PADOVA – In questo anno dove ci dobbiamo e dovremmo sorbire Dante Alighieri in tutte le salse e le posizioni, in tutte le versioni e le traslazioni (è giusto festeggiare una morte?), l'operazione del Teatro Stabile del Veneto è tra quelle che abbiamo accolto con più calore per l'originalità, la sperimentazione, l'audacia. Tre grandi giovani drammaturghi nostrani, un regista di indubbia fama e abilità (Fabrizio Arcuri), i neo diplomati dello Stabile per un approccio diverso alla Divina Commedia, declinata al contemporaneo. I tre autori, Fausto Paravidino per l'Inferno, Letizia Russo per il Purgatorio e Fabrizio Sinisi per il Paradiso, hanno anche tenuto dei laboratori di scrittura nel corso dell'anno ad aspiranti drammaturghi. Un grande lavoro composito che ha portato alla realizzazione di queste tre piece autonome e indipendenti ma con il fil rouge ben riconoscibile di passioni, vizi, tormenti, sofferenze, dolori, salvezze tutte umane. In questo “Trittico Dantesco” (fortemente voluto dall'ex direttore Massimo Ongaro) tutto è vicino a noi e terreno, riconoscibile: non ci saranno Caronte né Cerbero, né Paolo e Francesca né Virgilio ma tutto prenderà forma esaltandosi ai nostri giorni. Un particolare è importante sottolineare; nei tre titoli c'è un piccolo dettaglio che qui diventa fondamentale. Infatti l'Inferno è diventato “Un Inferno” e così via per gli altri due step, facendo così luce su quell'articolo indeterminativo che stavolta diventa determinante per raccontare appunto un inferno tra i tanti sulla terra possibili, un purgatorio tra i tanti passaggi di redenzione e perdono, un paradiso tra tutti quelli che si sarebbero potuti affrontare. Altra peculiarità è quella che nel primo Dante è una donna, nel secondo non c'è proprio mentre nel terzo torna ad essere un uomo. Potenza dei tempi.
Partendo dall'inizio del progettone (tutto svolto all'interno del Teatro delle Maddalene, forse non il miglior spazio possibile) avevamo molte aspettative sul testo di Paravidino (del quale abbiamo sempre ammirato la lucidità, l'ironia e la profondità) è risultato invece, purtroppo, il più “povero” e deludente, stereotipato e prevedibile, caotico dei tre proposti. Una donna, che più che Dante potrebbe essere Alice che cade nel buco, non delle Meraviglie ma delle disgrazie, attorniata da monaci usciti da “Il Nome della Rosa” che sono un concentrato di vizi e malvagità tra violenze sessuali, aggressioni, infamità. Ma è proprio la drammaturgia che ci ha lasciato sospesi, sorpresi e leggermente attoniti e basiti; ovviamente siamo all'Inferno (un Inferno terreno, però) e il linguaggio non può che essere volgare, ma il testo fa leva su dettagli da pellicola trash che niente aggiungono e anzi chiudono la visuale invece che allargare il panorama della riflessione. Troppi attori (in totale una dozzina, due musicisti e dieci performer, dei quali nessuno riesce ad emergere e a farsi ricordare: Emma Abdelkerim, Elena Antonello, Riccardo Cardelli, Federica Fresco, Michele Guidi, Imma Quinterno, Tommaso Russi, Andrea Sadocco, Elisa Scatigno, Alberto Vecchiato) in un continuo di situazioni rocambolesche, in uno spazio angusto e chiuso troppo ristretto per una dozzina di corpi che cercano un posto al sole, continuamente a sovrastarsi. Si sente una grande confusione d'intenti e il pezzo sbanda pericolosamente perdendosi tra matti e filastrocche dalle rime popolari, Gesù improvvisati, cani rabbiosi e amanti, il tutto però centrifugato e ansiogeno con la nostra Danta poco credibile e lupi e zombie e scheletri, urla continue di anime moleste e disturbatrici. Rimaniamo, come le figure sul palco, impantanati e intrappolati nelle sabbie mobili disseminate dalle parole che vengono emesse, perché sul piatto della frittata arriveranno in sequenza mixata un sentore di migranti e la pedofilia, la disoccupazione e i militari su un campo di battaglia, famiglie separate e dissolte, il tutto triturato e mantecato assieme ad una critica al consumismo, i manager e la pubblicità. Ne esce fuori un drammone-favoletta, raccontata male, che infatti alla fine era tutto un brutto sogno. Allontana e non riesce ad affascinare né a coinvolgere. Non si è colto proprio il senso né l'odore, non si è percepito l'essenza del progetto. L'Anno Dantesco produce anche mostri (unico dei tre pezzi alla cui chiusura Arcuri non è salito sul palco a prendere gli applausi).
Si torna a respirare con il secondo passaggio dantesco, “Un Purgatorio” a cura di Letizia Russo che ha messo sul palco due attrici, una parlante l'altra silente per la maggior parte, e due piccoli innesti finali che però danno senso al tutto. Praticamente un monologo dentro, attorno, all'interno di questa macchina, una vecchia Alfa che ci ha riportato subito con la mente ad Ostia alla fine tragica di PPP. Abbiamo visto auto in scena in “Lolita” di Ronconi così come nel “Rigoletto” al Circo Massimo dello scorso anno, ne “La vita nuova” di Romeo Castellucci e anche ne “Il serpente” di Malerba trattato dal Teatro Scientifico o grazie allo stesso Arcuri che piazzò in “Fatzer Fragment” una carcassa distrutta caduta dall'alto. Lo spazio raccolto stavolta è giusto e armonico, gli interpreti pochi e concentrati, l'auto risolve molti problemi di movimenti e fa da canalizzatore degli sguardi. Il lampione (il lume della ragione, acceso ma fioco) impiantato nella scena ci ha ricordato invece il “Scena da Romeo e Giulietta” di Federico Tiezzi che costruì una strada con tanto di guardrail e asfalto. Il dialogo è sottile, leggero, onirico; siamo in una terra di mezzo, nebbiosa, coperta di una foschia solida e spessa che ammanta e nasconde, che rende tutto opaco e trasognante. Anche il dialogo scivola nel metafisico tra reale e immaginario con slanci poetici. Una domanda ci siamo fatti: perché microfonare gli attori che tutto diventa ovattato?
