MONTICCHIELLO – “La Terra non è un'eredità ricevuta dai nostri Padri, ma un prestito da restituire ai nostri figli” (Proverbio dei Nativi d'America).
Uno dei punti cardini del Teatro Povero di Monticchiello è sicuramente la memoria, il passato. Che ritorna. E non possiamo, parlando del presente, di questa 55esima edizione (dal 1967) del teatro in piazza ideato, progettato e messo in scena da una comunità, non pensare allo scomparso Andrea Cresti, regista e drammaturgo che per decenni ha tenuto le fila del progetto e del processo creativo di questa piccola società autonoma che grazie al teatro non solo non è morta ma si è rafforzata, consolidata e conosciuta (Monticchiello è Patrimonio Mondiale Unesco) in Italia e in tutto il mondo. E un altro doveroso omaggio va certamente a Paolo Coccheri, anche se il suo nome non può essere legato all'esperienza di Monticchiello, anche lui deceduto proprio in queste settimane, ideatore lucido e visionario del “Festival di Montalcino”, al quale il regista Manfredi Rutelli era particolarmente legato. La Toscana ha perso due grandi intellettuali teatrali.
Memoria, passato, futuro, si intrecciano inevitabilmente. Già la locandina di “Inneschi”, il titolo di quest'anno, contiene una bomba con miccia, all'interno della quale appare il nostro mondo in nero. Ma se apriamo ancora più lo sguardo, quella mina e quella Terra non sono altro che un occhio di un volto (forse artificiale) triste o perlomeno perplesso. Se nel passato (con Cresti) i testi vertevano più su temi di economia planetaria complicata, la coppia Gianpiero Giglioni e Manfredi Rutelli, preferisce da qualche anno parole più semplici, non saggi o trattati messi in bocca a paesani (che stonavano e non erano credibili) ma argomenti sempre complessi ma declinati ad una maggiore semplicità, flessibilità, comprensione. Stavolta è il cambiamento climatico, con le sue conseguenze disastrose, tra cui il Covid-19, e lo scontro generazionale tra chi ha cementificato a favore del capitalismo a discapito dell'ambiente, i nati nel Dopo Guerra nel boom industriale, e i ragazzi di oggi che si trovano a fare i conti con un mondo inquinato, distrutto, sempre meno verde, meno vivibile, con aria, acqua e sottosuolo tossici, messo in pericolo e che tende all'autodistruzione.
Dopo il tentativo, riuscito, dello scorso anno di fare del Teatro Povero di Monticchiello un viaggio itinerante tra gli angoli nascosti del borgo della Val d'Orcia, quest'anno si torna in Piazza della Commenda, proprio per intimo volere della comunità, quella “piazza” che per loro è il “teatro”, due termini che qui sono sinonimi. Tra gli spettatori anche due attenti gatti, uno bianco e l'altro rosso che hanno assistito anche a tutte le prove. I componenti di questo paese sono fragili per anagrafe ma non sono stati toccati da nessuna defezione a causa della pandemia. Attori non-attori per una drammaturgia e una messinscena collettiva forte proprio della condivisione, compatta e unita dal portare sul palco, come missione e way of life, le loro domande, i loro dubbi, i loro punti interrogativi sul presente.
Altra caratteristica del Teatro monticchiellese è il suo andare sul doppio binario del passato e dell'oggi come a dirci che il presente è solo una riproposizione ciclica di quello che è stato, pandemia inclusa, e che avendo superato le difficoltà di allora possiamo, senza abbatterci (come ha fatto questa piccola frazione di Pienza decenni fa quando rischiava di scomparire causa lo spopolamento e l'invecchiamento della sua popolazione), farcela anche oggi. L'importante è non camminare da soli, non sentirsi un'isola, cercare approdo e vicinanza negli altri. Si palleggia la Storia tra gli aerei che bombardarono questa zona nel 1944 e i cambiamenti climatici, tragedie esterne che mutano irrimediabilmente la vita degli uomini. Quella vita che ci porta a confrontarci con temi dei quali non conoscevamo l'esistenza e ci costringe a cercare soluzioni per continuare a sperare, a sopravvivere al nostro tempo. Dobbiamo invertire la rotta che ci sta portando all'autodistruzione. Intanto un cane abbaia in audio rabbioso in fondo alla valle, è quella minaccia della quale se ne sente l'eco e il riverbero ma che risulta invisibile (come il virus) e quindi difficilmente contrastabile. L'innesco di “Inneschi” (dal 31 luglio al 15 agosto) è questa bomba-vaso di Pandora ritrovata sul territorio, un qualcosa che covava nella pancia della terra, che macerava e macinava, un veleno che adesso, una volta scoperchiato, può esplodere, letteralmente e metaforicamente.
Anche nella finzione scenica monticchiellese, ogni attività viene chiusa ma, a differenza dei nostri mesi passati, quasi un ossimoro, qui le persone sono chiamate a stare fuori (e non chiuse in casa come nel lockdown) perché proprio dall'interno, da noi stessi, dalle nostre scelte sciagurate, che siano la guerra come l'inquinamento e il deforestamento, il pericolo può deflagrare da un momento all'altro. Anche se il boom ancora non c'è stato, la miccia è già accesa e aspettiamo soltanto il crack definitivo per prendere degli accorgimenti validi. Dobbiamo sempre trovarci davanti all'emergenza e al dramma e mai prevenire le sciagure. Ci è venuta alla mente la serie tv scandinava “Katla” dove la cenere di un vulcano ha coperto una cittadina islandese risvegliando antichi esseri dal ghiaccio. La bomba è qualcosa che torna a galla, che avevamo nascosto sotto il tappeto pensando che, non vedendola, come fa lo struzzo infilando la testa sotto la sabbia, non ci fosse. E invece le scorie nucleari o i rifiuti tossici torneranno in superficie prima o poi, e il terreno abbattuto o dato alle fiamme per farne appartamenti e resort non potrà più essere recuperato: sul cemento (a differenza del letame) non può più nascere un fiore. Molto interessante la metafora (punto nodale, focale e di senso di tutto il testo) sull'artificiere tanto atteso che prima è un apicoltore (è noto che la vita dell'uomo sul nostro pianeta è strettamente correlata a quella delle api) tutto bardato nel classico scafandro bianco, e che successivamente invece prende la forma di medici anti-Covid. Un triplo rimando.
Ma non solo, in “Inneschi” si mette in scena proprio l'assemblea che è l'humus vitale sul quale e dal quale nascono questi testi che sprizzano dalle diverse anime del borgo, oppure il fenomeno degli “hikikomori”, i ragazzi che, impauriti e delusi dal futuro senza speranza, si chiudono in casa e non vogliono più uscirne. C'è anche un attacco-denuncia agli stranieri che qui vengono a fare business, prendere, svuotare storia e tradizioni, o alle industrie di armi, macchine per uccidere e non per salvare. In tutto questo galleggiano senza ciambella di salvataggio né boe alle quali aggrapparsi i ragazzi, spaesati e disillusi, che cercano la loro strada nel mondo tra precariato, fughe all'estero a cercare miglior fortuna (la storia si ripete), mancanza di prospettive, economie misere per formare una famiglia. Intanto, in lontananza, quel cane continua imperterrito a ruggire, ad abbaiare, a latrare, ad ululare come un Cerbero: è un avvertimento del quale abbiamo soltanto timore ma che non abbiamo saputo cogliere come monito.
Tommaso Chimenti 08/08/2021