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Raccontare Napoli senza parlare "di pizza e camorra" può essere possibile, viene detto in conferenza stampa dagli autori del film "Il cratere" alla Casa del Cinema di Roma. Tralasciando il "gomorrismo" e abbandonando il "pane, amore e fantasia" tipico del mondo partenopeo. Sfocando il resto e arrivando ad un'universalità di contenuto, possibile anche e soprattutto contingente ad un contesto specifico come quello della zona tra Caserta e Napoli, vero e proprio cratere del sogno neomelodico.

Il cratere è la prima opera di fiction della coppia di registi, scrittori e produttori Silvia Luzi e Luca Bellino, reduci da due convincenti prove documentaristiche come Dell'arte della guerra e La minaccia, entrambe riconosciute nei vari festival sia nazionali che internazionali. Il loro primo lavoro di fiction è infatti stato discretamente accolto nell'ambito dei festival, ottenendo grande riconoscimento soprattutto alla trentesima edizione del Tokyo International Film Festival, la cui giuria era diretta da Tommy Lee Jones. L'attore statunitense aveva elogiato il fatto che la scelta di due attori non professionisti, padre e figlia nella vita reale, era stata una vera e propria opera di coraggio.

Se i primi minuti del film presentano il lavoro degli autori -anche fotografi e montatori- con un 50 millimetri che sfuoca tutto il resto e cerca di imprimersi sui primissimi piani, introducendo ottimamente un lavoro di ricerca e racconto in maniera personale e convincente, è già verso la metà del film, però, che ci si accorge che questo tentativo appesantisce di netto il flusso del discorso portante. I fuori fuoco diventano talvolta noiosi, invadenti e alcune inquadrature (le labbra e il fumo di Rosario) diventano ridondanti, ben oltre l'effetto realistico e ciclico che i due autori vogliono concedere al racconto. Sicuramente vero è che il film si imposta volutamente - e coraggiosamente- su queste coordinate, ma la sensazione che la potenza espressiva del lavoro avrebbe potuto essere -talvolta- resa in maniera più ampia e nitida avrebbe acuito la potenza del racconto del sogno-ossessione di un padre verso quello della figlia. Risultano potenti le inquadrature specifiche che eliminano e saturano il "fuori" in favore di un "dentro", inquadrandosi in un'ossessività paterna, sempre umana e quasi naturale, come quella dell'esibizione della figlia attraverso la telecamera del padre, ma è anche vero che altrove l'occhio dello spettatore risulta quasi infastidito da questo perpetuo inseguire spalle di personaggi, messe a fuoco che non riescono immediatamente, ripetizioni di labbra, guance e fumi di sigarette. In un lavoro dove l'amatorialità e la non-professionalità vogliono diventare paradigmi di verità e di forma, il rischio è quello di avere un'arma a doppio taglio. A conti fatti, tenendo conto di certi sbilanciamenti e picchi funzionanti, il film di Luzi e Bellino, oltre che nobile d'intenzioni, resta potente emotivamente ed espressivamente efficace, seppur narrativamente appesantito da una forma troppo monocorde, che va a ledere ulteriormente l'essenzialità della sceneggiatura.cratere3

Il sogno neomelodico diventa l'unico pane su cui nutrire le speranze di un venditore ambulante da fiere di paese, tra orsacchiotti, sigarette e dialetto napoletano, connubi di un mondo tipico, di una zona specifica, di un paese con i problemi che si conoscono, ma anche in grado di poter diventare emblematico per un modo di esperire l'esistenza. Rosario Caroccia e Sharon Caroccia sono quello nella vita, e il loro essere stati trasformati in attori per il racconto della Luzi e del Bellini diventa una carta vincente per tracciare quel senso di realismo che comincia ad essere tratteggiato nella quasi superba scena iniziale del film, in cui Sharon cita per una probabile interrogazione, mentre balla allo specchio, sia il Verga che Flaubert, rispettivamente padri delle correnti che facevano della realtà la loro chiave di narrazione portante, quasi come se non vedesse l'ora di rintanarsi con sua sorella nel letto e scimmiottare gli idoli neomelodici della televisione.cratere4

Trovare elementi di realtà ed imprimerli a canovaccio diventa così l'emblema del discorso de Il cratere, in cui i segni scavati dall'esistenza nel volto del non-attore Rosario Caroccia imprimono tutta la verità -e la bellezza- del discorso filmico messo in scena dai due autori, così come il canto spensierato di Sharon diventa l'immagine empatica di un'età e un'innocenza continuamente minata dalla vita, dalla famiglia, dal mondo intorno. Giustamente -a questi fini-. il mondo intorno è sfocato e tutto si gioca sui particolari dei non-attori, più che sulla loro fisicità e presenza scenica, ma è anche vero che il rischio è quello di rimpicciolire il tutto, più che renderlo microcosmico, come è nelle intenzioni dei registi.

Il lavoro non è semplice e i due Caroccia, la Luzi e Bellini ne escono tutto sommato vincenti, sicuri di essere riusciti a combattere le difficoltà di una produzione cinematografica, come quella italiana, legata a standard, a visioni manichee sulle cose, sui luoghi, sulle persone da cui difficilmente si riesce -purtroppo- ad esulare.

