L’incensato Cristoph Marthaler apre la Biennale Teatro veneziana. Lo fa da padrone di casa visto che il Leone d’Oro quest’anno è suo (e sarà suo anche il Premio Ubu come miglior spettacolo straniero in Italia). Dici Marthaler e subito il commento che evapora nelle sale si tramuta per un sorrisetto furbo d’intesa, come a dire “noi si che ne sappiamo, che ne abbiamo viste”. Chiamarlo comportamento radical chic sarebbe un abuso fuori luogo, ma la pasta che si sciorina nella dialettica da frequentatori assidui di foyer è più che altro un volo d’uccelli compressi in uno stormo, dove tutti vanno senza sapere quale sarà la precisa direzione, la collocazione ultima. Così come i risolini forzati e nasali di un certo tipo di platea che cerca di influenzare gli indecisi (ah, gli ignavi!), riuscendoci, elevando il tono (tomo, più che altro) della vicenda a qualcosa che si liquefà a denti stretti. Sarà quest’ironia nordica e fredda e protestante che riesce poco a far breccia in cuori caldi e latini e cristiano-cattolici (abbiamo bisogno del senso di colpa per trovare la strada per la salvezza, che sia Paradiso o una semplice risata), sarà che la Svizzera, di guglie appuntite e di guardie vestite come un Arlecchino romanista, di ridente e gaudente e festante ha sempre esportato poco.
Tutto in questa, nella traduzione “Isola galleggiante” (ricorda un dolce morbido) è lento, volutamente, eccessivo e statico, inflessibile, immutabile, una fotografia in plastilina, uno scatto immerso nella formalina. Gli otto personaggi si presentano al pubblico davanti al sipario, ognuno con le proprie manie e tic, ridondanti e pedanti nel loro modo di porsi ed esporsi a una platea accondiscendente e caritatevole di elogi a prescindere, che ha lasciato la criticità tra calle e alberghi, tra gondole e campielli, tra “ombre” e baccalà mantecato. Due ore e un quarto per un qualcosa che molto si avvicina alle atmosfere british polverose e nebbiose di Agatha Christie (manca il cadavere, la suspense, l’attesa; qui tutto è lineare e già detto) con gag scontate, e preparate con una lungaggine snervante, con preliminari da bradipi sonnolenti, che allungano, estendono, affievoliscono le dinamiche lasciando vuoti, buchi, ansie. Il ripetere all’infinito le battute, l’attendere in maniera pedissequa la reazione, che non arriva, da parte del contraltare di turno, la parodia di una recitazione sempre sopra le righe, il tutto fa diventare il brodo acido, stucchevole, intorpidito, imbambolato. Le campane a morto, che imperterrite ammantano tutta la prima parte, non aiutano. Dov’è la gioia, la sana bellezza dello stare in uno spazio a condividere una visione?
Come pandispagna demoralizzante ci si accartoccia sui segni lasciati come briciole, come pastafrolla molle e cedevole, come glassa che si squaglia, melassa soffice che impiastra. La storia è semplice: due giovani si vogliono (devono?) sposare e le famiglie conoscersi. Fine della storia. L’apatia e l’immobilismo, le pause atroci, gli intermezzi, i corpi bloccati nell’ultimo gesto, come impietriti dalla Medusa, le stupidità scontate, immaginabili e supponibili negli atteggiamenti ci fanno rimpiangere le gag da b movie nostrani, le cadute, le sedie sfondate.
Per cercare un paragone tra cinema e teatro, potremmo avvicinare Marthaler a Wes Anderson, con quel loro sarcasmo contenuto e controllato, quel sentimento sempre in bilico tra la stupidità e l’assurdo. Ci sono molti modi di ridere. Un manierismo antipopolare che crea una frizione, una rottura tra chi è incluso e chi ne sta fuori, un teatro altamente borghese e che, forse, non è portatore di alti valori “politici”. Forse dovremmo riflettere di più su dove vanno a cadere, ad inciampare i nostri sghignazzi. Sorridere dei capitomboli, dei crolli altrui non è più ammissibile.
Visto alla Biennale Teatro, Venezia
Tommaso Chimenti 04/12/2015