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Umbria Factory: Il “Doppelganger” nella “Home” di “Sergio”

FOLIGNO – Un tempo si diceva che Foligno fosse al centro del mondo. Non è così ma almeno per un paio di giorni è stata al centro delle arti performative italiane con la rassegna “Umbria Factory Festival” organizzata dai tipi svegli dello Spazio Zut! che hanno dislocato e sparso e spacciato arte tra Spoleto e appunto Foligno per due settimane abbondanti di appuntamenti carichi e densi. Spazio giovane come gli spettatori che hanno popolato i luoghi della città, dall'Auditorium San Domenico al Santa Caterina, lo stesso Zut (ha un ristorante delizioso sopra il teatro di stampo francese dal quale si può mangiare e conversare guardando, senza audio perché insonorizzato, le performance sottostanti), Palazzo Trinci, la Cantina Scacciadiavoli a Montefalco, Palazzo Caldiotti. Una città presa e usata, amata e ribaltata, vissuta e compresa, annusata e trasformata. In questo contesto, fresco e smart, abbiamo scelto tre performance delle quali parlare e discutere. La prima è senz'altro “Home Altrove” di Daniele Albanese. Intanto una prima, anche semplicistica, considerazione: i danzatori ultimamente parlano, molto, e spiegano, troppo, in scena. Chiamala deriva, chiamala evoluzione. Detto ciò, questo lavoro risente fortissimamente della pandemia (è nato nel '19) e del conseguente lockdown, un'indagine che ricorda molto da vicino, con strade e percorsi drammaturgici differenti, daniele_albanese.jpgla piece “Hybris” di Rezza/Mastrella lì con al centro della narrazione una porta. Casa come privazione e punizione, mancanza del fuori, dell'esterno, del poter andare, viaggiare, ma soprattutto, per un artista, del poter lavorare, della possibilità di entrare in teatro e creare. Quindi la casa non come tana e rifugio ma come senso di sottrazione, incubatrice ad interim per relegarci (senza regalare) lontano dalle cose che accadono, che si muovono. Albanese si muove per poi incepparsi come un disco rotto, qualcosa si è indelebilmente frammentato, esploso, corrotto, la piacevolezza del tornare nelle proprie quattro mura domestiche come premio e riposo diventano costrizione e obbligo, impossibilità, catena, bavaglio, silenzio. I suoni allora diventano disturbati, le risate di sottofondo in audio isteriche. Più importante del dentro, della nostra abitazione, diventa la Natura, i rumori del bosco bucolico, gli uccelli che sono tornati, gli alberi, gli agenti atmosferici. La casa ci chiude e ci ingloba, ci chiude fuori e non dentro, ci emargina all'interno delle nostre piccole certezze, non ci fa contaminare credendo di salvarci nella nostra comfort zone, campana di vetro che non ci fa respirare aria nuova, rigenerante. Un balcone, un giardino, una finestra aperta contano molto di più dei metri quadri dentro. Se un corpo non respira osmoticamente il suo intorno si inaridisce, si secca, si abbrutisce e muore. Casa è dove stai bene con te stesso. “La casa è dove si trova il cuore” (Plinio il Vecchio). Per un artista quel luogo si chiama teatro. “La mia casa è piccola ma le sue finestre si aprono su un mondo infinito” (Confucio).

Ancora Abbondanza.jpegdanza e movimento e gesto con la combo Abbondanza/Bertoni e Maurizio Lupinelli e il loro “Doppelganger” (prod. A/B, Nerval, Armunia). Studi psicoanalitici ci dicono che il fenomeno sia collegato al disturbo narcisistico della personalità. Ma non basta, letteralmente significa “doppio” “che passa”, è una copia fantasma di una persona vivente, un'incarnazione dello spirito in un corpo uguale. Il Doppelganger è malizioso, può instillare idee malsane o perseguitare la propria controparte. Secondo Steiner è un'entità malvagia, il contrario dell'angelo custode positivo, questo invece, come un parassita, tende ad offuscare la libera coscienza dell'individuo. E' un gemello maligno, un duplicato spettrale. Dopo tutto questo sintetico bagaglio di nozioni, sulla scena vediamo Filippo Porro, danzatore dal fisico scolpito e statuario, e Francesco Mastrocinque, attore con disabilità: chi è il “buono” e chi il “cattivo”? Chi è l'individuo e chi il sosia perfido? Chi è la persona e chi il parassita? La risposta potrebbe essere filosofica sfociando nel politico e nel sociale. Si muovono come allo specchio, prendendosi in braccio, sulla schiena, ora in posizione fetale, in grembo, sono uniti, fusi in un unico essere in una danza erotica. Uno porta dietro l'altro, come automa, marionetta, zaino, copiandosi la postura, la camminata, il portamento, si confrontano testa contro testa, come Adamo ed Eva si contendono una mela (o come Sophie Marceau e nel “Tempo” dell'omonimo frutto proibito), come Caino e Abele si sfidano fino all'iconica posa della Pietà. Sono Gemelli diversi. Ci ha ricordato il lavoro di Alessandro Sciarroni con Chiara Bersani e Matteo Ramponi “Your Girl”.