Davide Romagnoli 10/04/2018

Non è cosa infrequente vedere raffigurati, all’interno di una lente artistica, i conflitti e le ferite dell’Umanità che stentano a rimarginarsi, nonostante un’immagine di quiete apparente. Il dramma della mancata, o difficile, integrazione d’altronde è sempre in agguato, quando viene raggiunta una situazione di pace o quantomeno di stabilità. La regista palestinese Annemarie Jacir pesca proprio da questo giacimento con “Wajib – Invito al matrimonio”, al cinema dal 19 aprile. Delicato e atipico road movie che ritrae un padre e un figlio viaggiare nella Palestina nel rispetto della tradizione (conosciuta per l’appunto come “Wajib”) che richiede che tutti gli inviti per un matrimonio siano consegnati a mano e di persona dai familiari.
A sposarsi è Amal (Maria Zreik), figlia e sorella dei due incaricati dell’onore e onere, compiuto peraltro tra le tante e tali difficoltà tipiche di ogni pellicola su quattro ruote: da vicini villani a pneumatici forati, da errori tipografici a remore morali. La promessa sposa si vede a schermo per pochi minuti, in modo non dissimile da ogni altro invitato o familiare che non siano Shadi (Saleh Bakri) e Abu Shadi (Mohammed Bakri), padre e figlio dentro e fuori dal film, come anche i doppiatori italiani, Andrea e Marco Mete.Wajib2
Il quadrilatero familiare è completato da una figura materna assente, la cui mancanza è però elemento drammaturgico rilevante: l’attesa del suo ritorno per partecipare al matrimonio e la sua stessa imprevedibilità, legata a cause di forza maggiore, hanno il sapore di spada di Damocle prima e, dopo, di quasi deus ex machina nel rivelare, e non risolvere, la liquidità dei conflitti padre-figlio. I due, separati da una trentina d’anni abbondante, sorvolano fin quando possibile i propri reciproci dissensi, giostrandosi in un ambiente a metà tra la claustrofobia di una macchina e l’estraneità casalinga dell’invitato di turno. Il figlio, emigrato in Italia, con una compagna e una famiglia nascente, che non ha intenzione di tornare e il padre, lasciato solo a crescere una figlia sul punto di sposarsi, che teme di rimanere il solo a camminare sulla strada percorsa da una vita. I chilometri corrono e, dilazionati da un ritmo posato e elegante, ci conducono fino all’inevitabile scontro non tanto di culture o generazioni, quanto di mentalità.
La regista e sceneggiatrice inquadra il tutto con prospettive immobili o tendenti alla staticità. Vuole forse riflettere l’ambivalenza statuaria di un luogo che, con i suoi pregi e difetti, le sue bellezze e difficoltà, non riesce a disincagliarsi da una situazione pietrificata. La divisione, sociale e non, emerge nervosa già tra un padre e un figlio appartenenti, per quanto non più geograficamente, alla stessa Palestina. È un punto di vista raro, proiettato dall’interno verso se stesso, a scrutare le ripercussioni familiari, sentimentali, intime se non private di due persone testimoni e testimonial di una transizione apparentemente eterna. Lungo i due argini di questa spaccatura, però, si parla la stessa lingua e si esprime, neanche troppo in profondità, un’armonia che magari un giorno, chissà quanto vicino o lontano, permetterà finalmente di sedersi e comunicare senza nascondersi nulla. Sia pure un vizio o un amore comuni, un tramonto di cui godere assieme.

