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Timeless. La poliedricità del tempo assente

Charles Baudelaire una volta affermò: “C'è solo un modo di dimenticare il tempo: impiegarlo”. Cos’è però il tempo? E come si può viverlo sul palco, dimenticandosene? È da questa spinta indagatrice che la Compagnia Muta Imago ha dato vita a “Timeless”, in scena dal 24 al 27 maggio al Teatro India di Roma per la regia di Claudia Sorace e con Valeria Belardelli, Luisa Casasanta, Edoardo Coen, Michela De Rossi, Alessandro Minati, Silvia Quondam, attori della Scuola di Teatro e Perfezionamento Professionale del Teatro di Roma.
Timeless” non ha alle spalle un testo lineare; è aleatorio, sfuggente, proprio come il tempo che racconta e che tenta di rendere reale. È un collage di frammenti, conversazioni e azioni quotidiane che si ripetono negli anni, tutte insieme, tutte adesso. Il 1945 si ritrova così congiunto al 2020; l’allunaggio va a braccetto con realtà domestiche, ambientate «non prima, né dopo», come annota la compagnia. «La performance scorre continua e ininterrotta, un movimento costante costruito sull’alternanza dei corpi, delle voci e delle azioni dei performer, che senza soluzione di continuità dovranno danzare, giocare, parlare, urlare, lottare, far apparire dinosauri, interpretare fumetti pre-cristiani, ascoltare il suono di due torri che cadono, amare, cadere, avere cura l’uno dell’altro».
L’unità sinodologica aristotelica di forma e materia si distrugge, si dissolve nel tempo deflagrandosi in momenti casuali e in dialoghi generati da associazioni d’idee o movimenti compiuti solo in apparenza in maniera spontanea. Dietro la coreografia degli attori, il loro urlare o cantare a squarciagola “Bohemian Rapsody” dei Queen si nasconde, infatti, sempre un significato ben preciso: un input mentale, un collegamento emotivo che racchiude e ripropone le grandi ed essenziali tematiche dell’amore, della solitudine e della gioia.
foto timelessLa musica durante lo spettacolo non è un accompagnamento sonoro. Come statuette meccanicamente legate a un carillon, gli attori si muovono sulla scena quasi danzando, imbevendosi così di una musica dal sapore orientaleggiante. Sono incerti i confini della melodia che attraversa il proscenio per tutta la durata dello spettacolo. Non vi è un unico genere; se nella prima e nell’ultima parte sono presenti senz’altro suoni e ritmiche che ricordano l’armonia ciclica del tempo indiana, la parte centrale della rappresentazione è caratterizzata anche da brani pop e dance, come “These Days” di Nico o “Deceptacon” di Le Tigre. La drammaturgia interna del soggetto si lega profondamente alle tracce scelte, al punto che è indistinguibile cosa, se la recitazione o la musica, sia veramente il motore scenico e quale tra le parti segue o è seguita dall’altra. Le urla di paura, le grida di spavento o le imprecazioni, quasi inintelligibili, si inseriscono all’interno di questi due elementi fornendo l’unico sicuro spartiacque tra un momento e l’altro della rappresentazione. Urla, grida e imprecazioni tagliano come lame affilate la narrazione modificando drammaturgicamente lo spazio che le circonda e le luci che lo illuminano.
In uno spazio vuoto, immutabile, ciò che cambia è dunque il tempo e con esso la sua percezione. «Appendere un quadro, cercare un mazzo di chiavi, fare l’amore per la prima volta sul divano, raccontare la propria giornata al telefono, spegnere le candeline di compleanno» sono azioni che ci appartengono e ci uniscono, restituite sulla scena con leggerezza e semplicità. Una sequela di avvenimenti senza soluzione di continuità; brevi frammenti di vite private, vacanze, compleanni, morti, cadute, persone, animali, alberi di natale, dinosauri, geologia. Una sfilata di cinquanta minuti in cui il tempo si assottiglia, si spezza, implode su se stesso fino a non esistere più. Secondo i fisici il tempo non esiste, è solo frutto dell’immaginazione dell’uomo; un contenitore in cui quantificare e raccogliere azioni ed eventi che si compiono ora contemporaneamente, ora sparsi negli anni. Interessante a tal proposito la scelta di non puntare su un solo centro narrativo, ma su una multi-focalità performativa, attraverso la quale la compagnia si suddivide in piccoli gruppetti narranti tempi e azioni che durano giusto il tempo della loro compiutezza.
Per quanto “Timeless” abbia tentato di prendere il concetto di tempo e farlo suo, giostrandolo in un big bang ricco di stimoli, questo, come direbbe Virgilio «fugge intanto, fugge irreparabilmente». E così è stato per lo spettatore. Dinnanzi a uno spettacolo onirico, emotivamente intenso e coinvolgente, vi è stata una reale fusione tra il tempo scenico e quello della platea, uniti così nella negazione stessa dell’attimo.

Matteo Petri, Elisa Torsiello 25/05/2018

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