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ContaminAzioni 2016: “Un pezzo del naufragio”, quando il ricordo è una mosca

Il ricordo e l'amore perduto vanno subito in frantumi. I cocci di quell'anima deflagrata, tagliata, spaccata dall’assenza rimangono lì, a galleggiare in un angolo. Perché nulla è destinato a scomparire per sempre, e un naufragio diventa scacco. "Un pezzo del naufragio" di Irene Gandolfi condensa in poco più di quindici minuti uno studio sulla memoria, sulla carnalità del ricordo e sulla lotta con la morte. Il ricordo è nei cocci di una tazza di latte di soia rotta per uccidere una mosca. Nei sorrisi tirati e negli scatti nervosi di Grazia Capraro – sola in scena a dare carne a un testo ben ritmato – sta la lotta di una donna con un amore che non c’è più, in una sorta di ballata senza stanze che coinvolge in maniera totale nel suo porsi elegante a cigolante pulpito di riflessione sul rapporto tra banalità quotidiana e trascendenza. Rinchiusa in quattro mura inesistenti, accompagnate come una carezza sul viso dallo scheletro di una casa, o meglio di una stanza, la donna si affida al cielo sopra di lei, attorniato da poche luci colorate - attenta ed evocativa la regia di Alessandro Businaro - sciame di lucciole e stelle in un’ombra soffusa. “Quando sei qui con me questa stanza non ha più pareti", "quando sei qui vicino a me questo soffitto viola no, non esiste più”. Dalla scenografia cubica si diffonde il nucleo leopardiano dello spettacolo, che si erge assieme al brano “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli, canticchiato a cappella dall’attrice rannicchiata sul pavimento.

Il ricordo è nello stato d’animo di chi resta, è nella stasi che si oppone alla meccanica del tempo che avanza, scandito dalle bussate del postino ogni mattina. Il ricordo si trasforma in attesa, che è un inganno preferibile all’idea - molto meno dolce - del non veder tornare chi si ama. La memoria, nel ricordo, si frantuma, e l’intero non si ri-conosce più. Quei cocci diventano così anche carne: un neo sul viso, un orecchio, una spalla, ma non una figura. Nebbia che ingabbia, solitudine desolante e pensieri assassini, allusioni – nemmeno tanto velate – al suicidio e alla morte. Una battaglia, quella con thanatos, che andrebbe affrontata in due come fanno gli elefanti, ma si finisce sempre soli in quel cerchio – un cubo, in questo caso – disegnato per provare a ingabbiarla, la morte.
Il ricordo è quella mosca che crediamo di aver ucciso, ma che all'improvviso torna a ronzarci sotto il naso. Non resta che spogliarsi e soffocarla, cadendo nel silenzio. "
E mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni".

Foto: Riccardo Freda

Daniele Sidonio 03/10/2016

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