Andrea Giovalè
09/04/2018

In ritardo di venti minuti a causa di una scaletta fitta abbastanza da far sconfinare il panel sulla Goldrake Generation, la XV edizione può finalmente cominciare all’insegna della fretta. Stefano Brusa e Perla Liberatori – conduttori storici della serata di premiazione – ci tengono a ricordare che i tempi sono stretti e la scaletta impegnativa. Dopo un video d’apertura, che omaggia in maniera ironica il lavoro dei doppiatori sulle note di ‘Occidentali’s Karma’, è il turno dei ringraziamenti di rito: a Vix Vocal, l’app che si presenta come lo Shazam dei doppiatori, e Maurizio Pittiglio, che ha realizzato le foto dei doppiatori usate per la grafica delle premiazioni.
Dopo aver elencato i membri della giuria del Gala, segue un omaggio in video dei doppiatori venuti a mancare nel corso dell’anno, e c’è spazio anche per un ricordo a Fabrizio Frizzi, voce di Woody, il cowboy giocattolo più famoso della storia del cinema d’animazione.
Tocca poi a una novità di questa edizione: il Premio de Angelis, voluto dalla famiglia di Vittorio de Angelis e dedicato, dicono i presentatori stessi, alla “creatività” dei direttori del doppiaggio, che viene assegnato a Giorgio Bassanelli Bisbal, al lavoro su ‘Corpo e Anima’. Gala Doppiaggio 2
La scaletta della serata segue un ordinamento misto e passa subito al Premio per la miglior voce femminile: la giuria sceglie Laura Romano, voce di Viola Davis in ‘Barriere’, mentre il pubblico premia Maria Pia di Meo per la sua interpretazione di Meryl Streep in ‘Florence’.
È la volta poi di un riconoscimento molto caro al Gran Gala dei Doppiatori, il Premio Andrea Quartana, intitolato all’omonimo doppiatore scomparso prematuramente, che premia le voci emergenti. Quest’anno tocca a Luca Mannocci, fra gli altri voce di Ezra Miller in Justice League.
Si passa alla Miglior voce femminile per un cartone animato e giuria e pubblico riconoscono unanimemente il titolo a Emanuela Ionica, per la sua sentita interpretazione di Vaiana in ‘Oceania’. Si ritorna ai riconoscimenti speciali con il Premio Ferruccio Amendola, che va a Nanni Baldini: il doppiatore non può essere presente di persona ma invia un ironico video di ringraziamento, in cui si presenta suonato e confuso come Rocky alla fine del suo scontro con Ivan Drago.
Per il Miglior doppiaggio di una serie TV, vincono per la prima volta a pari merito il premio della giuria ‘Better Call Saul’ e ‘Little Big Lies’, diretti rispettivamente da Alida Milana (Sdi Media) e Riccardo Rossi (CDC Sefit), mentre il pubblico sceglie decisamente la serie che ha come protagoniste Nicole Kidman e Reese Witherspoon.
Per il Miglior doppiaggio di una serie d’animazione la scelta è totalmente affidata al pubblico che, fra le acclamazioni dei presenti in sala, fa cadere le sue preferenze su ‘Miraculous: Le storie di Ladybug e Chat Noir’, diretto da Stefanella Marra per Dubbing Brothers.
A spezzare in due una serata che è ancora lunga ci pensano Federico Campaiola, Alessandro Campaiola e Alessio Nissolino che si presentano nella loro veste di trio comico FuoriSync, con un pezzo su Star Trek. L’intermezzo si allunga, quando i presentatori annunciano il premio non ufficiale ‘Vocine del futuro’: spazio dai toni autocelebrativi in cui i doppiatori premiano i propri figli, nella speranza che proseguano il lavoro dei genitori dopo piccoli ruoli minori svolti in serie e film d’animazione.
Si torna ai professionisti di una volta con il Premio alla carriera, assegnato ad Anna Rita Pasanisi (fra le altre, voce storica di Phylicia Rashad, la Claire Robinson de ‘I Robinson’) e Claudio Sorrentino (Ron Howard in ‘Happy Days’, John Travolta in ‘Pulp Fiction’, Mel Gibson in ‘Braveheart’). C’è spazio anche per i tecnici, che lavorano per confezionare i prodotti doppiati: a loro va il premio per il Miglior Fonico (Marco Santopaolo) e per il Miglior Assistente (Viviana Barbetta).
La giuria assegna a Riccardo Scarafoni – esilarante voce di Karen Crawley in ‘Sing’ – il premio per la Miglior voce maschile di un cartone animato, mentre il pubblico gli preferisce Fabrizio Vidale, che ha interpretato sia nelle parti recitate che in quelle cantate Maui, co-protagonista di ‘Oceania’. C’è ancora una volta concordia di giuria e pubblico, invece, per il Miglior doppiaggio di un film: ritira entrambi i riconoscimenti Rodolfo Bianchi, direttore del doppiaggio per Studio Emme di ‘La La Land’. Gala Doppiaggio 3
Prima degli ultimi due premi, c’è ancora spazio per un intermezzo, questa volta musicale: Alex Polidori, doppiatore e cantante, presenta sul suo palco il suo ultimo singolo ‘Non lo faccio apposta’, sulla sua pessima abitudine di non presentarsi in orario in sala di doppiaggio. Miglior voce maschile per la giuria è Paolo Vivio, Johnny Flynn nella serie Genius; il pubblico sceglie Alberto Angrisano, Halit Ergenç in ‘Rosso Istanbul’. La serata si chiude con il premio per il Miglior doppiaggio di un film d’animazione: se lo dividono Marco Mete, direttore del doppiaggio per la Dubbing Brothers di ‘Sing’, premiato dalla giuria; e Fiamma Izzo, che per Pumaisdue ha curato ‘Oceania’ e viene scelta invece dal pubblico.
In grande ritardo, così come è cominciata, si chiude anche la XV edizione del Gala del Doppiaggio. L’appuntamento è al prossimo aprile, con la speranza di una maggiore puntualità dell’organizzazione.

Ilaria Vigorito - 08/04/2018

«Perché quella sera c’erano le lucciole? E perché erano così tante? Pareva quasi tutte le lucciole del Giappone si fossero riunite lì, nello stesso momento. Insomma, Seita ne aveva già viste parecchie, come quella sera a casa della zia, o la prima notte alla caverna, ma mai, mai così tante tutte insieme; ed era una cosa strana, perché le lucciole vivono solo qualche giorno, troppo poco perché se ne possa apprezzare a fondo la bellezza».

Così veniva espressa la condizione del Giappone del periodo bellico, rappresentato nel famoso film d'animazione dello Studio Ghibli Una tomba per le lucciole, seguendo l'omonimo racconto semi-autobiografico di Akiyuki Nosaka sul bombardamento di Kobe. Il film è uscito nel 1988 (solo nel 2015 in Italia), ad opera di quello che viene considerato uno dei veri maestri dell'animazione giapponese, Isao Takahata, scomparso lo scorso 5 Aprile 2018.  Aveva 82 anni; la morte è avvenuta per le complicazioni legate ad un'insufficienza cardiaca.takahata2

Il suo narrare, forte e doloroso allo stesso tempo, era riuscito ad entrare nella pelle di molti appassionati di anime ma anche e soprattutto a sdoganare, insieme all'amico Hayao Myazaki, ancora di più l'arte dell'animazione verso un pubblico più ampio e trascendente le barriere di genere e d'età.