Le due ragazze (Emma Abdelkerim, Federica Fresco) sono sospese in questo limbo, in questo passaggio tra la carne e l'oltre ed è delicato il loro incontro-scontro di unione, vicinanza e fratellanza. Ci viene alla memoria Grace Kelly e il suo incidente a Montecarlo. Il testo ci porta dentro una dimensione di case bombardate e soldati che ci porta nei Balcani, quella stessa desolazione, apatia, mancanza di prospettive e di un futuro tangibile. Rastrellamenti, esecuzioni, cecchini. Una parla, l'altra la interroga con i suoi mutismi, il respiro appanna i vetri e la suspense diventa concreta tra la prima che “non vuole liberarla”, lasciarla andare, evaporare, e la seconda che la incalza. “Come se salvarsi fosse una colpa” le intima la prima che ha accettato senza ribellarsi, si è nascosta per sopravvivere, mentre la seconda ha cercato la fine, non ha voluto piegarsi al nemico, all'invasore. Nuovi Partigiani e sentore di “The Others”. Atmosfera da “Una pura coincidenza”. Passano sempre per la stessa strada tortuosa e vedono sempre la stessa immagine, lo stesso scenario, il medesimo atroce panorama come in “The blair witch project”. Tutto sembra ripetersi senza soluzione di continuità, anime che cercano un pertugio per finalmente librarsi. Il finale è uno schiaffo gelido, è amarissimo e gli sciacalli (Elena Antonello, Michele Guidi) che depredano i morti ci riportano con i piedi per terra, nello strazio, nel fango, nell'oblio, nello schifo di una “Still Life” da immortalare.
Se Antonio Latella è il Re del pop teatrale, certamente Arcuri è il Principe e il suo talento, gusto raffinato e ricerca del dettaglio, emerge con forza in questo conclusivo “Un Paradiso” di Fabrizio Sinisi, una scrittura che sembra a compartimenti stagni ma che poi si ricollega, quadri e scene criptici che trovano un senso e un compimento nel suo svolgimento e andamento. Un atto unico molto lungo (2h 30') pieno, denso, poetico, celestiale immerso in un ovvio bianco latteo, una luce abbacinante in un Teatro delle Maddalene finalmente aperto e ampio dove la scena può respirare (al contrario di quanto successo con “Un Inferno” claustrofobico). In questo rettangolo candido scaffali laterali fanno mostra degli ultimi retaggi d'oggettistica, feticci del nostro mondo che fu, messi in archivio, in teche, in bacheca come trofei o rimasugli, come reperti da catalogare, da conservare: vecchi televisori, una colonna antica, un'opera di Banksy, un grammofono, una bomba, un quadro di Pollock, un violino, la testa della Statua della Libertà. L'aria è quella asettica di un ospedale e infatti entrano dottori e barelle, infermiere e respiratori alternate a tute glitterate mentre il nostro narratore-Dante è in total black e incappucciato (costumi di Lauretta Salvagnin). Ancora una volta la musica è dal vivo ma qui è molto amalgamata, è un tutt'uno inscindibile con i movimenti attoriali, non è soltanto puro accompagnamento, le note cambiano il climax, spostano l'attenzione, alimentano, premono, spingono. In questo caravanserraglio dalle sorprese infinite entrano aviatori e giocolieri circensi, cheerleader e militari.
E' una pièce “europea”, potremmo vederla a Berlino o a Bruxelles, ci ha ricordato qualcosa delle messinscene di Jan Lauwers (la pienezza) o di Jan Fabre (la pulizia). Appare anche un suonatore di sega e i suoi riverberi, simili al canto delle balene, ovattano questo mondo rarefatto, questa bolla sospesa eterea ed eterna. Si ha come la sensazione che potrebbe durare all'infinito o interrompersi improvvisamente vista la sua ciclicità. Arcuri ha dato il meglio di sé: pensando al percorso “Un Inferno”, “Un Purgatorio”, “Un Paradiso”, qui è esploso il viaggio supportato da una drammaturgia infarcita di momenti altissimi, di insegnamenti come di parabole, di frasi da appuntarsi. Ecco il primo uomo sulla Luna con bandiera americana, un portantino d'albergo in stile “Grand Budapest Hotel”. I giovani attori molto più coinvolti e partecipi degli altri step (i più espressivi e sicuri: Alberto Vecchiato, Tommaso Russi, Imma Quinterno, Michele Guidi, Elena Antonello). Qui c'erano linfa e spunti, materia da manipolare, fuoco da domare. Emozionante il teatro in miniatura dove all'interno i suoi personaggi da presepe prendono vita così come la sagoma di Carlo Giuliani a terra, stilizzata e corredata da un lampante estintore. Si affaccia il dipinto Quarto Stato, le immagini dell'11 settembre, la Regina Vittoria (la parte più ironica) che prova “orrore” per tutto e per tutti, l'hip hop collettivo (potente e cantabile), una ragazza nuda in stile Janis Joplin. “Un Paradiso” tutto da vivere, da sentire, da sognare, la degna conclusione di questo progetto durato, per Arcuri e i quindici in scena, cinque mesi. Un brivido vigoroso.
Tommaso Chimenti 24/05/2021
Foto di Serena Pea