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"Nominare in maniera corretta le cose è un modo per tentare di diminuire la sofferenza e il disordine che ci sono nel mondo". Queste le parole di Albert Camus da tenere sempre bene a mente quando si affrontano argomenti di spessore sociale. Sapere di cosa si parla è il primo passo per poter parlare di qualcosa, per usare un gioco di parole. Non è così per quanto riguarda il gender. C’è chi, dietro a questa parola, si è trincerato per aizzare i propri forconi in difesa di una stereotipizzazione dei ruoli che, ad oggi, non è più possibile e chi ne fa largo uso, schierandosi a spada tratta dalla parte della cosiddetta famiglia naturale, boicottando qualsiasi discorso sull’identità di genere.

Ma esiste davvero una “ideologia del gender”? No, non esiste. Esistono però moltissimi studi scientifici, condotti dagli anni ’50, sul gender (Gender Studies) che mirano a individuare e a spiegare i motivi per cui a un dato genere (maschile o femminile) vengano attribuiti ruoli specifici, stereotipi o comportamenti che variano di cultura in cultura. La strumentalizzazione politica, peraltro fondata su un errore concettuale, ha appiattito (in Italia) il dibattito sulla battaglia per la difesa della famiglia tradizionale, del mantenimento dei ruoli e della sessualità naturale, contribuendo ad accrescere un disordine informativo che non aiuta a comprendere il fenomeno. Negli ultimi anni l’argomento è stato al centro di manifestazioni in piazza, dibattiti televisivi e politici di un certo spessore che hanno scatenato ondate di allarmismo, censura e caos concettuale, senza però approdare a un vero e proprio chiarimento, a una riflessione. LoveMeGender 12

LoveMeGender 10La discussione sulla gender equality, ovvero l’accesso a risorse e opportunità paritarie indipendentemente dal sesso, è accesa e ha portato a un’attenzione crescente dei media per l’argomento e alla necessità di far chiarezza sulle diverse espressioni della sessualità. Se al cinema si trovano già da qualche anno prodotti sul tema, in tv si assiste per la prima volta alla nascita di programmi che esplorano il vasto mondo dell’identità di genere. “Love me gender” condotto da Chiara Francini (dal 6 giugno su LaF), ad esempio, è un viaggio in quattro puntate che racconta le relazioni, i nuovi modi di essere famiglia, le nuove forme di amore e felicità con sguardo aperto, ironia e leggerezza: da Nord a Sud in giro per l’Italia si scopre così la straordinaria normalità di chi vive il cambiamento sulla propria pelle.

Il programma arriva subito dopo quello condotto da Sabrina Ferilli su Rai3, “Storie di genere”, che ha affrontato un tema delicato e attuale come la disforia di genere, termine scientifico che identifica il transessualismo, ovvero la condizione in cui si trova chi non si riconosce nella propria sessualità biologica. Non mancano i documentari: “Rivoluzione Gender”, in onda da maggio su Cielo e condotto da Eva Robin’s (all’anagrafe Roberto Maurizio Coatti), esplora le molteplici sessualità e identità di genere e la rappresentazione che questo universo ha nella società contemporanea mentre, allargando lo sguardo alla tv mondiale, il canale National Geographic ha proposto nel gennaio 2017 “Gender, la rivoluzione” dove Katie Couric incontra scienziati, chirurghi ed esperti, che forniscono la loro autorevole opinione sul genere, oltre ad ascoltare le storie di persone comuni che hanno affrontato il cambiamento di sesso.LoveMeGender 11

Nel Regno Unito, infine, Channel 4 si sta concentrando molto sull’argomento, attraverso un nuovo reality show (“Genderquake”) che incoraggia la discussione sulla fluidità di genere e su come definire e convivere con il concetto di gender, così come aveva già fatto nel 2011 con “My Transsexual Summer” nel quale venivano seguite le vite di sette transessuali, tra uomini e donne, che condividevano le loro esperienze sul cambio di sesso. Quest’attenzione rivolta al tema dell’identità di genere e alla molteplicità della sessualità è utile a far conoscere l’argomento a un pubblico sempre più bombardato dalla parola gender ma che non sa, nello specifico, riferire il concetto a qualcosa di concreto ed è portato facilmente quindi ad accogliere le minacce allarmiste di chi strumentalizza il tema a proprio vantaggio.

Proprio per quanto riguarda il pubblico generalista, il cinema sembra continuare a rivolgersi a quest’ultimo offrendo soprattutto film che nascono dal seme dell’intrattenimento; privi di intenti didascalici, essi crescono nella serra del marketing e vengono innaffiati con il potere del denaro. Altri, invece, prendono forma in seno a un universo più poetico e attento ai problemi del mondo circostante; libere da catene censorie, sono opere che arrivano a rischiare il linciaggio mediatico, o a camminare sul precario confine che separa la verosimiglianza alla stucchevole retorica. Ed è così che una tematica tanto sentita e dibattuta come quella del gender è arrivata a lasciare le proprie impronte sull’aureo suolo di Hollywood.