La carriera di Takahata era iniziata con un piccolo grande gioellino, La grande avventura del piccolo principe Valiant  (conosciuto anche come Il segreto della spada del sole), prodotto dalla Toei Doga nel 1968, che mostrava già una personalità stilistica profondamente spiccata verso l'abbandono di quella considerazione che relegava i lavori d'animazione all'appannaggio unico dei bambini. Fu proprio in quella occasione che iniziò il sodalizio con l'amico Myazaki, che portò i due a fondare, più di quindici anni dopo, lo studio Ghibli, vero pilastro di un intero modo di concepire l'animazione. Nel 1984 esce infatti Nausicaä della Valle del Vento, diretto da Myazaki e prodotto da Takahata e l'anno successivo La storia dei canali di Yanagawa, documentario d'animazione prodotto da Myazaki e diretto da Takahata, uscito l'anno stesso della fondazione dello studio cinematografico d'animazione.

È sicuramente con la serie animata Heidi del 1974 che il nome del regista viene sicuramente portato ad uno dei suoi punti più importanti, insieme sicuramente con la scrittura di Le avventure di Lupin III, del 1971, che lo avevano introdotto al grande pubblico occidentale. Il dramma realistico orientato anche ad un pubblico adulto, soprattutto femminile, portò ad un apprezzamento ancora più vasto con Pioggia di ricordi, del 1991, in cui venivano ripresi e portati a riflessioni importanti quei valori tradizionali, quel rapporto tra vita comunitaria ed esistenza privata, il rispetto della natura, l'ecologia, tutti temi essenziali per la narrazione del regista giappponese.takahata3

Uno dei lavori più riconosciuti come imprescindibili nella filmografia di Takahata -il primo, oltretutto, con una sceneggiatura originale dello stesso regista- è sicuramente Pom Poko, del 1994, sulla lotta e la disfatta dei tanuki contro la massificante opera dell'edilizia e dell'urbanizzazione moderna, legandosi indissolubilmente alla religione e al folklore nipponico.

L'ultimo film di Takahata è stato invece La storia della principessa splendente, del 2013, presentato anche agli Oscar come miglior film d'animazione e che oggi, insieme a Pioggia di Ricordi, detiene il cento percento di apprezzamento critico su Rottentomatoes. Sintomo, questo, che il ricordo del regista resta illuminato dal giusto riconoscimento e commemorato da un grande apprezzamento dimostrato da tutti gli amanti di questa arte.

Davide Romagnoli 07/04/2018

 

Davide Romagnoli,
6/4/2018

Il cinema rappresenta un “legame tra i popoli”, dichiara l’Ambasciatore di Francia in Italia Christian Masset. È del medesimo parere Serge Toubiana, Presidente di UniFrance, che al cinema attribuisce la capacità di creare “ponti” e “passerelle” tra nazioni. Così si sono espressi durante la conferenza stampa di presentazione dell’ottava edizione di “Rendez-vous. Festival del Nuovo Cinema Francese”, tenutasi lunedì 26 marzo a Palazzo Farnese presso l’Ambasciata francese a Roma. Rendez vous foto1È emerso un forte desiderio di dialogo e di incontro, come il nome della rassegna suggerisce. “L’edizione racconta un tentativo di incontro con l’altro”, spiega la direttrice artistica Vanessa Tonnini; non è un caso, osserva, che l’immagine simbolo dell’edizione 2018 sia un bacio (un fotogramma da “L’amant double” di François Ozon). Sulla stessa linea, sottolineando il desiderio di “rilanciare il dialogo tra Francia e Italia”, prosegue Christophe Musitelli, Consigliere culturale dell’Ambasciata di Francia in Italia e Direttore dell’Institut Français Italia. Dragoslav Zachariev, addetto all’audiovisivo dell’Ambasciata, pone l’attenzione sulla collaborazione, tra paesi, professionalità, arti, partner, sponsor, mecenati e ricorda la giornata dedicata alla riflessione sulle coproduzioni rivolta a un pubblico di addetti ai lavori prevista il 5 aprile.

Dal 4 al 10 aprile, Roma ospita proiezioni e incontri: alla Casa del Cinema di Villa Borghese, al Cinema Nuovo Sacher di Trastevere, all’Institut Français Centre Saint-Louis a pochi passi da Piazza Navona e dal Pantheon (il programma completo qui). Il viaggio in Italia del nuovo cinema francese prosegue anche a Bologna, Torino, Milano, Firenze, Napoli, Palermo fino al 15 aprile. Madrina del festival è Valeria Bruni Tedeschi, che tra i due paesi divide natali e carriera. Sua la Masterclass che apre il festival (4 aprile); in chiusura, invece, la Masterclass moderata da Alessandro Boschi (Hollywood Party Radio3) con Arnaud Desplechin, al quale è dedicato un focus di proiezioni (9-10 aprile). Cosa si nasconde dietro la scelta dei 30 titoli? Il criterio semplice di “aprire una finestra nel cinema francese contemporaneo” (Tonnini), tre macrotematiche (il vecchio e il nuovo, l’autopsia della società, la commedia) e una particolare attenzione al cinema d’autore. Inediti e novità come “Jusqu’à la garde” (lungometraggio di esordio di Xavier Legrand, 2017), ma anche una sezione documentari e film ormai classici, come il restauro a cura della Cineteca di Bologna di “Le Crime de Monsieur Lange” (Jean Renoir, 1936).

