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Dopo il fortunatissimo esordio seriale, Spike Lee da maggio è tornato su Netflix con la seconda stagione di She’s Gotta Have It, produzione originale che riprende i protagonisti e le vicende della sua omonima opera prima di Lee del 1986, riadattandoli al contesto della Brooklyn contemporanea.

Già con la prima stagione Lee, che rimane l’unico regista di ogni puntata, era riuscito a ricostruire psicologie dei personaggi molto più profonde e articolate rispetto al lungometraggio, ponendo maggiormente l’attenzione sulle rivendicazioni identitarie e di genere della sua Nola Darling, interpretata da DeWanda Wise. L’obiettivo e l’ambizione di She’s Gotta Have It si dimostrano comunque molto più elevati in questa seconda stagione, più esposta e militante dal punto di vista culturale e politico e, di conseguenza, più didascalia e a tratti persino più complessa e ostica per un pubblico generalista.

La prima e più evidente differenza, in questi nuovi nove episodi, è il ridimensionamento della presenza maschile: Jamie, Greer e Mars, gli ex tre amanti di Nola, riappaiono come delle vecchie conoscenze, ognuno nel separato tentativo di rimettere in sesto la propria vita. Il fulcro della stagione non è più la triplice relazione e l’assoluta libertà sessuale e personale di Nola, quanto piuttosto la sua autoaffermazione.

I nuovi episodi ruotano infatti intorno alla crescita professionale e individuale della protagonista, trovando più di un’occasione per far riferimento alla reale comunità artistica afroamericana, che trova in questa serie una vetrina internazionale di tutto rispetto, dimostrando ancora una volta la stretta relazione che secondo Spike Lee intercorre fra la politica, l’arte, la cultura e la condizione sociale degli afroamericani.

È per questo motivo che nell’idea di messa in scena di Spike Lee, ogni creazione musicale, letteraria o visuale a cui si fa riferimento nella serie, merita un suo spazio preciso di riconoscibilità, anche se questo implica l’interruzione della narrazione. In altri termini, per esempio, ogni volta che risuona una canzone in colonna sonora, la copertina del singolo viene mostrata su fondo nero alla fine della scena, oppure ogni volta che Nola fa riferimento ai grandi nomi della cultura afroamericana, viene citato direttamente almeno un titolo o un brano delle opere più celebri, come accade con Zora Neale Hurston e i suoi romanzi come They’re Eyes Were Watching God o Barracoon. Soprattutto in questa seconda stagione, la continuità tradizionale degli eventi passa in secondo piano rispetto al valore culturale delle situazioni mostrate; molto rimane nel non detto, fra un’ellissi e l’altra, come se fosse più urgente e più necessario arrivare a raccontare solo i punti salienti che portano Nola alla sua rivelazione finale: la sua opera d’arte definitiva. 

L’autoritratto mostrato nell’ultimo episodio non a caso provoca sgomento e sofferenza nella sua comunità o persino disgusto fra gli amici esterni ad essa. È un’immagine che racchiude e concentra in sé, alla massima potenza, tutte le contraddizioni e i traumi irrisolti della società statunitense, soprattutto in materia di razzismo, supremazia bianca, relazioni interculturali e identità nazionale. Nel corso della serie si parla apertamente di Trump, di gentrificazione, di dominazione culturale, di integrazione e persino del rifiuto dell’integrazione stessa. Si arriva anche a dedicare un’intera puntata al cosiddetto cinquantunesimo stato della nazione, Porto Rico, con un interessante viaggio culturale che inoltre permette a Spike Lee un perfetto autocitazionismo, grazie alla partecipazione straordinaria della sua Rosie Perez a trent’anni esatti da Do The Right Thing.

Tutto ciò però acquista senso in prospettiva del viaggio interiore che compie Nola, alla ricerca di un senso nella sua arte, per la sua gente. Lo stesso senso che, a suo modo, ricerca il regista con questa serie e con i film precedenti, costringendo lo spettatore, qualsiasi spettatore, a reagire e a elaborare un’opinione su ciò che viene mostrato, senza assorbirlo passivamente, ma senza obbligarlo comunque a rimanere allineato con la protagonista.

Nola Darling diventa l’alter ego di Spike Lee, in una visione che si può definire, senza timore, un manifesto estetico in cui ogni dettaglio ha sempre senso per la Black Culture, anche quando diventa straniante per uno spettatore sprovveduto. Fortunatamente, in questi casi, è sufficiente il fascino utopico e intrinseco della figura di Nola e della sua pura libertà dello spirito a trattenere un pubblico più vario possibile.

Valeria Verbaro 18/06/2019

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