci anni siamo cresciuti, c’è anche una volontà di tirare una linea e fare un conto della nostra attività come artisti, come intellettuali e sicuramente la disillusione che caratterizzava l’ultimo periodo di Pasolini caratterizza anche questo momento del nostro percorso. Ci siamo resi conto che forse era il caso di creare una performance per raccontare lo stato del teatro in questo momento, in che modo è vista la cultura oggi e anche la solitudine degli artisti in questo momento storico”.
“Pasoliniani” questo è l’aggettivo che vi hanno dato. Anche per il rapporto con il pubblico? Nel senso il vostro è un pubblico scelto, particolare, consapevole e in grado di cogliere ciò che mettete in scena?
“I nostri lavori in realtà non sono prodotti pensando a un pubblico in particolare. È chiaro che il pubblico è importante perché ci riferiamo. Abbiamo scelto proprio Pasolini perché, forse, è stato l’unico intellettuale della storia italiana a utilizzare tutti i media possibili, dalla critica alla saggistica, dalla narrativa al cinema. E questo rappresenta uno sforzo per arrivare al pubblico e voler dialogare con esso. In questo ci sentiamo molto vicini alla figura dell’intellettuale: nella voglia di arrivare al pubblico.
Abbiamo fatto un percorso passando attraverso teatri e situazioni tendenzialmente di nicchia, almeno all’inizio. Avevamo un pubblico che ci sceglieva perché sapeva cosa andava a vedere. Lentamente, attraverso gli anni, il bacino di spettatori si è notevolmente sviluppato e, non a caso, negli ultimi anni c’è stato un incontro con un pubblico differente che magari era abituato a fruire di un teatro più tradizionale. E adesso ci troviamo qui appunto (al teatro Argentina), l’altra settimana eravamo al Teatro Carignano di Torino. Un ambiente borghese, istituzionale. Noi, in qualsiasi luogo, cerchiamo di trovare un modo d’espressione coerente per arrivare alla persona che è in platea. Non a caso il titolo dello spettacolo è “PPP” che nel linguaggio cinematografico indica il primissimo piano”.
Si parlava dunque di sfruttare tutti i media. Ricci-Forte rimarranno solo in teatro oppure esporteranno la loro ferocia artistica anche al cinema?
“Devo dire che Ricci-Forte sono molto curiosi, questo nostro aspetto negli anni non è scemato. I differenti media ci hanno sempre attratto molto. Di fatto il processo è proprio quello di attraversarli: noi siamo comunque partiti dal teatro e poi abbiamo lavorato anche per la televisione, ora ci apprestiamo a debuttare al cinema e nel prossimo anno faremo due produzioni con la lirica. Cerchiamo di trovare con il nostro sguardo una pupilla nuova”.
Lo spettacolo è prodotto da “CSS Teatro Stabile del Friuli” e dal “Festival delle Colline Torinesi”. Visto che non tutti in realtà credono che le arti perfomative debbano essere sostenute pubblicamente, cosa pensate a riguardo?
“Allora, l’arte dev’essere sostenuta e non è vero che se un artista vuole farsi notare può comunque farsi vedere. Se vuoi parlare a un pubblico, devi avere uno spazio. Noi fino allo scorso anno abbiamo continuato a produrre soprattutto grazie a strutture festivaliere. Inevitabilmente, per un gruppo di artisti che inizia, questo è il percorso. Se vuoi parlare, hai bisogno di sostegno. Noi l’anno scorso abbiamo ottenuto sovvenzioni dal MIBACT. Trovo che sia un percorso corretto, il ministero deve sviluppare la cultura. Magari ci potranno essere dei dubbi sull’assegnazione dei fondi che forse possono impedire la circuitazione, però il discorso è legato al fatto che siamo in un paese che è sprovveduto dal punto di vista artistico. Pare che in Italia ci sia la tendenza a inventare nuovi gruppi di giovani talenti che vengono stritolati in paio di stagioni e poi vengono sostituiti per bisogno di novità. Qui non si dà molta possibilità alla crescita”.
Un consiglio per le nuove generazioni?
“Il consiglio è quello di non smettere mai di essere curiosi. Il problema degli istituti di formazione è quello di avere uno sguardo meno “contemporaneo” rispetto alla realtà. I tempi cambiano. Bisogna spaziare, conoscere più punti di vista e affinare le proprie qualità in panorami variegati. Inevitabilmente, si riconosce chi ha fatto incontri, chi ha ampliato il periodo di formazione dopo il diploma in Accademia. Noi siamo in formazione ancora adesso”.
Questo è il vostro decimo anno di attività. Cos’è cambiato dal 2006?
“Forse è cambiata la consapevolezza. Oggi, rispetto a ogni nostra produzione, c’è un’aspettativa, una responsabilità perché dopotutto siamo un’azienda. Bisogna andare avanti. Non ci occupiamo più solo di drammaturgia e regia, ma abbiamo un gruppo di persone intorno a noi che lavorano e che dobbiamo gestire.
Credo che siano cambiati anche i tempi. Ora c’è più possibilità di far circolare i linguaggi, però prima c’era più fermento culturale. Alla lunga questo sfibra e ne paghi le conseguenze in termini di coerenza: cambiare quando bisognava cambiare e mantenere il timone quando imperversavano le burrasche”.
La vostra è un’arte visivamente impetuosa. Nel 2016, come bisogna leggere il vostro modo d’espressione?
“Nel nostro ultimo spettacolo ci sono tutte le risposte, è proprio questo il punto su perché esprimersi e continuare a fare teatro oggi, in un momento in cui le persone non alzano il naso dal proprio telefono. C’è la voglia di mordere i giorni che ci restano perché vediamo il mondo letargico in cui ci troviamo. Crediamo che quel conformismo fascista di cui parlava Pasolini ora sia talmente silenzioso e penetrato sotto pelle che non ce ne rendiamo neanche conto. Il tentativo è sempre quello di pizzicarsi e mantenere la veglia”.
Personalmente credo che espressioni artistiche come la vostra, quella di Romeo Castellucci e di Emma Dante possano davvero competere con lo spettacolo offerto dalla televisione e dal cinema di qualità. Come dicevate, le persone oggi non alzano il naso dal proprio telefono e quindi bisogna puntare su un linguaggio visivamente d’impatto e dare qualcosa che sia emotivamente forte. Accanto al teatro classico, c’è bisogno di questo tipo d’innovazione proprio per trascinare avanti tutta la macchina teatrale. Sei d’accordo?
“Quando mi dicono che il mio è un teatro violento e impetuoso io dico che la vita lo è o comunque lo è il modo in cui noi la sentiamo. Non credo che il teatro sia fatto di effetti speciali, quindi la difficoltà in questo momento di letargia sia proprio quella di mantenere lucido il proprio sguardo. Tu hai citato Romeo ed Emma, li ammiro moltissimo e ci troviamo a condividere con loro un percorso. Non c’è bisogno di utilizzare alcun esplosivo, è solo una reazione per difendere il proprio pensiero. È un approccio che cerchiamo di regalare anche al pubblico per affrontare la vita”.
Susanna Terribile 17/06/2016