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“Dov'è finito lo zio Coso”: la perdita delle parole, l'oblio della memoria

CHIANCIANO - “Ho perso le parole oppure sono loro che perdono me, lo so che dovrei dire cose che sai che ti dovevo e ti dovrei”, gorgogliava il Ligabue cantante. Quando le parole ti scivolano di mano come sabbia tra le mani, quando non riesci più ad afferrarne il senso, quando non sai più identificare gli oggetti quotidiani con un termine, allora non riesci più a comunicare, a esporre agli altri le tue emozioni, sensazioni, stati d'animo e, inevitabilmente, ti chiudi a riccio, dentro un muro invalicabile fatto di silenzi, una coltre di nebulosa impenetrabile perché ormai tutto il tuo intorno diventa un campo di battaglia disseminato di vocaboli sconosciuti come abitare in un Paese straniero senza aver accesso a quella lingua. Quando si perdono le parole si brancola nel buio del sospeso, tra i punti interrogativi e i vuoti, la memoria si fa labile, i ricordi si offuscano e sbiadiscono e tutto diventa confusionario e complicato, difficile e caotico.

ziocoso13jpg-scaled.jpgEd è proprio la memoria il fulcro, la spina dorsale, il perno sul quale gira “Dov'è finito lo zio Coso” (dal romanzo di Alessandro Scwhed, per la regia di Manfredi Rutelli e il non semplice adattamento, per la produzione LST Teatro, visto al Teatro Caos di Chianciano) che, limitandoci alla superficie potremmo etichettare come tragicommedia della Shoah, un on the road dal sapore klezmer, un inganno alla “Train de vie”. Certo l'atmosfera è di gusto ebraico e di fondo la narrazione si sviluppa intorno e attraverso i temi della deportazione e dell'Olocausto. Ma non solo. Il discorso si fa più ampio e le finestre aperte fanno rimbalzare riflessioni a specchio e nuove porte di ragionamento e pensiero. Con una semplice ma molto efficace scenografia, due divani da scompartimento dei vecchi treni, il plot si dispone in un altalenarsi tra due quadri, il vagone appunto e un salotto domestico. Il protagonista è il nipote dello zio citato nel titolo che racconta le vicende che lo hanno portato ad avere questo continuo e martellante mal di testa, fisico ma anche psicologico e psicosomatico, che se ne sta solitario, in penombra rintanato nelle proprie quattro mura sentendo voci e un forsennato bussare immaginario alla sua porta. Questi fantasmi.

L'impianto è leggero ma il sottobosco è trafiggente, scorticante, urticante. Mentre il nostro sconfitto (Alessandro Waldergan ha la gentilezza dei perdenti e suscita l'empatia per i vinti) sta andando in Ungheria a trovare lo Zio, scampato ai campi di concentramento, gli si avvicina un uomo elegantemente vestito di un candido, puro, bianco ariano che tesse le lodi di Hitler e si impegna nello smontare, e bollare come una grande performanceIMG20230126114546.jpg teatrale, la Seconda Guerra Mondiale, le battaglie, gli eccidi, le SS, i milioni di morti, i lager di sterminio. Un complottista-negazionista-Angelo della Morte (Gianni Poliziani sempre più convinto e consapevole dei suoi mezzi) che con arte retorica e doti dialettiche si fa strada dentro la coscienza dell'ebreo che vacilla nelle sue convinzioni, perde i suoi punti di riferimento, boccheggia dentro dubbi atroci. E' un dialogo acido dell'assurdo quello che si scatena tra i due, tra l'arrogante e aggressivo e violento verbalmente tedesco e il timido dimesso ebreo con il senso di colpa IMG20230126114847.jpgdel sopravvissuto. Si ha la netta sensazione del vortice silenzioso, dell'oblio che tutto spazza via, della dimenticanza che fa tabula rasa, dell'amnesia che distrugge le radici.

L'ariano potrebbe essere frutto della mente dell'ebreo per quell'afflizione e tormento atavico, per quel sentimento struggente di eterna sconfitta, di taciturna vergogna. E più lo scambio tra i due si fa incoerente e non-sense e più che l'ebreo ingenuo sembra convincersi delle tesi ardimentose del nazista, mentre il disagio emotivo e fisico aumenta e peggiora fino a fargli perdere i contorni degli oggetti, scordare il suono delle parole per identificarli, i nomi delle cose come quelli delle persone. E' il dramma acre di chi non viene creduto, la tragedia della rimozione collettiva, la malattia sociale che vuole mettere le brutture sotto il tappeto invece che affrontarle. Un testo sfaccettato che mette il sale sulle ferite del nostro tempo, una drammaturgia-prisma che ci graffia sorridendo, che ci taglia sogghignando, un'opera caleidoscopica che ci lacera sghignazzando amara delle nostre paure.

Tommaso Chimenti 30/01/2023

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