Quella tra la Francia e il cinema è una lunga storia d’amore. Risale al 1895, quando i fratelli Lumière proiettano il primo film. Si conferma nel 1959, quando il Ministero della cultura sotto la direzione di André Malraux stabilisce la cosiddetta exception culturelle française: lo Stato francese, che stava faticosamente risorgendo dopo i disastri del secondo conflitto mondiale, decide di investire denaro e speranze nel cinema nazionale, quell’arte che in Francia era nata e della Francia poteva – e doveva – essere fiore all’occhiello nel mondo. “Rendez-vous” si inserisce in un solco già tracciato con la forza della tradizione, l’entusiasmo del nuovo, l’ardore della passione cinefila al di là e al di qua delle Alpi.

Alessandra Pratesi 27/03/2018

Ready Player One” è, innanzitutto, un romanzo di successo pubblicato nel 2010 (in Italia nel 2011), dello scrittore e sceneggiatore Ernest Cline. Prima ancora che imparassimo a distinguere l’onda contro-culturale che ci avrebbe travolto di lì a poco, il libro si fondava sulla nostalgia insaziabile delle generazioni cresciute dagli anni ’80 in poi, sotto la stella pop del gioco di ruolo, del videogioco di massa e delle realtà virtuali, nei cinema o nei social network. Il romanzo, peraltro opzionato già mentre nasceva, diventa oggi un film di Steven Spielberg, sceneggiato dallo stesso Cline insieme a Zak Penn (“X-Men: Conflitto Finale” e “L’Incredibile Hulk”, tra gli altri cinefumetti).
Nel 2045, il mondo è ormai ridotto a resto agonizzante di se stesso, con povertà e inquinamento oltre i limiti del sopportabile. Nessuno però se ne cura, dal momento che un genialoide visionario (no, non Spielberg) ha creato Oasis, un universo digitale in continua espansione dove potersi creare una seconda vita. RP1Giocare, amare, divertirsi, arricchirsi, essere felici: non c’è niente, dentro Oasis, che non sia a portata di chiunque, e questo ne fa il rifugio perfetto per tutti.
Inutile dire quanto fosse ambizioso trasporre a schermo la mole di riferimenti meta-culturali che il libro mette in gioco, tra film, videogame, anime e tutto il resto. Altrettanto inutile, ex post facto, ragionare su quanto l’uomo giusto per farlo fosse proprio Spielberg, regista di sconfinata esperienza e incorruttibile adolescenza visiva. A quasi 72 anni, Steven è ancora tra i più taglienti e puntuali samurai del “mostrare, non dire” hollywoodiano. Le spiegazioni da fornire agli spettatori fuori target (a patto di trovarne, forse, tra i nati nel primo dopoguerra) pioverebbero a tonnellate. Si riducono invece al minimo sindacale, nascoste nei meandri di un’orgia visiva di botte da orbi, luci strobo, proiettili e chilometri orari da capogiro.
Si dice che uno dei segreti del cinema sia non entrare in competizione con l’immaginazione dello spettatore. Eppure alcuni film, film come questo, vi si sostituiscono, la soppiantano e, in tutta onestà, non la fanno rimpiangere. Non vi è una sola sequenza nella digitale Oasis che manchi di colpire al massimo del suo potenziale, prima estetico e poi pirotecnico. Intanto, la realtà le fa da contraltare perfetto, con la sua asciutta claustrofobia di possibilità e condizioni. All’interno di questo conflitto, più esistenziale che ambientale, dei ragazzi si “giocano”, è proprio il caso di dirlo, il controllo del mondo virtuale con una crudele corporazione aziendalista. Qui, Spielberg trova pane per i suoi denti, inscenando l’ennesima battaglia di età e valori inversamente proporzionali. Giovani protagonisti di buone intenzioni (Tye Sheridan, Olivia Cooke) si scontrano con adulti d’ostacolo per loro (Ben Mendelsohn, l’antagonista) o per se stessi (Mark Rylance, guida spirituale postuma).
Le interpretazioni attoriali non sono intaccate dalla mediazione dei loro avatar, le identità create all’interno di Oasis, anzi, ne vengono esaltate, traslando il gioco degli alter ego sul piano narrativo dei personaggi. Un equivoco che, seppur marginalmente, ci provoca: cosa, nella sfera dei sentimenti, resiste oltre i confini del mondo fisico? È un tranello che Spielberg non resiste dal sottoporci, declinato in salsa cinematografica. Ecco quindi figurare, nell’autentica miriade di riferimenti pop, alcuni tra i nostri primi amori del grande schermo: T-Rex e King Kong, solo per citarne un paio, e un’intera sequenza prelevata, con rispetto e gusto del proibito, da uno dei film alla base del culto cinematico moderno. Non bastasse il resto, ci pensa quest’ultima a renderci impossibile ignorare la personale sigla del regista-direttore d’orchestra, un timbro a fuoco al contempo personale e universale. Il suo più grande punto di forza.

Andrea Giovalè 22/03/2018

Caravaggio (1571-1610), al secolo Michelangelo Merisi, è ad oggi uno degli artisti più amati nel mondo, fortemente rivalutato in età moderna. La sua vita, come i suoi dipinti, è fatta di luci e ombre: è stato un pittore certamente prolifico, innovativo e dotato di indiscusso talento, ma anche un uomo tormentato, dalla vita spesso dissoluta, coinvolto in risse, guai con la legge, persino un omicidio. Genio e sregolatezza, insomma.

