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"La città invisibile" siamo noi, nell'incontro con l'altro torniamo alla luce

SANSEPOLCRO – “Dio creò il primo giardino e Caino la prima città” (Abraham Cowley).
“Prima noi diamo forma agli edifici, poi sono questi a dare forma a noi” (Sir Winston Churchill).

Metti cinque sconosciuti in una casa abbandonata. Non è il classico inizio di un film horror anche se l'impronta d'incipit ne ha tutte le caratteristiche. Si chiama “The Invisible City” (interessante kilo4che l'acronimo sia TIC, che rimanda ad un immaginario psichico se non psichiatrico) e l'impianto è proprio un set fuori dalla città (in questo caso la Sansepolcro che accoglie ed ospita da quindici edizioni il Festival Kilowatt, diretto da Luca Ricci), le mura alte, le voci, il brusio ovattato. Un caseggiato lasciato al mangiare e all'erosione del tempo che ha portato foglie secche e vetri rotti, calcinacci ed erbacce, porte cigolanti e sbarre arrugginite. Il suo ideatore, l'attore-performer Daniele Bartolini, fiorentino di nascita e da alcuni anni trasferitosi in Canada (lo scorso anno è stato ospitato in festival in India, Berlino e seguiremo la replica di questa piece interattiva all'interno della rassegna “Summerworks” a Toronto ad agosto) è un ragazzo sveglio, agile di mente, brillante attuatore di meccanismi psicologici, di discipline interiori applicate alla scena, nel miscelare gli ingredienti archetipici e ancestrali che muovono gli esseri umani: da una parte la paura, dall'altra la curiosità, da una parte l'istinto di conservazione, dall'altro quell'innata voglia di lanciare il cuore oltre l'ostacolo in quel sottile solco di desiderio ed adrenalina dell'ignoto, del non conosciuto.
kilo1Italo Calvino ci fa capolino già nel titolo ma uscirà fuori, a piccoli passi, nel corso di quest'ora intensa, al buio, negli anfratti, in una ricerca che pare una caccia al tesoro esterna e che invece si mostrerà in tutta la sua natura più intima e personale, interiore ed estremamente toccante. Il play è spiazzante: ci sono le pile che hanno i giocatori in campo e che illuminano il limitato raggio d'azione di chiaroscuri, l'oscurità che avvolge il tutto, un luogo (importante scegliere una casa adatta) fuori dal comune, i rumori della notte che amplificano la grancassa del battito cardiaco, che fanno sobbalzare i pensieri, che zoomano i ricordi, che tambureggiano le angosce. Si sviluppa tutto un gioco di rimandi e rimbalzi tra quello che succede fuori di noi, o almeno quello che crediamo che stia accadendo, la nostra proiezione della realtà, e ciò che accade nelle nostre viscere, nelle nostre vene, nel nostro cervello. Endorfine e dopamina vanno alla carica, rilasciano e sgasano nel tubo di scappamento della consapevolezza, della coscienza.
Buio e silenzio fanno la gran parte del lavoro: togliendo spazio alla vista, alla quale ci affidiamo anche troppo nella vita di tutti i giorni, sikilo3 amplificano tutti gli altri sensi, l'ascolto diviene fondamentale, l'olfatto, il sesto senso ti avvisa di calore e presenze. Materializzare le paure serve a sconfiggerle, è il primo passo per la loro messa al bando. Con la luce di Diogene in dotazione, soli nell'universo, istruiti da voci-epifanie che ci appaiono nella pece della notte più fonda (ho assistito alla replica di mezzanotte), il pathos si sciorina e scivola in quella sensazione di meditazione e solitudine, di pace interiore e di un respiro che finalmente ritorna ai suoi ritmi naturali, lontano e scevro da tutte le sovrastrutture sociali che ci si appiccicano addosso durante la crescita in questa società ipertecnologica che sente sempre meno l'essere umano. A misura d'uomo, sembra di ritornare a quello che vivevano (pur nell'ovattatura del “teatro”) gli uomini primitivi: il buio, la Natura, l'incontro-scontro con lo sconosciuto, con l'altro rispetto a te.
kilo2E la mossa di Bartolini (allievo di Fulvio Cauteruccio) è proprio quella concentrica, quella che dal punto di isolamento dell'individuo, che da solo viaggia e vana nell'universo errante leopardiano, ci sia un avvicinamento e una nuova vicinanza all'altro. Che le macerie non sono fuori ma dentro di noi e la rivoluzione non è assemblarle in un qualche quadro estetizzante di una bellezza patinata e nemmeno rimuoverle ma farci i conti, contemplarle come possibilità e non come rifiuti, spazzatura, rubbish, sconfitte e disfatte della/nella nostra piccola esistenza. In questi ingranaggi di percorso, tra le domande (desideri, ricordi, bisogni) che mettere in comunità e in relazione scattano dinamiche tra i cinque partecipanti; simpatie, empatie, voglia di aiutarsi e collaborare, ascoltarsi, comprendersi. Che poi, tutte queste cose insieme, fanno capo nel grande paniere dell'amore.
E allora cosa ci dice Bartolini in definitiva? Che ogni vita vale la pena di essere vissuta, ma anche trasmessa e passata e raccontata, che bisogna sempre aver curiosità di una casa abbandonata come di una persona, che l'altro, il diverso ci può sempre aiutare a conoscerci meglio, ad indagare zone oscure nei nostri meandri, che l'oralità, il guardarsi, il toccarsi le mani saranno sempre esercizi migliori rispetto al chattare, alla virtualità, all'etere, al web. La miglior rete è quella fatta di relazioni umane, sentimenti umani, respiri, imperfezioni, sorrisi, lacrime. Le città invisibili sono dentro di noi, anzi, siamo noi le strade, le vie, i rioni, i quartieri, i borghi di questa megalopoli in espansione che si chiama mondo.

“Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone” (Italo Calvino).
“Una città non è disegnata, semplicemente si fa da sola. Basta ascoltarla, perché la città è il riflesso di tante storie” (Renzo Piano).

Tommaso Chimenti 19/07/2017

Foto: Riccardo Antonelli