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Tra azione e celebrazione alla ricerca di Majakovskij: “Un chiodo nel mio stivale” al Teatro Sala Uno

“Io so che un chiodo nel mio stivale è più raccapricciante della fantasia di Goethe!”
Un giovanissimo Vladimir Majakovskij incendiava con queste e molte altre parole nella sua Nuvola in calzoni. “L’odierno Zarathustra dalle labbra urlanti”, nel 1915, si inseriva, poco più che ventenne, nel panorama culturale futurista russo attraverso un’idea del tutto nuova della forma poetica e della funzione stessa che la poesia dovesse assumere. Una funzione non più solamente fatica e celebrativa, bensì una parola presente e violenta che si percepisse nell’io profondo e in quello collettivo come viscerale e rivoluzionaria.
Lo spettacolo “Un chiodo nel mio stivale” trasporta, al Teatro Sala Uno, un odierno Majakovskij nella persona di Daniel Terranegra. Un giovane in frac è Vladimir, il poeta russo della rivoluzione, ma all’occasione è anche Aleksandr Blok, Sergej Esenin e Boris Pasternak: poeti che per opposizione o assimilazione sono collegati al suo nome.
La cornice del Sala Uno, imponente nella sua grazia architettonica, è arricchita da elementi scenici semplici - una candela, un tavolo, una sedia, dei libri - ma efficaci che trasportano perfettamente lo spettatore in quello che potrebbe essere il luogo di studio e composizione del poeta russo. Di corredo le grandi altalene pendenti donano la sensazione di trovarsi nel rifugio protetto di un giovane talentuoso e spensierato.
Intento di Terranegra, autore e unico protagonista dello spettacolo, è mostrare la dirompente forza della parola majakovskiana alla quale difficilmente si sfugge: la sua stessa presenza è talmente travolgente che se ne resta necessariamente contaminati in qualche modo.
Forte di uno studio approfondito, supportato dai testi che Terranegra non disdegna di esibire e sfogliare in scena, la performance alterna alcuni momenti di pensiero personale alla recitazione dei versi del poeta russo: si traccia così un racconto fatto di incontri con altri poeti e inni alla rivoluzione, uniti a un gradito sarcasmo. La tensione tra l’adesione completa alla poetica majakovskiana, che presupporrebbe tutto fuorché sue celebrazioni e apoteosi estemporanee, e la voglia al contrario di farne un oggetto di studio fecondo poiché massimamente significante è messa a nudo quando la presenza in scena è quella di Terranegra in prima persona. Tradendo un certo gusto per il fanatismo, sicuramente non intenzionale, l’attore, a volte, ammicca e strizza l’occhio allo spettatore: quasi a volerlo convincere dell’importanza del cantore della Rivoluzione d’Ottobre. D’altra parte poi, si incendia giustamente quando invece tocca, direttamente con mano e in modo viscerale, i versi del poeta. La bella interpretazione, intensa e vissuta, consegna il peso reale delle parole incendiare di Vladimir che risvegliano un po’ la coscienza addormentata dell’uomo di oggi invitandolo all’azione presente e reale.
Il teatro è, dopotutto, una delle azioni veramente rivoluzionarie (nel senso di nuove e innovatrici) che l’essere umano può compiere; allora perché non seguire l’invito di Majakovskij, anche qualora questo significhi “tradirlo” un po’ con una sua celebrazione? È ciò che fa Daniel Terranegra. Dopotutto nel 1915 l’autore scriveva: “il minimo granello di polvere d’un vivo vale più di quello che farò e che ho fatto!”.

Gertrude Cestiè 08/04/2016

Foto di Silvia Maio

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