A lui gli stessi creatori di “Firenze e gli Uffizi” e “Raffaello, il Principe delle Arti” hanno dedicato “Caravaggio - L’anima e il sangue”, presentato nei cinema italiani lo scorso febbraio. Prodotto da Sky e Magnitudo Film, distribuito da Nexo Digital, si avvale della regia di Jesus Garces Lambert. Il film è stato uno strepitoso successo: al suo debutto, lunedì 19 febbraio, è stato il secondo film più visto della giornata, incassando 273.267 euro, per un totale di 29.834 presenze, preceduto solo dai risultati di “Cinquanta sfumature di rosso” e imponendosi nettamente su “Black Panther”, ultimo lavoro della Marvel. Nei tre giorni di programmazione ha portato al cinema 130 mila spettatori raccogliendo 1.200.000 euro al botteghino, diventando il documentario d’arte più visto al cinema in Italia. Per questo tornerà nelle sale cinematografiche, in replica nazionale contemporanea, il 27 e il 28 marzo.

Il film si snoda tra la figura di Caravaggio uomo e quella di Caravaggio artista, ripercorrendone dunque vita e opere, in un viaggio che tocca le città dove è vissuto e dove sono oggi custodite le sue opere: Milano, Firenze, Roma, Napoli e Malta. A curare l’aspetto scientifico del progetto sono stati esperti e storici dell’arte, come il prof. Claudio Strinati, la prof.ssa Mina Gregori, la dott.ssa Rossella Vodret. Oltre 40 le opere che vengono da loro analizzate e approfondite, tra cui “Bacchino Malato”, “Vocazione di San Matteo”, “Giuditta e Oloferne”, “Scudo con la testa di Medusa” (scelto per il poster ufficiale del film). Le moderne tecnologie hanno permesso una resa visiva particolarmente realistica. L’intero film è girato in formato Cinemascope 2:40: ne consegue una visione più ‘allungata’ delle immagini, proprio simile ad una tela. Questa, inoltre, è una delle prime produzioni in Italia realizzate in 8K, formato che permette quasi di ‘entrare’ nelle pennellate e carpire ogni singolo dettaglio di linee, forme e colori, enfatizzandoli al massimo.Manuel Agnelli 1

La voce dell’io interiore di Caravaggio, che percorre tutto il film, è affidata a Manuel Agnelli, frontman degli Afterhours. Si fa portavoce di stati d’animo e pensieri, che mettono in connessione la narrazione e lo spettatore in modo molto diretto, aggiungendo alla trama visiva e alle informazioni tecniche anche un coinvolgimento emotivo. La sceneggiatura non è tratta da diari o lettere, ma è stata elaborata da un team creativo guidato da Laura Allievi, aiutata da fonti storiche e biografiche, che le hanno permesso di approfondire ed immedesimarsi nell’animo di Caravaggio e di restituire il suo mondo interiore a parole.

Caravaggio – L’anima e il sangue” fa parte del progetto “La grande arte al cinema”. Il programma porta in sala docu-film dedicati ai grandi protagonisti del mondo dell’arte, ai musei, alle mostre. I prossimi appuntamenti saranno “Van Gogh. Tra il Grano e il Cielo” dal 9 all’11 aprile e “Cézanne. Ritratti di una vita” nei giorni 8 e 9 maggio.

«Penso che non ci sia niente nelle tenebre e ci sia tutto nella luce. Scelgo la luce»

Giuseppina Dente 19/03/2018

L'anima del Karawan Fest sta tutta nel sottotitolo che lo accompagna: il sorriso del cinema migrante. Poche parole chiave, ma essenziali per comprendere lo spirito di un festival unico nel suo genere. Il sorriso è quello dei bambini e dei ragazzi di seconda e terza generazione che abitano la periferia multietnica di Roma Est. Il cinema è quello delle otto commedie proiettate nei sei giorni di festival, dal 6 all'11 giugno. La migrazione sta nel soggetto di queste pellicole, tutte dedicate all'integrazione fra diverse culture, ma anche anche nello spostamento che il pubblico deve compiere per raggiungere i sei diversi cortili posizionati nei quartieri di Tor Pignattara e Pigneto.

Un festival itinerante, dunque, giunto ormai alla sua sesta edizione, che riesce ancora a compiere il suo ruolo cruciale nello scambio e nell'interazione culturale. Il mezzo utilizzato è il più semplice possibile, quello dell'arte per immagini, il cinema, medium trasversale che accomuna tutta il mondo pur mantenendo sempre un propria specifica riconoscibilità di nazione in nazione.
Otto commedie, otto diversi paesi di produzione (dall'Austria alla Romania, dalla Cina al Bangladesh), un numero indefinito di lingue che si mescolano in un melting pot stimolante dal quale traspaiono gli aspetti più buffi e divertenti dell'incontro-scontro tra culture. Perché ciò che emerge dalla vita quotidiana di questi quartieri, dove africani, orientali, medio-orientali vivono a stretto contatto con una manciata di italiani, è che l'integrazione non solo è possibile, ma è già effettiva. Al di là delle incomprensioni, delle rivalità, delle paure, il Karawan Fest porta avanti un messaggio che va oltre lo schermo, ma che si espande a macchia d'olio tutto intorno, in quei cortili dove artisti e spettatori, bambini e adulti, migranti e locali, condividono la stesso spazio, mangiano lo stesso cibo, respirano la stessa aria, ridono delle stesse battute.Karawan2

