“Italianesi”, non un italiano di meno
L’amore è il colore rimandato da un’estate all’altra. Un padre è l’orizzonte che tiene in vita il mare dell’avvenire. Saverio La Ruina stringe negli occhi e nelle mani questi due capi per sbrogliare la matassa di storie e oblio dei prigionieri italiani in Albania alla fine della Seconda Guerra Mondiale. L’accusa era di attività sovversiva ai danni del sopravvenuto regime comunista di Enver Hoxha. La maggior parte dei soldati e dei civili fu condannata e poi rimpatriata, donne e bambini, mogli e figli vennero però trattenuti: il loro traghetto partì soltanto dopo la fine della dittatura.
“Italianesi”, scritto, diretto e interpretato da La Ruina (premio UBU 2012 per la migliore interpretazione) è un’epopea migrante che svergogna la paura eretta a sistema di governo, un monologo quieto, ma non indulgente, mite, ma non arreso, contro il terrore inculcato a tal punto da abitare dentro di ognuno, come il cuore, come Dio: sempre, ovunque, a occhi aperti o chiusi. Ispirandosi a storie vere, La Ruina ha creato la biografia di Tonino Cantisani nato nel 1951 in un campo di sterminio e cresciuto nel mito del padre Leone, dell’Italia e della Sardegna che raggiunge nel 1991. Quarant’anni strappati alla violenza totalitaria come la tasca dalla giacca di Leone sul molo dell’ultimo addio, una cornice vuota da riempire con il sogno di una foto di famiglia, con l’acqua del mare che lo tiene lontano dalla casa che non ha mai conosciuto.
Da solo in scena, una sedia di metallo con le ruote per scandire le stagioni della prigionia e una bottiglia d’acqua per riprendere il corso del pensiero quando gli eventi prosciugano le parole, l’autore e attore calabrese dà a Tonino occhi magnetici, illuminati e pieni, che imparano a guardare il mondo oltre il filo spinato che circonda le baracche. Non c’è passo che non gli ricordi le sue origini: zoppica, la prigionia gli ha spezzato un ginocchio. Nel grigio cieco di opportunità del campo il giovane Cantisani ripete i colori del giorno per ricordarsi come si fa a vedere: il racconto qui è luce e sopravvivenza.
In una lingua impastata di dialetto meridionale, leggero come una brezza d’estate, La Ruina racconta la quotidianità in prigione, una partita tra ragazzi che hanno bisogno solamente di qualcosa che rotoli da poter chiamare “palla”, i lavori forzati, gli interrogatori, le torture. Non stai con chi vuoi, né dove vuoi, i bisogni non sono i tuoi, ma di altri, dei carcerieri. E quando il dolore è così forte che non lo senti più, perché tu stesso sei diventato quel dolore, una bacinella riempita fino all’orlo, allora confessi anche ciò che non sai, ma vogliono sentirti dire. Delazioni. Si portano via mastro Giovanni, il sarto che ha insegnato a Tonino a cucire gli abiti con ago e filo e le parole con il suo italiano dialettale. Sono 365 i “taliani” scampati allo sterminio comunista d’Albania. “Taliani”. Senza la “i”. Quella lettera perduta, rimasta in gola, mangiata dalla pronuncia rappresenta tutto il tempo che è stato rubato loro, la terra che non hanno mai calpestato e che sono tornati a riprendersi dopo quarant’anni. Tra di loro c’è anche Tonino Cantisani, che ben prima della rotta di casa ha trovato il colore che mancava al suo sguardo innamorato: il suo nome è Selma. L’Italia, però, è un sogno che non si realizza e se prima erano italiani in Albania, adesso sono albanesi in Italia. Italianesi. Colpevoli di essere semplicemente come sono, ancora vivi. Sul palco c’è solo un attore, avanti e indietro nel tempo come un fuso nel telaio della Storia, eppure si avverte la presenza di tutte le donne e gli uomini perduti nei campi di concentramento albanesi. Li vedi, non c’è nient’altro che un corpo in scena, ma riesci a vederli tutti. Distintamente.
Questo è teatro allo stato puro. E Saverio La Ruina un talento di intensa umanità che sa raccontare in prima persona la vita degli altri. Come fosse la sua.
(Matteo Brighenti)
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