MODENA – Da una parte Pavarotti, Enzo Ferrari, la Maserati. Dall'altra, una Modena differente, quella della periferia, dei palazzoni, delle tante lingue e dialetti diversi ai giardinetti dei tigli che nevicano. Il Festival “Trasparenze”, diretto dal regista, napoletano ma trapiantato da tanti anni in Emilia, Stefano Tè e della sua compagnia Teatro dei Venti, ha raccolto le istanze di partecipazione di questa fetta di città, portando la performance e il teatro a quella comunità che non aveva mai sfiorato l'arte e la sentiva distante. Una rassegna molto “sociale” con commistioni con detenuti, migranti, bambini, anziani. Sempre più votata al sociale e al territorio e che negli ultimi anni si sta contraddistinguendo per una forte impronta alla prova aperta, agli esiti di laboratori, al cantiere, al work in progress, all'evoluzione, alla mostra di materiali, allo studio, al processo più che alla fase spettacolare vera e propria.
Tutto il festival 2019 ruotava attorno alla, giusta, riproposizione del gigantesco e mastodontico impianto del “Moby Dick”, una nave, quasi un galeone (costo dell'operazione 200.000 euro), che si trasforma, paradosso, antitesi e ossimoro, nella balena di Melville, con sopra, tra cavi e macchinerie, attori, detenuti, richiedenti asilo, musicisti, ragazzi. Nei quattro giorni, dal 2 al 5 maggio, una serie di iniziative e momenti. Forse questo era l'ultimo anno di “Trasparenze” per come lo abbiamo conosciuto, visto e vissuto; già perché il Teatro dei Venti ha avuto la concessione di uno spazio sull'Appennino, a Gombola, una frazione quasi del tutto abbandonata dove, nel tempo, nascerà il futuro della compagnia e della kermesse. Il cambiamento è sempre un segnale positivo, di messa in moto e discussione, di rivoluzione, un rimettere in circolo persone ed energie, di nuovo pensiero. Progetto utile e coraggioso.
Detto questo, per quanto riguarda la fase prettamente spettacolare, abbiamo avuto qualche riserva. Lo spettacolo di Danio Manfredini, “Divine” (tema già affrontato in qualche modo in “Cinema Cielo”) all'interno del carcere di Sant'Anna, necessario per i detenuti reclusi all'interno della struttura, era in definitiva una lettura mentre negli anni scorsi dentro il penitenziario avevamo visto Oscar de Summa, Simone Perinelli, Chiara Guidi o Vincenzo Pirrotta. Una scelta, quella di far riferimento a “Nostra Signora dei Fiori” di Jean Genet (bellissimi i dipinti dello stesso Manfredini che passavano sullo schermo), in qualche modo consolatoria e giustificatrice della condizione carceraria. Da una parte il protagonista Louis, ragazzino che scopre la sua omosessualità e scappa di casa perché non accolto e non capito dai genitori. Sembra quasi che il ragazzo e i suoi amici travestiti stiano in mezzo ad una strada prostituendosi a causa del perbenismo e del moralismo della società civile (quindi noi, cittadini liberi entrati in carcere per la piece, che siamo lì accanto a chi deve scontare una pena detentiva), sembra quasi che la scelta finale di uccidere sia una normale conseguenza della loro situazione spinta e alimentata dal mondo borghese. Noi spettatori siamo, nell'ottica fragile letteraria e teatrale in questione, la madre del ragazzo che non capisce reazionaria e costringe chi non vuole o non riesce a stare dentro le regole alla clandestinità, all'emarginazione, al delitto, alla criminalità.
Due i progetti sociali visti: lo scorso anno a lavorare con gli anziani della Casa Protetta San Giovanni Bosco c'erano state Le Ariette che, insieme ai degenti, avevano creato un tessuto umano vero, commovente, pieno. Attraverso le loro parole dolci e accoglienti avevano prima fatto ricordare a questi pazienti, con evidenti problemi di memoria, la loro infanzia, i loro ricordi di famiglia, fino a fargli preparare con le loro mani ossute e raggrinzite uno dei pochi gesti rimastigli dentro come un tatuaggio, movimenti passati nel loro dna: il fare i tortellini, che poi avevamo mangiato tutti insieme con grande senso di vicinanza, appartenenza, gratitudine, speranza. Stavolta, nel progetto dei TeatrInGestAzione è mancato da una parte il pathos dall'altra la vita vera con i degenti fatti muovere come burattini, adesso alzando una mano (ginnastica?) ora muovendosi faticosamente con le carrozzine attorno ad un tavolo. La musica dei Pink Floyd e le parole registrate di T. S. Eliot non hanno reso il tutto “teatrale” né vagamente performativo non migliorando l'ensemble che è risultato scollegato, utile forse soltanto per i parenti degli anziani accorsi.