Così è stato, ad esempio, mercoledì 7 giugno, secondo giorno di programmazione del festival. Ad accogliere gli spettatori, nel piccolo anfiteatro della Casa delle Arti e del Gioco del V Municipio, una rappresentazione di marionette per i più piccoli e, a seguire, un estratto dello spettacolo “Narramondo” della Asinitas Onlus, nel quale un gruppo di donne islamiche raccontano la propria esperienza di migranti, di donne e di madri in Italia e nel resto del mondo. Le stesse donne hanno poi offerto un variegato buffet con pietanze provenienti dai rispettivi paesi di origine, un modo piacevole e spontaneo di dare ospitalità al pubblico prima dell'evento clou della serata: la proiezione del film “300 Worte Deutsch” (300 parole in tedesco).
La pellicola è “una commedia scoppiettante sul conflitto culturale e sull'islamofobia dilagante in Europa”, che racconta la storia di un gruppo di “mogli turche” nel disperato tentativo di imparare le famigerate 300 parole tedesche per ottenere la cittadinanza in Germania. Eroina della storia è la giovane Lela, tedesca di origini turche, costretta dal padre tradizionalista Marc a improvvisarsi insegnante e che si troverà ben presto a fare i conti con un amore inatteso. Il film procede sui binari tracciati senza particolari scossoni, sfruttando gli stereotipi figli del conflitto culturale turco-tedesco per generare tante piccole gag apprezzabili anche da chi è esterno a tali dinamiche.

La presenza quantomai piacevole dell'attrice protagonista Pegah Ferydoni ha arricchito la parte conclusiva della serata, rispondendo alle domande degli spettatori nonostante il simpatico “disturbo” dell'appiccicosa figlioletta. L'intervento della Ferydoni, madre e migrante esattamente come le donne che l'hanno preceduta, rispecchia alla perfezione l'essenza del Karawan Fest. Chi più di lei, infatti, iraniana cresciuta a New York e trasferitasi in Germania, può rappresentare lo spirito itinerante, poliglotta e multiculturale di questa manifestazione. Uno spazio prolifico di interazioni che merita visibilità e attenzione e che, siamo sicuri, continuerà ad averne sempre più negli anni a seguire.

Carlo D'Acquisto 10/06/2017

Ridurre al minimo, a volte, è una scelta necessaria, se non la migliore. Il nuovo film di Ivan Silvestrini, "2night", nelle sale dal 25 maggio, prende la strada della semplicità e lo fa in maniera drastica, quasi rischiosa, senza mai guardarsi indietro.

Non si può parlare di questa pellicola, infatti, senza citare la particolare vicenda produttiva. "2night" è il remake dell'omonimo film Israeliano diretto da Roi Werner. Il concept che ha ispirato i produttori è tutto qui: un uomo e una donna in una macchina e una città che fa da sfondo. Un racconto romantico “tutto in una notte” che si caratterizza per il suo budget quasi insignificante. Un'opera sperimentale, dunque, che riduce al minimo i rischi economici ma che fa impennare quelli artistici. Silvestrini ha preso una sceneggiatura dal forte impianto teatrale e ha cercato di valorizzarla al meglio con gli strumenti del mestiere cinematografico.2Night2Trovare varietà e dinamismo in una narrazione tanto minimale è stata la vera sfida del regista. Ispirandosi alla lezione di Steven Knight, che con il suo "Locke" ha compiuto un'impresa molto simile, Silvestrini ha giocato con i limiti imposti dalla storia, girando attorno all'automobile e inquadrandola da tutte le possibili angolature.

La maggior parte della responsabilità è sulle spalle dei due protagonisti e, per fortuna, la scelta del casting è stata particolarmente felice. Il vero punto di forza del film, infatti, sono proprio gli attori Matilde Gioli e Matteo Martari: belli, magnetici, riempiono lo schermo. Seppure i due non abbiano alle spalle studi specifici, le loro carriere sembrano essere in fase di lancio: la Gioli ha debuttato, nel migliore dei modi, nel 2014 con "Il capitale umano" per poi inanellare film e fiction uno dopo l'altra, mentre Martari è passato con sorprendente efficacia dalla carriera di modello (come dimostrano i suoi zigomi altissimi) a quella di attore, esordendo al cinema con "La felicità è un sistema complesso" per poi affermarsi in tv con la serie "Non uccidere". La loro presenza scenica e, soprattutto, la loro evidente alchimia sono gli ingredienti fondamentali senza i quali la scommessa di "2night" sarebbe stata sicuramente persa.

Poi c'è la città che fa da sfondo al loro incontro: Roma. La capitale viene raccontata dagli occhi di un romano (il regista) ma attraverso le voci di due attori del nord (lei milanese, lui veronese). Roma ha un ruolo attivo nella narrazione, più un'antagonista che una protagonista, che spinge avanti la storia con i suoi panorami mozzafiato e le sue stradine anguste, dove è impossibile trovare parcheggio. "2night" rappresenta, insomma, una vera e propria “dichiarazione d'amore” di Silvestrini alla città che lo ha cresciuto.

Il film comprime un'intera relazione in poche ore: lui incontra lei, si conoscono, si piacciono. La trama è questa e poco più. Non è un caso che i protagonisti non abbiano neanche un nome proprio o una caratterizzazione precisa. Di loro sappiamo lo stretto indispensabile: lei è una donna forte, autonoma, consapevole sessualmente ed emotivamente; lui è riservato, timido ma misteriosamente affascinante. Non ci serve altro. Perché per trasformare la loro storia nella storia di tutti noi è necessario ridurre i dettagli, correndo il rischio del generico.
"2night" ci racconta un prototipo quasi favolistico di storia d'amore: l'incontro vibrante tra due solitudini, che si incrociano nel caos di una discoteca per poi fondersi nel silenzio di una metropoli addormentata.

