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Certo, assistere a uno spettacolo teatrale in Tv non è la stessa cosa: l’emozione dell’evento che si dispiega davanti agli occhi, la fibrillazione degli spettatori intorno che, come noi, attendono ansiosi il calare delle luci in scena, entrare in empatia con gli attori di cui percepire persino il sudore. E’ questione di contesto. Tuttavia, esistono sempre le eccezioni: ieri sera è andato in onda su Rai1 il monologo “Conversazione su Tiresia”, di e con Andrea Camilleri, con la regia televisiva di Roberto Andò (che ha curato anche la regia teatrale) e Stefano Vicario.images camilleri locandina
Andato in scena “live” l’11 giugno 2018 al teatro greco di Siracusa, nell’ambito della rassegna teatrale organizzata dall’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico), lo spettacolo è stato un successo, riproposto anche al cinema, a novembre, registrando un box office eccezionale.
Il brillante 93enne scrittore siciliano, che solitamente “cunta storie” attraverso i libri, questa volta lo fa con la sua stessa voce: è il leggendario indovino Tiresia la persona/personaggio che Camilleri fonde in sé, sulla scia delle 7 esistenze che, secondo la tradizione, Zeus gli avrebbe dato da vivere.
"Ho fatto questo racconto per affinità elettive”, spiega, dal momento che condivide con Tiresia lo stato di cecità.
Una lampada e una poltrona sono gli unici elementi della scenografia e Camilleri è accompagnato in scena dalla sua assistente personale Valentina Alferj e da un bambino, rimasto con lui per tutta la durata dello spettacolo, che lo guarda assorto tra il meravigliato e il perplesso.
“Tiresia sono!”, esordisce lo scrittore facendo l’occhiolino all’amato personaggio della sua penna, al primo scroscio di applausi di un pubblico tra cui, alla fine, si vede anche Luca Zingaretti.
Inizia così il racconto della storia di Tiresia, dalle origini nella Grecia antica, con la trasformazione in donna, poi la punizione dell’accecamento, fino alle interpretazioni, disparate e non sempre vere, che ne sono state date nel corso del tempo.
La narrazione procede con una voce calma, serena, cui le orecchie si abbandonano piacevolmente, senza sforzo, e la mente si lascia andare all’immaginazione grazie all’aiuto delle immagini proiettate sullo sfondo e le melodie di Roberto Fabbriciani, presente in scena.
La regia predilige inquadrature del volto, dei gesti di Camilleri, espressivo e disinvolto, e poi l’immagine si estende alla platea gremita del teatro.
Esiodo, Sofocle, Ovidio, Stazio, Dante, Poliziano, Milton, detrazioni e lodi di Tiresia, infine, il ‘900 “il secolo del riscatto”, in cui Woolf, Pavese, Pound, Eliot, Pasolini conferiscono la giusta consacrazione e il dovuto spessore alla figura mitica, nel segno del dono o dramma di vedere nel futuro.
Una ricerca sulle fonti sopraffina, un testo ricco, ironico, in cui non mancano incursioni del vivace dialetto siciliano, riferimenti all’attualità, il tutto in una resa interpretativa invidiabile.camilleri
Tra le varie citazioni, a colpire è quella di Jorge Luis Borges:”Tutti noi siamo teatro. Noi siamo gli attori e il pubblico, il copione e la scena, ciò che sentiamo e ciò che diciamo. Se questo è vero per la gente sana, è ancor più vero per i non vedenti. Da quando non vedo più, vedo le cose molto più chiaramente”.
Forse, per una sera, è stato così, la televisione (senza pubblicità!) ci ha permesso una visione più chiara, aperta, diversa, in cui la dimensione teatrale ha bucato lo schermo, scuotendoci.
“Ho finito”, conclude Camilleri, sottolineando come abbia voluto rappresentare questo spettacolo per provare solo ad “intuire” come sia l’eternità, recitando tra quelle “pietre eterne” del teatro.
Prosegue, “mi piacerebbe ci rincontrassimo tutti qui, una sera come questa, tra 100 anni”.
Lunga vita Camilleri !