LoveMeGender 4Lo aveva già fatto in passato, seppur in sordina, proponendo figure androgine e all’avanguardia come Marlene Dietrich e Katharine Hepburn, o sovvertendo le limitanti norme dello star-system travestendo divi del calibro di Jack Lemmon e Tony Curtis (“A qualcuno piace caldo”, Billy Wilder 1959) o Cary Grant (“Ero uno sposo di guerra”, Howard Hawks, 1949), da donna. Eppure, nonostante la presenza di precedenti illustri come “Boys Don’t Cry” e “Priscilla”, è solo in tempi recenti che si evince una maggiore proliferazione di film a tema transgender, sintomo, questo, di un mutamento mentale finalmente attuatosi tra gli spettatori. Siamo di fronte, cioè, a una presa di coscienza e di una necessità di approfondimento circa un mondo troppo spesso ignorato o denigrato, e che solo il cinema, specchio sociale dal potere empatico e coinvolgente, può raccontare.

Parlare dunque di transgender al cinema significa prima di tutto scuotere lo spettatore, svegliarlo dal torpore della sala cinematografica per aprirgli gli occhi su una realtà fino ad allora sconosciuta con uno schiaffo visivo dal forte impatto emozionale. Sono soprattutto le sofferenze e i pregiudizi che investono i protagonisti ad accomunare molte delle opere prodotte negli ultimi anni; fobie ed esclusioni sociali che colpiscono questi personaggi come un’onda improvvisa, lasciandoli spesso affogare in un oceano di odio e insicurezze. Si prenda ad esempio un film come “Transamerica” (Duncan Tucker, 2005) che sui pregiudizi è letteralmente costruito narrativamente; tra le critiche lanciate al protagonista come sassi taglienti, quella peggiore è quella che l’uomo rivolge a se stesso, incapace di sottoporsi all’operazione che lo trasformerebbe in una donna se prima non ottiene il beneplacito del figlio appena ritrovato.LoveMeGender 2

Da una decisione ponderata come quella di “Transamerica”, a una talmente improvvisa da scuotere e abbattere, come un terremoto di scala 9, un idillio famigliare solo apparente, di film come “The Danish Girl” (Tom Hooper, 2015) e “Laurence Anyways” (Xavier Dolan, 2012). Pur vivendo in luoghi e tempi lontani (Laurence è figlio degli anni Ottanta, Einar di inizio Novecento) entrambi i protagonisti decidono di vivere liberamente la propria sessualità, tanto da rischiare tutto ciò che hanno: l'affetto della famiglia e degli amici, la stima sociale, un lavoro soddisfacente e, soprattutto, l'amore della loro anima gemella. Soli, in una società che non è disposta a rinunciare alla propria facciata di perbenismo, Laurence ed Einar devono imparare ad affrontare la diffidenza di chi si ritrova a incrociare il loro sguardo su strade parallele mai destinate ad incrociarsi. 

Sono sguardi carichi di incomprensibile terrore che ogni giorno deve affrontare, tra le calde strade di Santiago del Cile, anche Marina, la protagonista di “Una donna fantastica” (2017). Quello che emerge dalla macchina da presa di Sebastian Lelio (al quale si deve l’aver coinvolto nel progetto una vera trans - Daniela Vega - recuperando così un modus operandi tipico dei registi underground anni ’60 e andatosi ormai perdendo) è uno scenario di quotidiana insensibilità, e relativa negazione della realtà. Marina è più donna di molte altre “vere” donne. Lo è nel profondo, nel modo di amare e nel modo di porsi a un mondo ancora schiavo dei propri arcaici fantasmi. La famiglia del suo amante Orlando potrà anche respingerla come una reietta, ma nulla la fermerà dal portare avanti la propria personale causa d’amore e libertà di genere.

LoveMeGender 6Se Marina non ha paura di mostrarsi per quel che è - una combattente coraggiosa - l’unica sicurezza di Ramona (Elle Fanning) in “Three Generations” (Gaby Dellal, 2016) è quella di “essere un ragazzo". Cresciuta in un universo femminile e accondiscendente, dove la figura paterna è un’ombra lontana e sconosciuta, nessun limite sembra frapporsi tra lei e il sogno di diventare a tutti gli effetti “Ray”. Ma quella di Ramona non è certo una mosca bianca in un mondo di incomprensioni e ostacoli; anzi. Anche nel film di Gaby Dellal ogni lacrima, ogni giro in skate, ogni atto di bullismo a scuola, nasconde una battaglia personale irta di dolore e incomprensioni.