Il progetto è così semplice, lineare, genuino che si perdonano le sbavature di un ritmo rallentato e di una sceneggiatura non certo memorabile, lasciandoci un film dal carattere forte che persegue con lucidità e ottiene, infine, l'intento, tutt'altro che scontato, dell'essenzialità narrativa.

Carlo D'Acquisto 13/05/2017

FIRENZE – “Le donne sono fatte per essere amate, non per essere comprese” (Oscar Wilde).

Il bagno è il luogo principe delle confessioni, c'è lo scrosciare familiare dell'acqua, c'è il frizzante delle bollicine della vasca, c'è il soffice del cotone, c'è il calore del phon, c'è la morbidezza della spugna, c'è l'intimità del nudo. E ci siamo noi, svestiti, spogliati da ogni armatura, da ogni ruolo, struccati, finalmente veri, noi, i nostri pensieri e un momento per prenderci cura di noi stessi, della nostra pelle carezzandola, lisciandola, amandoci un po'.
Il bagno è grotta, il bagno è antro della sibilla, il bagno è porto sicuro, il bagno è mamma che ci asciuga da piccoli, il bagno è una parentesi di tempo privato sottratto alla nostra versione pubblica, il bagno è la sfera personale dove non esiste 002bagnopudore, dove possiamo tirare fuori il nostro vero io, quello che non ha timore dei propri difetti o inestetismi. In bagno non ci sono occhi indiscreti, in bagno nessuno ci giudica, il bagno è la stanza più piccola della casa ma la più affollata, desiderata, ricercata. Il bagno è quel claustrofobico che ci scalda, è soddisfazione dei bisogni primari, il bagno è pulizia e rituale, è l'anticamera dove ci prepariamo ogni mattina prima di affrontare il mondo-giungla, è la chiusura a cerniera ogni sera salutando un altro giorno vissuto o solamente andato e ormai trascorso. Il bagno (ottima l'idea di aprire con “Creep” dei Radiohead, anche se con una versione melensa e mielosa che ha privato dell'anima la canzone di Thom Yorke, la cui traduzione è “sgradevole”) ci vede per quello che siamo e ci accetta e ci rispetta.
Se “Il Bagno” (scritto dall'attrice francese Astrid Veillon e passato prima per l'adattamento spagnolo e infine arrivato alle nostre latitudini) solitamente è sinonimo di solitudine e di momenti d'intimità, in questo particolare messo in scena, bianco candido e immacolato, c'è un via vai continuo come in una plaza de toros, la porta si apre come in un saloon, in un andirivieni da mal di testa. Tutto si svolge qua dentro, mentre fuori infuria una festa a sorpresa, preambolo, escamotage, preludio, premessa che sembra non interessare a nessuna delle cinque chiuse nei loro conciliaboli, battibecchi, scontri dialettici e strette tra bidet e lavandino, tra vasca e water.
Cinque donne diversissime ma ugualmente deluse e sconfitte, ognuna con le proprie insoddisfazioni, aspettative scadute e amori andati a male. Tre amiche più una madre e una figlia e tutto il ventaglio dei cliché femminili: c'è la vamp fatalona, che infatti è in pelle e latex attillato, c'è la santa che si innamora del marito dell'amica ma non consuma il suo desiderio, e infatti è in rosa candido, c'è quella sopra le righe un po' avvinazzata e di mezza età (Amanda Sandrelli, la migliore in scena, il suo personaggio regge in piedi da sola tutta la fragile 004bagnocostruzione), e giustamente è vestita a fiori, c'è una madre egoista, adesso anziana (Stefania Sandrelli, il pubblico la ama) che ha preferito vivere la sua vita da donna single, capelli e scialle rosso fuoco, invece che invecchiare appresso alla figlia che compie quarant'anni, difatti luttuosa vestita in nero, che sta con un uomo ma è rimasta incinta di un ventenne danese.
Insomma ne esce fuori un ritratto composito delle donne di oggi per niente incoraggiante e rassicurante anzi banalizzante: isteriche, urlanti, problematiche, arpie, pettegole, acide, sole, lamentose, troppo legate agli umori degli uomini, nervose, bugiarde, inadeguate, volubili, conflittuali, ma soprattutto insicure. Molto unghie affilate e poco smalto lucido. Per dare un po' di brio poi ci sono state aggiunte e spruzzate da sit com che hanno, se possibile come se non bastasse, contribuito ad aumentare il caos in questo bagno: cocaina, un ministro (per giunta mafioso e siciliano, stereotipo all'ennesima potenza), la corruzione (questi tre parametri insieme ci fanno venire in mente “Jhonny Stecchino”), polizia, paparazzi, furti. Tanti scricchiolii, vuoti, pause.
Se l'intento era una costruzione alla Cristina Comencini, il testo manca di umanità e troppo si lascia facilmente andare alla risata scadente di pancia, se era quello di creare un'impalcatura alla Yasmina Reza la drammaturgia ha un deficit di profondità, di spessore sociale, di solidità.

“Il mondo sarebbe sarebbe un posto di merda senza le donne. La donna è poesia. La donna è amore. La donna è vita. Ringraziale, coglione!” (Charles Bukowski).

Tommaso Chimenti 31/10/2016

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