Così come per i Quotidiana.com che hanno lavorato, con il loro classico stile sarcastico e irriverente, con il Gruppo l'Albatro, utenti di Salute Mentale, in questo “Sassolini” (godibile e alla fine anche divertente) dove l'impressione è stata quella che la mano del duo riminese fosse molto presente, nell'impostazione, nella scrittura, nelle scelte, e che fosse stato lasciato (forse anche per mancanza di tempo) poco spazio agli effettivi protagonisti sulla scena. Sembra sia uscita più la cifra distintiva dei Quotidiana che la personalità dei partecipanti, più gli autori che gli attori quando, in queste esperienze, dovrebbero poter uscire più chi sta sempre nell'ombra, essendo guidato e direzionato ma anche libero da scritture troppo stringenti che cozzavano con la loro condizione: la sensazione è che fossero molto, troppo, imbeccati.
Ed arriviamo alla performance che ha suscitato più riflessioni, al di là della riuscita o meno dell'happening. Cuffie, mappa e via sperduti nel grande cimitero monumentale di Modena. Il progetto “Un. Habitants” di Caterina Moroni viaggia in equilibrio tra il caldo e il freddo, tra il luogo di dolore e la glacialità di un gruppo sparuto di persone che vagano alla ricerca della “loro” tomba. La frizione è grande tra questo manipolo con cuffie e cartina in mano, stile caccia al tesoro, e gli operai che lavorano alle lapidi o le signore che sono venute a trovare congiunti defunti, a cambiare l'acqua ai fiori o a rimuovere quelli secchi. La sensazione più urgente è quella di essere fuori posto, in fuorigioco, qui per il “teatro” e non per necessità, quasi a usurpare il luogo sacro, addirittura deriderlo quando in audio ci dicono di sdraiarci accanto al “nostro” defunto scelto casualmente per noi, di ballare irrispettosamente al suo fianco. Potente invece, mentre si cammina, ognuno al proprio passo (siamo stati abbastanza abbandonati, questo ha reso la performance molto un atto privato e personale, senza una vera guida forte) passando tra le tombe, ci assalgono tutte le voci dei defunti (Divina Commedia o Spoon River), forse il momento più forte dell'intero impianto. Anzi, forse, gli attimi più centrati e carichi sono state proprio le assenze, le attese, i momenti di stallo tra le indicazioni in audio, i cambiamenti, i passaggi, quegli attimi di completo spaesamento, in un luogo non-luogo, noi lì senza alcun motivo a “giocare” mentre intorno (non) scorreva la vita ma soltanto il tempo immobile, tutti fermi ad aspettare che qualcosa, in tutto quell'immobilismo di lapidi e marmi ed ossa sottoterra, ci muovesse, ci spostasse, ci riportasse alla realtà. Sembra quasi che tutta la costruzione e le sovrastrutture innestate e innescate, il darci un fiore in mano (io avevo un carciofo), la musica (io avevo Elvis), il voler/dover annaffiare i fiori davanti al defunto prescelto (io ero di fronte a Clara Gavioli '21-'09), sia stato l'orpello e che, quando queste sono finalmente decadute, come nella vita, abbiamo saputo meglio cogliere l'afflato, il fiato e il respiro dell'esistenza. Il messaggio è semplice: vivi con grazia, con dolcezza. Poco interattivo e, proprio quando si entra nel vivo (ossimoro nel cimitero), come in un coitus interruptus, il play finisce. Forse un altro parallelismo con l'esistenza: quando pensi di averla compresa, te la tolgono. “La fine del giorno è tutta qua”, dice Don Pietro Savastano.
Tommaso Chimenti 10/05/2019