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Tovaglia a quadri: il centro della resistenza sta nel teatro popolare di Anghiari

Anghiari è, per natura storica, paese di resistenza e di colore; dal 1440, anno della celebre battaglia, fino ai giorni nostri, si snoda un filo rosso che richiama forza, coerenza e un carattere ben definito. Oggi, come allora, resistere significa difendere un territorio e la propria identità, dagli invasori esterni e dai cambiamenti interni. Anghiari è terra di eccellenze (come tutta la Valtiberina), di artisti (vicino nacquero Michelangelo e Piero della Francesca) e di risorse distintive. Qui la Busatti produce, dal 1842, alcuni dei tessuti artigianali più conosciuti al mondo e la sua tovaglia a quadri è ormai un prodotto esportato in tutto il mondo. Ma non solo: “Tovaglia a quadri” è uno dei fiori all’occhiello di questo paese arroccato e ripido, una delle maggiori manifestazioni di teatro popolare in Italia, giunta nel 2015 alla ventesima edizione (si è conclusa il 19 agosto).
Andrea Merendelli e Paolo Pennacchini – regista e autori - hanno saputo unire la popolarità e i punti di forza autoctoni alla capacità sana di fare cultura dal basso, con curiosità intellettuale, sensibilità e una brillante creatività. È un teatro trasversale, gioioso, capace di trattare tematiche storiche, letterarie ma anche quotidiane e che vede come protagonisti le persone del posto, attori amatoriali con un passato comunque glorioso (sono facce note per chi, ormai, è un habitué dell’evento).
A comporre la scena sono le case e la piazza del Poggiolino, i mattoni e il selciato, i comignoli, le tavole imbandite pronte ad accogliere il pubblico. La drammaturgia cambia – si parla della mancanza di lavoro, di disoccupazione crescente, dello spopolamento dei paesi e della "fuga" all'estero dei giovani – ma lo spettacolo, come sempre, si snoda tra le quattro portate di piatti tipici: crostini neri e rossi, brignoli al sugo finto, spezzatino di chianina con zucchine, biscotti tipici e vin santo del posto. Cibo e teatro in un rito collettivo altruistico, al tempo stesso elitario e popolare.
“Disajob” (questo il titolo del 2015) gioca per contrasti – antico e moderno, grettezza e cultura, lentezza e velocità, manualità e virtualità – ma pone sullo stesso piano passato, presente e futuro con il continente oceanico a fare da filo conduttore. C’è chi, in Australia, ha lasciato un segno permanente e si è fermato, c’è chi è partito e ha fatto ritorno, come Zio Job (Fabrizio Mariotti), chi invece ha pronta la valigia e i sogni della partenza, come la cameriera Elisa. Le storie degli anghiaresi s’intrecciano e gli emigranti di oggi non sembrerebbero così diversi da quelli dell’inizio del ‘900. Il discrimen sta nella finzione, nell’odore delle possibilità fasulle usate come esche e nella bulimia d’informazioni, connessioni e stimoli dell’era 2.0: il venditore di speranze dell’Agenzia delle uscite, mr Dingo (Andrea Valbonetti, affabulatore e pifferaio magico), incarna, in questo senso, tutto il peggio della modernità (è lui a fare da spartiacque).
La messa in scena ha sfumature fresche, colorate, con gag, passaggi poetici – lo spazzacamino Fuliggine/Rossano Ghignoni, tenta di liberare i condotti delle case dalle voci malevole che, passando per stufe e camini, hanno intasato tutto – e anche sarcastiche – come la versione inglese di “Maremma Amara” cantata da Cecilia Bartolomei per il pubblico del web australiano. Gli attori sono abilissimi a tenere alto il ritmo, anche attraverso canti e balli che divertono i commensali, ma la riflessione a cui ci spingono arriva a ben altre profondità. La disoccupazione strappa le radici, l’immigrazione allontana gli uomini, li rende simili ma distanti, isolati, vulnerabili.
Tutto è finzione e tutto è verità. Gli interpreti hanno i loro veri nomi, raccontano storie vere, condividono una parte del loro vissuto, con sentimenti immediati e sorrisi onesti. Chi si siede a tavola ha la sensazione di essere realmente all’osteria di Cecilia, di conoscere Mario, il maestro in pensione e ottimo fisarmonicista, di avere una mamma apprensiva come Maris o una vicina pettegola come Marta. Ma la bellezza di “Tovaglia a quadri” sta proprio in questo: avvicinare le persone, invitarle a fermarsi, a contribuire alla resistenza e a comprenderne il significato. Resistere, qui, significa infatti restare, sentirsi liberi di accogliere e di aprirsi alle contaminazioni.

Foto: Giovanni Santi

Giulia Focardi 24/08/2015

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