Altri film, altre storie vi sarebbero da trattare perché la lista dei film sul mondo gender è lunga (“Dallas Buyers Club”, “Tutto su mia madre”, “Breakfast on Pluto”), eppure c’è da sottolineare che alla base di ogni opera non si rileva alcun atto di fumus persecutionis ad accompagnare i protagonisti, quanto una visione interna e umana a questo universo mai totalmente compreso e accettato. Ogni passo che gli uomini e le donne compiono sullo schermo, corrisponde a uno sguardo di indignazione e disgusto che i veri protagonisti di questo universo subiscono nella vita reale. Torti che un medium magico come il cinema che tutto può e tutto rende reale, ha il dovere di mostrare, così da ricordare la vera natura dei protagonisti: non uomini, non donne, ma semplicemente “esseri umani”.

Anche il mondo del fumetto ha dovuto percorrere una lunga strada nel campo della rappresentazione, non stereotipata e non parodica, di personaggi transgender. Il dibattito sugli stereotipi di genere ha attraversato un consistente pezzo della storia del fumetto statunitense come di quello giapponese, che si sono sempre strutturati come un’industria diretta al consumo di massa.

La presenza di personaggi propriamente trans (che non fossero mutaforma, maghi o anche solo macchiette) si è fatta attendere parecchio nel fumetto americano. Soltanto a partire dal 2013 etichette indipendenti come la Image e Boom!Studios e, in seguito, anche realtà più grandi come Marvel Comics e DC hanno cominciato a preoccuparsi della rappresentazione di personaggi trans fedeli alla realtà per una minoranza di lettori, che cercava di identificarsi in modelli positivi.LoveMeGender 13

Nel 2016 la casa editrice AfterShock è assurta agli onori della cronaca per aver inaugurato la serie “Alters”, uno dei primi esempi di superhero comic con protagonista una supereroina transgender, Chalice. Quello che ha reso diverso “Alters” da molti esempi precedenti è stata la cura con cui Paul Jenkins, l’autore, si è preoccupato di di integrare i problemi di identità della protagonista con la narrativa super-eroistica (Chalice può essere se stessa soltanto quando indossa i panni della supereroina). 

LoveMeGender 7Più ancora e prima di “Alters”, però, è stata la volta di “Lumberjanes”, acclamato fumetto per un pubblico di tutte le età, che si concentra su cinque ragazze scout impegnate a risolvere misteri soprannaturali. Una di loro, Jo, nel diciassettesimo capitolo della serie si è rivelata essere una ragazza trans in un toccante discorso con un ragazzino più giovane, altrettanto incerto sulla sua identità.

Anche nell’ambito dei manga giapponesi non mancano opere, anche di successo, che hanno saputo trattare questi temi con delicatezza e intelligenza. È il caso di “G.I.D. – Gender Identity Disorder”, opera del 2006 in due volumi di Yuuko Shouji. Per quanto in uno spazio troppo ristretto per una tematica tanto complessa, G.I.D. ha comunque il pregio di riuscire a parlare in maniera toccante e veritiera delle vicissitudini di Akiko, ragazza di buona famiglia che affronta la difficile transizione da donna a uomo, trovando anche l’amore. Il senso di esclusione da parte della famiglia d’origine, i problemi con la vita quotidiana, il timore di non riuscire a trovare un proprio posto in una società molto chiusa sono temi affrontati, seppure in maniera collaterale, anche da “Paradise Kiss” di Ai Yazawa. Isabella è uno dei comprimari di spicco di questa serie shoujo, decisamente più mainstream, che nel mondo della moda ha trovato la sua dimensione, anche grazie alla presenza di amici che la fanno sentire accettata. Isabella non è soltanto lontana dagli stereotipi ma la sua caratterizzazione non si limita ai suoi problemi di identità: si tratta, invece, di un personaggio a tutto tondo, con desideri di carriera e aspettative di vita complesse.LoveMeGender 8

Degna di nota è poi un’opera molto recente come “Oltre le onde” di Yuhki Kamatani, slice of life che affronta diverse tematiche legate al mondo LGBT nel Giappone odierno. Il punto di forza della serie è proprio evitare gli stereotipi e le feticizzazioni, partendo dai timori del giovane adolescente Tasuku, a disagio con la scoperta della propria omosessualità. Attraverso l’incontro con la “Signora Qualcuno”, Tasuku viene a contatto con tutto un universo di persone – fra cui una coppia lesbica e un ragazzo trans – che, come lui, non rientrano nei rigidi canoni della “normalità” imposti dalla società giapponese. 

La strada per una migliore rappresentazione nei media mainstream è ancora lunga ma il fumetto non si sottrae alla discussione e, anzi, proprio nelle sue enclavi più di nicchia si possono trovare modi interessanti di sviscerare l’argomento. La narrativa resta un ottimo mezzo per creare quell’empatia necessaria ad aprire il lettore e lo spettatore a temi più complessi ma non per questo meno meritevoli di essere affrontati e raccontati.

Di Elisa Torsiello, Giorgia Sdei e Ilaria Vigorito, 11/06/2018

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