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“Natale in casa Cupiello”: il folle volo di Latella, in bilico tra libertà ed eccesso

Una gigantesca stella cometa troneggia sullo sfondo della scena, sovrasta undici personaggi in abito scuro col volto bendato e quasi li avvolge minacciosa. È l’inizio del “Natale in casa Cupiello” firmato Antonio Latella, ma è anche l’epifania di una fine: quella del dramma di Eduardo per come lo conoscevamo.
Due anni dopo il fortunato e discusso debutto, sempre al Teatro Argentina, torna la rilettura estrema, quasi metafisica e poco propensa all’incensamento liturgico e reverenziale. Lo spettatore se ne renderà conto da subito: quello di Latella non è un rifacimento, ma piuttosto una decostruzione che approda a nuove, imprevedibili rotte. L’operazione è ambiziosa e quanto mai rischiosa. E il pericolo è che, per molti spettatori, la stella cometa finisca per trasformarsi in un altrettanto gigantesco punto interrogativo.00cupiello
Il “Natale in casa Cupiello” di Eduardo era un’opera per tutti: divulgata in televisione, appiattita un po’ ovunque dalle innumerevoli banalizzazioni e divenuta quasi nazional-popolare. La versione di Latella no: è radicalmente altro.
E allora via l’oggettistica della tradizione, via gli ambienti domestici, via perfino o’ presepe: rimangono solo gli attori, qualche ingombrante animale di pezza e il copione. Perché il testo eduardiano Latella lo rispetta in pieno: fin nelle virgole e nei punti, recitati dall’intero cast con tanto di accentazioni da utilizzare per la pronuncia delle battute. Il testo integrale viene bulimicamente riversato in scena e più fedele è la sua declamazione, maggiore è, nei fatti, la sua disintegrazione.
Una decostruzione che passa attraverso una cesura anche visivamente e musicalmente evidente nei tre atti: immobile e statico il primo, scandito dal sottofondo di un pianoforte appena accennato che ripete perennemente le stesse note, detta i tempi del dramma in un crescendo di angoscia e di tragedia imminente. Roboante il secondo, quello della detonazione, in cui la famiglia Cupiello e il presepe si frantumano a suon di rock tra lanci di animali di pezza da una parte all’altra della scena come fossero portate da tavola, liti furibonde e duelli d’amore. Visionario il terzo, il più impressionante dal punto di vista visivo: tetro come le nere vesti delle donne conciate a lutto che accerchiano bisbiglianti Luca Cupiello denudato al centro della scena e sovrastato dall’inquietante vociare in lirica del dottore. Visivamente geniale, ma altrettanto oscuro e prolisso.
L’opera di decostruzione di Latella vira anche sugli attori e sulla caratterizzazione dei personaggi: il Luca Cupiello interpretato da Francesco Manetti, ad esempio, è quasi rabbioso e incattivito nelle sue ossessioni. In una parola eccessivo. Scordatevi il tenero, solitario e quasi sognatore Lucarie’ incarnato da Eduardo: Latella lo trasforma in 01cupielloun vecchio nevrotico che grida anziché parlare.
Concetta, magistralmente interpretata da Monica Piseddu, è all’opposto trasformata in una donna scavata dalla fatica, dalla rassegnazione. E’ inerte, ha lo sguardo perso nel vuoto. In Eduardo la ricordavamo energicamente pragmatica e pugnace, quasi bisbetica. Col volto chino trascinerà per tutto il secondo atto un carro funebre su cui, di tanto in tanto, salirà anche Luca Cupiello, come a presagire la sua morte imminente. Lei, così minuta, si sobbarcherà il peso immane del fallimento della famiglia, immortalata in un’immagine di brechtiana memoria. Entrambi i personaggi risultano comunque trasfigurati e spogliati della loro essenza originaria. Un trattamento che coinvolgerà meno il Tommasino di Latella, (Lino Musella), in fondo la figura più fedele al testo di Eduardo e a cui infatti “o’ presepe” non piacerà fino alla fine. Eppure, proprio lui sarà motore dell’unico, sconvolgimento rispetto al tradizionale intreccio eduardiano: il clamoroso parricidio con cui si chiude la messa in scena. I cultori e i puristi del genio di Eduardo grideranno al sacrilegio, altri storceranno il naso di fronte a tanto ardire. Altri ancora potrebbero invece risultarne affascinati: in fondo, basta essere disposti a lasciarsi cullare dallo straniamento e dal dubbio.
A prescindere dai gusti soggettivi, la messa in scena latelliana merita comunque una visione attenta perché fa ciò che l’opera d’arte dovrebbe: smuove gli animi, emoziona, turba. E, soprattutto, divide danzando pericolosamente lungo il confine tra lecito e illecito, libertà artistica ed eccesso, innovazione ed ermetismo fine a se stesso.

Simone Carella 23/12/2016

Foto: Brunella Giolivo

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