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Sanremo 2018. Si chiude il Festival delle occasioni

Climax: Ermal Meta e Fabrizio Moro con la loro “Non mi avete fatto niente” sono i vincitori di questa 68° edizione del Festival di Sanremo. Come in un film, i titoli di testa ci avevano già annunciato chi fossero gli eroi: i bookmakers avevano ragione, gli esperti di tv avevano ragione, quelli di musica anche, pur non avendo ancora ascoltato la canzone. E invece sì, la canzone l’avevano già sentita. E così, come nei film, c’è la fase down e infine la riscossa.

Una struttura rigorosa che, televisivamente, resiste nella regia di Duccio Forzano. Per riprendere i cantanti in gara, con la regia Roma 4 della Rai, ha adottato la tecnologia dell'Eurovision Song Contest, il “Cue Pilot", da anni assunto a standard di qualità per gli eventi musicali in tv.sanremo5

A smagliare una così precisa intelaiatura tecnica ci ha pensato il direttore artistico Claudio Baglioni che per dare nuovo smalto alla kermesse è partito dalla semantica, imponendo alla memoria che Sanremo è una città e che sui suoi altari si celebra il Festival della Canzone Italiana. Un Festival della parola, dunque, come Baglioni ha ribadito con forza nel corso delle cinque serate, in cui le canzoni tornano al centro della gara.
Il “dittatore” Baglioni si impone sul pubblico anarchico dei talent e inaugura, per le canzoni, la stagione più democratica tra le direzioni artistiche degli ultimi anni. Si ascoltano tutte e fino all’ultima serata, difese dagli umori di un pubblico da televoto che ha dimostrato di essere troppo acerbo per non permettere agli artisti di lasciarsi ascoltare. Una strenua difesa della parola ‘in gara’: nessuno infatti, in questa edizione, ha sentito la mancanza della serata delle cover (al contrario di quanto sentenziato da Marino Bartoletti alla vigilia del Festival).

Sanremo6Quello che si alleggerisce, invece, è il tono della conduzione: non un dogma (resta solo il rigore della regia) ma qualcosa che si pone subito prima di una drammaturgia, un canovaccio. E così come nella Commedia dell’Arte, ci vogliono le maschere giuste. Baglioni porta alla conduzione – per non doversene fare carico – una presentatrice che nella sua carriera non ha mai fatto la solista e un attore con doti e attitudini da showman (sulla cui identità, però, i The Jackal hanno insinuato non pochi dubbi con il loro #gnigni). Per rendere più esplicito il concetto, basti pensare che, per non condurre, Baglioni ha fatto aprire il Festival a Fiorello. Per non condurre, al momento di presentare le canzoni in gara, Baglioni ha riproposto sera dopo sera la gag degli occhiali dimenticati in camerino. Per non condurre, Baglioni ha invitato i suoi amici e ha cantato le sue canzoni. E ha fatto bene. Gli ascolti gli hanno dato ragione e, per la finale, ha tenuto incollati agli schermi 12.125.000 spettatori con il 58.3%: non si urla al miracolo ma è uno dei risultati migliori degli ultimi anni.

Un Festival che ha cercato di dare e darsi delle occasioni. Occasioni in senso etimologico, come qualcosa che ti casca davanti agli occhi e che corre il rischio di offuscarsi nelle sue stesse intenzioni. Come nei plot più riusciti, prima della redenzione ci sono le cadute: le occasioni perse.

Partiamo dalle occasioni perse per il trio. In primis, il saluto al “maestro Muccino” reso da Michelle Hunziker che, vista la dedica dell’intero Festival alla lotta alla violenza sulle donne, avrebbe potuto cedere a uno dei suoi compagni d’arme (resta inteso che siamo tutti d’accordo, come ribadito in conferenza stampa dalla conduttrice, che il regista non è ancora stato giudicato per le accuse di violenza domestica avanzate dall’ex moglie). Segue, l’occasione persa da parte dello stesso direttore artistico di lasciare che l’omaggio a Faber e a Umberto Bindi lo rendessero solo Gino Paoli e Danilo Rea per poi ritagliarsi il proprio spazio in seguito. Infine, il magnetico monologo di Favino – tratto dal suo spettacolo teatrale “La Notte poco prima delle Foreste” che porta in scena il testo di Bernard-Marie Koltès dedicato all’oppressione politica – offerto forse nella serata sbagliata, quando tra il pubblico non c’era Matteo Salvini (si vocifera, comunque, che una contestazione dalla platea sia arrivata. Di certo, non si è fatto attendere il tweet di Gasparri).Sanremo7 Ma le occasioni perse toccano anche la parte musicale del Festival. Ci sono le occasioni perse per i cantanti: Renzo Rubino, un pelo sotto gli standard e due sotto le aspettative; Elio e le Storie Tese che – posizionamento in classifica a parte – ci hanno privato della possibilità di ricordarci tra un paio di mesi di questo brano (nelle intenzioni espresse, l’ultimo); Luca Barbarossa, la cui canzone, per interpretazione, resta immobile come lui sul palco anche su quel sospiro che apre il ritornello. È in apnea. Ci sono le occasioni perse per restare a casa, primo tra tutti Giovanni Caccamo, che offusca un brano forse passabile con un’ugola monocorde, per poi giungere al duo Facchinetti-Fogli incapaci di rendere omaggio a se stessi (siamo certi che Roby sia in grado di pronunciare la lettera o). Infine, ci sono le occasioni perse per il pubblico: cogliere l’opportunità che la comprensione di brani come quelli dei Decibel e della coppia Servillo-Avitabile possono concedere all’udito per evolversi in ascolto. Un’ultima considerazione è doverosa: archiviato il caso Meta-Moro, si potrebbe immaginare di imporre la regola del 30% anche all’autocitazionismo, si veda il caso di Noemi, Le Vibrazioni e Fogli-Facchinetti (ancora loro).

Ma al netto di questi che, alla fine, sono gli inciampi di un cammino (speriamo!) appena intrapreso, l’occasione più grande è stata colta: restituire il Festival della Canzone Italiana, portare nelle case un prodotto forse precoce ma genuino e ridare vigore al significato italiano di manifestazione nazional-popolare. Per un pubblico reso orfano dei Mondiali di calcio, la sigla iniziale del Festival si è rivelata essere l’inno perfetto: “solo musica e parole / come un tempo tra di noi”.

Abbiamo il lieto fine. Sfuma al nero. The End.

 

Federica Nastasia

11/02/2018