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“Vero su bianco”, le forme del narrare

Esistono infiniti linguaggi per raccontare delle storie; spesso siamo portati a pensare che la voce sia il “canale” più immediato per narrare e descrivere delle situazioni o, semplicemente, per «communicare» nel senso proprio di “mettere in comune” qualcosa che deve essere espresso e al tempo stesso compreso. Ma cosa accade quando più linguaggi comunicativi si fondono al punto da non percepire più il confine in cui uno inizia e l’altro finisce? Succede qualcosa in stile “Vero su Bianco” lo spettacolo nato da un’idea del «surfista dei linguaggi espressivi» Edoardo Nardin e l’autore e attore di teatro Riccardo Goretti.
Uno spettacolo che è anche performance, un esperimento da testare, provare e collaudare sul campo, un “concerto” di parti dif-formi che vanno insieme ma in maniera autonoma,
è un atto condiviso tra chi agisce e fruisce, tra il vedere e il fare, l’essere e il diventare, tra ciò che già esiste e quanto per casualità, destino o fantasia, spontaneamente si rivela.
verosubiancoDifficile spiegare cosa sia veramente “Vero su Bianco” che, non a caso, gli autori e interpreti definiscono «uno spettacolo con un altro livello di qualcosa».
Siamo dentro uno dei saloni del Palazzo Buonamici di Prato, uno spazio cui si accede dopo aver camminato tra i venti espositori di editori indipendenti giunti da tutta Italia per la prima edizione dell’Oioi Market.
Il pubblico si trova nel bel mezzo di un “gioco”, al quale assiste vestendo i panni dello spettatore, ma nel quale si trova coinvolto come elemento essenziale della rappresentazione. Non c’è una trama, nel senso che non viene proposta di volta in volta la stessa storia; ciò che resta invariata è la struttura della performance: ovvero vengono scelti degli estratti da tre libri che Goretti racconta e Nardin disegna. Per questa volta pratese sono i mondi immaginari e le teorie non-scientifiche di “Elianto” di Stefano Benni, le poesie, ovvero le «47 cose andate molto a capo» della raccolta “Ti amo ma posso spiegarti” di Guido Catalano e le “Novelline Dadaiste”, libro fresco fresco di pubblicazione scritto da Goretti e illustrato da Nardin nella sua presentazione ufficiale.
In pratica vengono letti gli estratti da questi libri che ispirano la fantasia, l’immaginazione e la creatività del disegnatore il quale, sulla tela, dei fogli stampati o qualsiasi cosa si trovi in sua prossimità, rende nella forma di immagine. Quello che accade davanti agli occhi dello spettatore ricorda un po’ l’atto del danzatore al quale si chiede di improvvisare dei passi: l’interprete “sente” e dà un tempo, un senso e una forma a quanto, attraverso l’udito, capta da una fonte fuori da sé. Goretti, con la sua narrazione, fornisce come un “sound” di contenuti, ovvero i racconti, l’arte della retorica che Nardin fa immagine senza prestrutture che non siano “governate” dalla sola estemporaneità. Un «verba volant, scripta –anzi disegni - manent»? sì ma nella sola accezione in cui il «verbo» “vola” da chi lo pronuncia a chi lo recepisce dandogli una forma diversa tra le infinite possibili. Non c’è una parte che prevale sull’altra, né una più efficace o più comprensibile, ma un insieme di parole e raffigurazioni in grado di raccontare la stessa situazione sfruttando due codici diversi in perfetto equilibrio e armonia.
verosubianco2Molto bella tutta la parte dedicata al bonus vitale ripreso da Benni, in cui si spiega che la morte non dipende dalle malattie ma dal numero di attività concesse a ognuno di noi («un milione di starnuti, trenta viaggi all’estero, sessanta litri di lacrime, la possibilità di dire seicentosedicimila volte la parola “insomma”»); a nessuno però è dato sapere il numero di attività previste per il proprio bonus, altrimenti la paura di essere in bilico sull’ultima di queste, non ci permetterebbe di vivere più nulla. Mentre Goretti racconta la teoria, Nardin si guarda intorno e inizia a disegnare i volti di quegli spettatori che guardano e ascoltano, lasciando a loro stessi l’occasione di capire chi ha catturato la sua attenzione e, forse, anche quella del foglio. La pagina bianca non è l’unico “territorio” su cui si posa l’indelebile nero del nostro illustratore. Le mani, le gambe, le braccia degli spettatori diventano lo spazio sul quale Nardin, indisturbato, sente di poter disegnare; il pubblico è complice di questo gioco, è sorpreso ma non stupito di farne parte. Questa è forse è il momento che più vuole – e deve - arrivare agli spettatori, ispirata dalle “Novelline dadaiste”, il libro scritto e illustrato dai nostri protagonisti della scena, che fa il suo debutto ufficiale. Goretti narra –stavolta- i suoi racconti dalla prosa semplice, breve, a metà tra la favola e il reale («un granchio senza granchio che sembrava un sasso», oppure, «c’era una volta un periodaccio…»), mentre Nardin si aggira tra il pubblico e continua a disegnare sui corpi delle persone, come se quanto hanno ascoltato e visto dovesse rimanergli davvero impresso…addosso. Alla fine qualcosa cambia, si cede lo “scettro” del racconto a chi ha voglia –ma soprattutto il coraggio- di farlo. Siamo arrivati, quasi involontariamente, al punto in cui tutti possiamo essere al tempo stesso attori e spettatori senza rimanere fermi, immobili, in un unico ruolo, un’unica forma. Che poi, a pensarci bene, non era proprio questo il punto dal quale eravamo partiti?

Laura Sciortino 20/09/2017