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“C’era una volta Studio Uno”: gli anni Sessanta, Mina e la mitologia del varietà nella miniserie Rai

Studio Uno è un simbolo della televisione italiana. È il prototipo dello spettacolo di intrattenimento leggero televisivo. È il varietà anni Sessanta. È il primo tentativo di ritorno alla Bellezza dopo i faticosi e distruttivi anni della guerra. Siamo nel 1961 e Studio Uno si insinua, primo di una lunga serie, nelle case, nelle menti e nei cuori degli italiani. Era solo questione di tempo, allora, prima che Rai 1 decidesse di allestire un vero e proprio tributo alle sue origini con la miniserie “C’era una volta Studio Uno”, racconto mitologico del programma del sabato sera. Il progetto, diviso in due appuntamenti che andranno in onda in prima serata lunedì 13 e martedì 14 febbraio, è diretto da Riccardo Donna, prodotto da LuxVide in collaborazione con Rai Fiction.StudioUno2
Per dirlo con le parole di Eleonora Andreatta, Direttrice di Rai Fiction che ha presentato la miniserie alla stampa, “C’era una volta Studio Uno” è un mix tra modernità e tradizione, uno sguardo al futuro attraverso il confronto con il passato; un passato luminoso e, in quel momento storico, altamente rivoluzionario. Una delle tappe del percorso che la Rai ha intrapreso da qualche anno: la missione è quella di raccontare il nostro Paese, la sua tradizione e la sua storia in ogni ambito. Pensiamo alla miniserie dedicata a Enrico Mattei (“L’uomo che guardava al futuro”, 2009), pensiamo a quella su Adriano Olivetti (“La forza di un sogno”, 2013) oppure ad “Atelier Fontana” (2011), riguardante le tre sorelle, sarte parmensi, che negli anni Cinquanta divennero le stiliste più ricercate dalle dive di Hollywood. Questo nuovo progetto, però, sembra essere presentato con un particolare orgoglio: “C’era una volta Studio Uno” è la mitologia delle origini, una fiaba – con tanto di antagonisti e ostacoli da superare – su uno degli inevitabili simboli della cultura tricolore: il varietà. La televisione di qualità, curata e artigianale che entra nelle case degli italiani e li ipnotizza, li fa sognare, li coinvolge; la televisione del sabato sera, dedicata a chi, per mancanze economiche, non poteva fare altro che riunirsi davanti ad un televisore – rigorosamente condiviso con altre famiglie – e perdersi nel movimento ritmato e fascinoso delle gambe Kessler. Il film Rai, poi, diventa il racconto di un vero e proprio mito, un’icona sopra a tutto e tutti, contestata e adorata: Mina, personaggio di rottura, venerata dal pubblico e bistrattata dalla stampa.
StudioUno4La favola di Studio Uno è sullo sfondo, ambiente perfetto per raccontare la figura, che forse più di tutte si è trasformata negli anni Sessanta: la donna. Le protagoniste della miniserie Rai sono tre ragazze diverse, accomunate dallo stesso sogno: entrare nel magico mondo della televisione. Seguiamo, allora, le vicende di Giulia (Alessandra Mastronardi), in procinto di sposarsi e diventare una vera donna di casa che, come si conviene, non lavorerà e sarà mantenuta dal marito. Rita (Diana Del Bufalo) è una ragazza madre che sogna, più di ogni altra cosa, di diventare una cantante, proprio come Mina. Elena (Giusy Buscemi) è una splendida aspirante ballerina, fidanzata ad un ragazzo dell’alta borghesia: vuole diventare una stella e sarà disposta a tutto per riuscirci. Le loro storie si intrecciano e simboleggiano la voglia di cambiamento di quegli anni, il desiderio di riscatto. Con loro, nel cast qualitativamente impeccabile, troviamo Domenico Diele, Andrea Bosca, Gianmarco Saurino, Giampaolo Morelli, Edoardo Pesce, Simone Gandolfo, Enrico Ianniello e Antonello Fassari.
Nonostante “C’era una volta Studio Uno” sia una grande autocelebrazione della televisione di Stato, il film riesce anche a rappresentare, con onesta semplicità, i conflitti che ogni idea rivoluzionaria è costretta ad affrontare per diventare realtà. La narrazione - imbastita da una sceneggiatura abbastanza semplice – si presenta allo spettatore come un vero e proprio ritratto della vita del Paese nel decennio del boom economico. L’intento – percepito attraverso una regia moderna e dinamica, una fotografia accattivante e luminosa, un cast giovane e spiritoso e l’utilizzo della cover di Nek del classico “Se telefonando” nel promo Rai – è quello di attirare un pubblico che gli anni Sessanta non riesce nemmeno ad immaginarli. Un pubblico nuovo, attuale. Se il fine ultimo è questo, non è detto che verrà raggiunto. La miniserie, sebbene unisca il ricordo affettuoso della tradizione con la voglia di modernità, è irrimediabilmente dedicato a chi guardava, di nascosto dietro le poltrone dei genitori, quel programma magico e innovativo, perché si sa: dopo Carosello si andava a dormire.

Viola Barbisotti 01/02/2016

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