Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 620

Print this page

Un viaggio “Sul tetto del mondo” con il Teatro delle Ariette

di Paola Berselli e Stefano Pasquini
con Paola Berselli, Stefano Pasquini e Maurizio Ferraresi
immagini e montaggio video Stefano Massari
regia Stefano Pasquini
produzione Teatro delle Ariette 2014

Visto al Deposito degli attrezzi, Podere Ariette, il 23 giugno 2015


Per raggiungere le Ariette è necessario percorrere una strada in salita, una strada fresca e verde con qualche curva e molti profumi che, inerpicandosi nella valle di Rio Marzatore, nella pura campagna tra Modena e Bologna, termina dritta sul “tetto del mondo”. Si ascende e per farlo nelle migliori condizioni è necessario liberarsi di qualcosa, per andar su più leggeri: prima di tutto si lasciano i contatti viziati con tutto il resto del mondo, perché lassù il cellulare non riceve, poi le ansie e i respiri affannati, le ombre e i nodi, le barriere e i denti stretti.
È un angolo di terra illuminato dove avvengono strane magie, il tempo si annulla e si schiaccia sul presente e il teatro (o il Teatro) diventa un luogo intimo, raccolto, aperto a tutti ma fruibile a pochi, in cui il mestiere della terra si mescola all’arte per dare, restituire vita, in quel Deposito degli attrezzi (qui le Ariette fanno i loro spettacoli da oltre un decennio, quando non sono in giro per il mondo) che accoglie lo spettatore tra profumi di cibo e stoviglie domestiche.
Anche in questa occasione si è invitati a casa di Stefano e Paola, a sedersi alla loro tavola per ascoltare il loro vissuto ed esser pronti a seguirli “Sul tetto del mondo”. Lo spettacolo, portato in giro da oltre un anno, è un viaggio nel tempo attraverso i loro venticinque anni di matrimonio (celebrati il 18 giugno 2014) e i venticinque anni di vita alle Ariette, da quell’autunno del 1989 in cui cadevano i muri e Stefano e Paola abbandonavano il teatro, la politica e la città per dedicarsi a una vita diversa.
Oggi, sulla scena e in poesia, i due attori, spaventapasseri di questo tempo maturato, vestiti con giacca e cappello scuro, ombrelli rossi alla mano e “L’internazionale” che risuona da un carrillon, resistono alle intemperie e ai passaggi delle stagioni anche se sembrano durare “il tempo di un raccolto”. Sdraiati su un piano che diventa letto e campo, sono presentati da un cameriere con una strana livrea (Maurizio Ferraresi, terza anima delle Ariette) mentre sopra di loro, a scandire il ritmo del sogno e del racconto, scorrono i frammenti degli anni passati chiamati in causa, attraverso i filmati toccanti e leggeri di Stefano Massari; immagini senza sonoro, perché i suoni, le voci, così come i sapori rimangono fissi nei ricordi, dando ai presenti la libertà di interpretare e sentire. Ci sono facce rubate e facce vissute, amici e gente di teatro, giovinezza, colori sbiaditi, animali presenti e passati, paesi stranieri e l’utopia di una vita, l’amore di una vita. Ci sono anche le morti, le assenze, le malinconie, temi che percorrono l’intero spettacolo (con due croci ai lati della scena, ossatura di spaventapasseri, a ricordarci che l’eternità è una mania di onnipotenza) e ne caratterizzano nello specifico la parte centrale con un ritmo diverso, sarcastico, brillante e una Berselli mattatrice clownesca a elencare, in un botta e risposta continuo con Pasquini, ciò che è sopravvissuto in questi venticinque anni.
Tutto il resto è poesia da film muto, impalpabile, essenziale, immediata, malinconica. I due spaventapasseri si muovono all’unisono suggerendo una simbiosi quasi necessaria, con poche parole spontanee e gesti simbolici: seminano il grano attorno alla scena abbattendo così distanze e filtri, parlano della cagna Tea leggendo una lettera, a lei destinata, pura e bambinesca, si asciugano le lacrime a vicenda al ricordo del sogno reciproco del funerale dell’altro. Non c’è sopravvivenza senza amore e lo spettacolo, nonostante le ferite e la nostalgia, ne è una dichiarazione continua: amore per l’altro, in cui ci si riscopre rinnovati ogni giorno, cui si dà e si chiede voce, amore per la vita, grazie alla natura che mette in scena i propri cicli, troppo spesso dimenticati, al rispetto del silenzio e dell’attesa.
Alla fine il rito collettivo, la scena diventa la tavola a cui sedersi, si spengono i fornelli che hanno cotto per noi la cena e le Ariette condividono il focolare, il proprio raccolto, dopo averci offerto il racconto intimo e delicato dei propri anni, una speranza gentile e un motivo in più per continuare a salire.

Giulia Focardi 03/07/2015