Noemi Riccitelli 6/03/2019

Negli ultimi anni il cinema mostra una certa predilezione per il biopic: pellicole ispirate alla vita e carriera di personaggi del mondo dello spettacolo. Basti pensare al recente e, ormai celebre, Bohemian Rapsody (con ben 5 candidature all’Oscar) che narra la vita e i successi di Freddie Mercury e i Queen.
In Italia, lo scorso anno, ha riscosso particolare successo il film in due puntate Principe Libero, prodotto da Rai Fiction e Bibi Film, basato sulla vita di Fabrizio de André, interpretato da Luca Marinelli, trasmesso prima nelle sale cinematografiche e poi in prima serata su Rai1.
Quest’anno è stata la volta di Mia Martini.
Ieri, 12 febbraio, è andato in onda sempre in prima serata su Rai1, dopo la distribuzione nei cinema, Io sono Mia, prodotto anche in questo caso da Rai Fiction insieme alla Eliseo Fiction di Luca Barbareschi: un film dedicato alla talentuosa quanto fragile cantante Domenica Berté alias Mia Martini o, affettuosamente detta Mimì.
Il nome della cantante sembra essere ancora oggi un taboo, circondato da un’aura di rammarico (in alcuni casi,di circostanza) per la triste vicenda di vita che l’ha coinvolta; un rammarico che si accompagna, tuttavia, all’innegabile onore al merito, cristallizzato nel premio che viene ogni anno conferito a Sanremo dalla Critica, che oggi porta il suo nome, e che più volte fu proprio di Mia Martini.
Dalla personalità vivace ma anche molto suscettibile, la cantante italiana è interpretata da Serena Rossi (una delle ottime attrici e cantanti che l’Italia può vantare).
La regia di Riccardo Donna affronta la storia di Mimì a partire dal ritorno della cantante sul palco del Festival di Sanremo, nel 1989, dove attraverso un’intervista fortuita, non voluta, con una giornalista (Lucia Mascino) di Epoca, Mia Martini si racconta.
A poco a poco, quelle che sembrano le vuote domande di una giornalista riluttante, si trasformano in uno specchio di coscienza e verità e il passato si definisce per ritratti, quasi delle diapositive della memoria che, a scatti, portano indietro per poi tornare sempre al 1989 e a quell’intervista, a quella giornalista, diventata nel frattempo un’amica e una complice cui confessarsi.
Lo spettatore, così, viaggia con Mia nell’Italia degli anni ‘70/’80: alle spalle l’esperienza di qualche mese in carcere per una sigaretta di marijuana, il rapporto di amore/odio con il padre, che sarà però presente fino alla fine, la sua prima jazz band, le scorribande con la sorella Loredana (che ha partecipato alla consulenza per il film insieme alla sorella Olivia), l’incontro con l’impresario e avvocato Crocetta (Antonio Gerardi), che le dà l’impulso al successo, i concerti con Charles Aznavour (Corrado Invernizzi)
E così, Padre davvero, Piccolo uomo, Minuetto (scritta dall’amico Franco Califano, interpretato da Edoardo Pesce), Non finisce mica il cielo (di Ivano Fossati).
La performance canora di Serena Rossi è straordinaria, oltre al colpo d’occhio di alcuni tratti fisici che la rendono realmente somigliante a Mimì. Anche il resto del cast svolge un ottimo lavoro, specie Maurizio Lastrico che interpreta un fittizio fidanzato, Andrea (in cui, tuttavia, si può riconoscere il profilo del genovese Ivano Fossati, con cui Mia Martini ebbe una lunga relazione), il quale cerca di stare accanto alla complessa personalità non solo della cantante, ma anche della Mia donna. Infatti, la macchina da presa, pur seguendo diversi personaggi e situazioni, torna sempre a soffermarsi sullo sguardo della protagonista, come a volerne scrutare la sfuggente verità.
Quella verità emerge, tuttavia, dalla musica e dalle canzoni alle quali è impossibile non emozionarsi, pur sembrando banale a dirsi; quella musica è atto e potenza di Mia Martini, un canto nel quale tutto in lei ha trovato sostanza.
Ed è proprio nella voce che si manifestano anche i dolori della sua vita: le prime dicerie sul fatto che portasse sfortuna, la rottura dell’amore, che la porteranno all’operazione alle corde vocali.
Il perseguire degli insuccessi e il conseguente isolamento dal mondo dello spettacolo, dovuto a quella maledizione inventata, portano al ritiro dalle scene.
Gli amici veri, però, non la abbandonano e così Bruno Lauzi (già autore di tanti successi della cantante) le propone Almeno tu nell’universo, il brano con cui la Martini sfidò, all’Ariston, quel mondo che l’aveva rifiutata.
Il film si chiude proprio con la commovente e intensa esibizione di questa canzone al Festival del 1989, tra l'altro riprodotta da Serena Rossi e Claudio Baglioni qualche giorno fa sul palco a Sanremo, per rendere omaggio, chiedendole scusa, alla cantante.
Uno sguardo delicato e posato questo film, per cercare di comprendere quell’umanità e passione che allora non tutti hanno compreso o, forse, non hanno voluto comprendere, del resto “la gente è matta, a volte troppo insoddisfatta”. Ciò che resta è un bellissimo ricordo, di cuore e sentimenti, come solo l’arte vuole.

Noemi Riccitelli 13/02/2019

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