E arriviamo alla sorpresa positiva “Sergio” (prod. Kronoteatro, Gli Scarti) che prosegue il lavoro testuale e scenico di Francesca Sarteanesi in questa sua analisi del reale (dopo la buona prova in “Bella Bestia” con Luisa Bosi) delle paure, delle attese, dei tempi sospesi, del non detto, delle incomprensioni, delle dinamiche date per scontate, del non ascoltarsi, del non capirsi. Un rSarteanesi.jpgacconto appassionato da una parte e drammatico dall'altra, vivo, carico di passato e nostalgia, colorato, e contemporaneamente amarissimo, di una solitudine straziante ma enunciato con leggerezza e una soavità che rende ancora di più, se possibile, le parole taglienti, senza soluzione, senza salvezza. Tra i giganteschi tini d'acciaio della cantina (qui è già arrivato l'autunno che gela le mani) e le parole dell'attrice toscana (in dolce attesa) ex Omini, il freddo entra nelle ossa: un freddo dell'anima, il freddo di rapporti sfibranti, inconcludenti, deludenti, dissipatori di felicità, quel freddo che ti abbraccia e ti demolisce dall'interno, giorno dopo giorno, e senza accorgertene sei diventato vecchio senza più energie per ribellarti allo status quo ma soltanto con tanta rabbia repressa e quasi giustificatoria, impaludato in un sistema dal quale è impossibile, o soltanto infinitamente gravoso, uscirne.

Sergio Sergio.jpgè il marito, il compagno, della protagonista sulla scena (Sarteanesi mirabile) in un dialogo dove l'uomo in questione è assente, non c'è, forse è morto e la donna, dopo una vita insieme, parla da sola. Forse ha sempre parlato da sola, logorroica, forse perché lui non c'era anche quando c'era fisicamente. E' la drammaturgia di una lamentela, un resoconto di quello che poteva essere e che invece, per lassismo e menefreghismo, non è stato. Si sono lasciati vivere invece che viverla la vita, l'hanno fatta scorrere sulle loro rughe senza piegarla al proprio volere, senza cercare modi alternativi per essere felici, per essere insieme. Hanno vissuto nella stessa casa ma senza mai convivere profondamente. Hanno diviso le cose e il tempo senza compenetrarsi. Arriva come un mattone sulla testa questo sentore di pesantezza logorante per le cose fatte ma senza voglia né desiderio, perché si dovevano fare, e per quelle che si potevano fare, ed erano ambizioni lecite e facilmente raggiungibili, e che invece sono finite nel paniere dei rimpianti. Una vita con il braccino corto, una vita alla meno, una vita impauriti e stanchi, demotivati, senza entusiasmo né curiosità, una vita affaticata dalle giornate tutte uguali, senza scatti, senza scarti, senza colpi di testa: “Ti passa la voglia di fare le cose”, dice. Lui ce lo immaginiamo con il giornale aperto tra le mani che gli copre il volto scocciato e sbuffante, che ogni tanto la guarda distrattamente, con la tv sempre accesa. Oppure è soltanto una fotografia, dove comunque non sorride, su un mobile in salotto e quello della donna è soltanto il suo solito sfogo quotidiano, quel dialogo che non ha mai avuto quando il compagno era in vita. Forse da quando lui è morto lei può parlare liberamente ed esprimersi senza che la zittisca o interrompa o la faccia sentire inopportuna e inadeguata o poco interessante e intelligente. Se non hai voglia di avere voglia muori prima del tempo. Tutta questa tranquillità e serenità che diventa gabbia (e neanche dorata) li ha trascinati nell'insoddisfazione, nella miseria esistenziale appassiti, smunti, prosciugati. E' una resa dei conti sulle mancanze e sulla non contentezza, piena di recriminazioni sull'essersi abbandonati vicendevolmente al flusso noioso del tempo senza dargli la forma che speravano. Ecco manca la speranza in questo ring di fine vita (sprecata). Perché erano ingenui e impreparati alla vita. Assenti, prima di tutto con se stessi. E perché alla felicità bisogna allenarsi. Quotidianamente. Faticosamente.

Tommaso Chimenti 18/10/2022

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