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Una sigla che condanna a morte: le “Vite parallele” dei malati di SLA al Teatro Furio Camillo

“Mi chiede: Fa molto male morire? Beh, tesoro – rispondo – sì. Ma fa molto più male continuare a vivere.” (Chuck Palahniuk).
Una mano si stringe in un pugno che si avvicina allo stomaco dello spettatore e lo colpisce in pieno. Questo è “Vite parallele”, lo spettacolo che il regista e drammaturgo Antonio Nobili ha portato sul palco del Teatro Furio Camillo fino al 17 aprile: un faccia a faccia con la precarietà esistenziale, con la malattia, con la sofferenza, con la morte.
Ci troviamo di fronte a due stanze divise da un muro immaginario: in una abita Valerio (Alessio Chiodini), aspirante reporter giramondo, colmo di sogni, aspirazioni, amici; nell'altra vive Simone (Simone Guarany), grafico di successo, innamorato di Marta. A far crollare all'improvviso quella parete è una sigla che ha lo stesso impatto sconvolgente di un terremoto: SLA, come sclerosi laterale amiotrofica. Una malattia che non lascia scampo, che in breve riduce a uno stato larvale, a osservatore impotente della paralisi progressiva del proprio corpo. Nello stesso giorno, infatti, Simone e Valerio scoprono di esserne affetti. Realizzano che quelle tre lettere saranno incise per sempre sul loro corpo giovane: come un marchio, una condanna a morte. Nello stesso giorno, capiscono che la vita è un cammino che può interrompersi da un momento all'altro. E che la morte sta avanzando verso di loro, in fretta.
Le due stanze diventano una sola: quella squallida di un ospedale, illuminata da luci al neon, arredata del necessario. I nomi propri vengono sostituiti dai numeri delle cartelle cliniche – paziente 15, paziente 18 - il contatto umano ridotto a quello consentito dagli orari di visita dell'ospedale, i movimenti del corpo più elementari – muovere un dito, stendere una gamba – si trasformano in operazioni complicatissime. È così che una domanda inizia a insinuarsi sempre più prepotente non solo nella mente di Valerio e Simone, ma anche in quella del medico, degli spettatori: “Non fa molto più male continuare a vivere?”.
Parlare di argomenti così delicati è sempre un'operazione rischiosa. Probabilmente più a teatro che al cinema, dove non c'è la mediazione dello schermo e tutto arriva più immediato, violento. Altrettanto rischioso è interpretare qualcuno che perde quasi improvvisamente l'uso delle gambe, in preda alle convulsioni, che non riesce più articolare in modo corretto le parole, che fa fatica persino a respirare. Viene in mente Eddie Redmayne ne “La teoria del tutto” di James Marsh, film che racconta la vicenda biografica del cosmologo Stephen Hawking: affetto da SLA, icona popolare della scienza moderna e sostenitore dell'eutanasia e del suicidio assistito.
Nonostante la sfida difficilissima che si trovano ad affrontare, Alessio Chiodini e Simone Guarany riescono ad essere credibili. Soprattutto Chiodini, interprete di un personaggio che riesce a tratti a ironizzare sul proprio stato, restando lucido e razionale, commuovendo e divertendo.
“Vite parallele” è il tentativo di affrontare il tema della malattia da più punti di vista. Non solo quello dei pazienti-condannati a morte, ma anche da quello del medico che ha a che fare quotidianamente con i malati terminali, che compila milioni di cartelle cliniche, che comunica loro l'aspettativa di vita che gli resta. Da quello delle infermiere, confidenti empatiche dei pazienti o, al contrario, maestre di cinismo abituate a convivere con la morte ogni giorno, quasi fosse un parente prossimo. Uno spettacolo duro, un universo di dolore che diviene paradigma del quotidiano.
“Poi, a un tratto, la sera è diventata notte. A volte non hai il tempo di accorgertene, le cose capitano in pochi secondi. Tutto cambia. Sei vivo. Sei morto. E il mondo va avanti” (Charles Bukowski).

Marta Gentilucci 17/04/2016

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