Seguire un’opera lirica dallo schermo del proprio computer, con le cuffie sulle orecchie, non è certo la stessa cosa che godere dell’acuto di un soprano o dell’impatto di un’esecuzione orchestrale seduti in poltrona, a teatro. Si perde, oltre a questo, anche la magia di lasciarsi trasportare nei luoghi ricostruiti dalla scenografia con abili suggestioni. Manca, quindi, l’immersione fisica e mentale nell’esperienza nel suo complesso. Una perdita che si fa più dolorosa se l’opera in questione è una delle più visionarie e innovative della produzione di un artista, affidata alle mani di una regista la cui cifra stilistica è giocare sempre, con dolce crudeltà, sulla commistione tra il reale e il fantasmatico. Stiamo parlando di “L’angelo di fuoco” di Sergej Prokof’ev, nell’allestimento con la regia di Emma Dante andato in scena al teatro Costanzi di Roma dal 23 maggio al primo giugno 2019, cinquantatre anni dopo la sua unica apparizione romana in quella stessa sala.
Lo spettacolo è di nuovo disponibile sul sito del teatro dell’Opera di Roma, nell’ambito dell’iniziativa Teatro Digitale, che comprende le Lezioni di Opera a cura del maestro e musicologo Giovanni Betti (conduttore di Lezioni di Musica su RaiRadio3) – una guida nel mondo dell’opera, dove si spiegano in modo comprensibile i temi e i linguaggi di quest’arte. Opera dalla lunga gestazione che il suo autore non vide mai eseguita per intero (il debutto avvenne al teatro La Fenice di Venezia nel 1955 con la regia di Giorgio Strehler due anni dopo la morte del compositore russo), Prokof’ev la scrisse negli anni Venti, periodo in cui si interessò ai temi mistici, ispirandosi all’omonimo romanzo a puntate del poeta e scrittore simbolista russo Valery Bryusov. La storia d’un triangolo amoroso, pervasa da un’atmosfera morbosa e incantata in sintonia con i cupi stati d’animo del compositore in quegli anni, lo portò a creare un’opera innovativa costruita però sugli stilemi della tradizione del secolo precedente. Scelta rivoluzionaria, col ricorso a inserti sinfonici, alla musica russa e ai temi conduttori (leitmotiv) che evocano il carattere dei personaggi, per dare vita a un’opera anti-lirica (tra i vari temi ce n’è solo uno, quello dell’angelo, che può essere cantato mentre gli altri hanno un carattere strumentale) e contraddistinta da un’ambiguità di fondo e dall’impossibilità di comprendere appieno la psicologia dei protagonisti.
Non poteva esserci personaggio più fantasmatico della protagonista femminile de “L’angelo di fuoco”, Renata, interpretata in quest’edizione dal soprano Ewa Vesin, a fare da ponte spirituale tra il mondo reale e quello dell’immaginazione dando spazio e voce ai moti interiori in tutta la loro cangiante e incomprensibile potenza. La donna sostiene di aver ricevuto la visita di un angelo luminoso di nome Madiel – qui impersonificato dal breakdancer Alis Bianca – quando aveva otto anni e di essersene innamorata, dapprima con l’innocenza e la fiducia di una bambina, tanto da cominciare a condurre, su suggerimento e col supporto dell’angelo, una vita fatta di sofferenza morale e fisica per diventare santa. Con l’arrivo dell’adolescenza, la giovane ha iniziato a provare nei suoi confronti un’attrazione meno spirituale e più corporea. Sconvolto e adirato, l’angelo a quel punto scompare in una gran fiammata lasciandola in preda di un desiderio sessuale che l’accompagnerà sempre. Non si tratta di un insaziabile appetito ma dell’ingresso nel mondo degli adulti. Nella Germania del Seicento – anche se la regista siciliana trasporta i fatti due secoli dopo – tra roghi di libri e pratiche magiche, la condizione della donna è tale da non consentirle di vivere il desiderio sessuale, le sue pulsioni, in modo naturale e non segno del demonio e della corruzione della carne. Lei andrà in cerca di Madiel, del suo angelo puro e irraggiungibile che lei sola può vedere, in altri uomini e questo la porterà a incontrare Ruprecht, cavaliere appena tornato dall’America che mosso sia da cortesia cavalleresca sia dal suo fascino l’accompagnerà, fino alla condanna a morte da parte dell’inquisizione dopo aver scelto di farsi monaca ed essere entrata in convento.
Renata è un personaggio denso, tortuoso ma determinato, mobile – non volubile, nel senso verdiano – come lo sono i pensieri e le emozioni che mutano di continuo. In costante e scarso equilibrio tra realtà e allucinazione, tormentata da apparizioni di diavoletti. Una tensione per quel sentire che è costretta a reprimere, riassunta nel suo tema dal sapore thriller basato sul tritono, un dissonante intervallo tra le note conosciuto anche come il diabolus in musica. E l’angelo cosa rappresenta? Sarebbe facile ridurlo a una figura demoniaca che inganna con la sua lucentezza. Madiel è l’elaborazione inconscia del desiderio di Renata, che lei non riesce a raggiungere perché la fantasia femminile è giudicato oscena e immorale, frutto della tentazione diabolica che allontana dall’elevazione divina. Così rimane puro e irraggiungibile, trascendente come è arioso e luminoso il solenne tema musicale dell’angelo. E Ruprecht, interprato dal baritono Leigh Melrose? Personaggio più coerente ma non statico, è il contraltare ‘secolare’ della donna di cui non comprende i moti interiori e di cui è in qualche modo vittima, ma le resta accanto con sincera umanità. In un’opera colma di soprannaturale non potevano mancare elementi comici e grotteschi, in linea con la fosca ironia di Prokof’ev, che Emma Dante coglie ed esalta. Tanto infatti dramma è alleggerito da lampi di luce buffonesca e satirica, come i personaggi di Mefistofele e Faust, due omoni calvi e corpulenti che calzano l’uno stivaletti con gli strass e l’altro stivali di cuoio rosso col tacco a spillo. Ancora, in uno dei siparietti recitati durante i cambi di scena tra un atto e l’altro – ulteriore elemento di novità – due infermi appoggiati a una stampella si ostruiscono la strada a vicenda così, per decidere chi deve passare per primo, dapprima uno cerca goffamente di far cadere l’altro e poi duellano mulinando le grucce come fossero spade, in un comico rovesciamento del duello del terzo atto tra Ruprecht e Heinrich, un vecchio amante di Renata. La regista palermitana non stravolge l’opera né si lancia in particolari sperimentazioni, ma la arricchisce grazie alla sua poetica e a scelte non convenzionali, tra cui una folta compagnia di attori-performer che di atto in atto indossano i panni degli ospiti della locanda, degli spiriti che tormentano la donna, delle monache invasate del monastero.
L’affinità tra Renata e il teatro di Emma Dante era troppo forte perché le due non finissero per incontrarsi: una donna in cerca di un angelo del desiderio, sospesa tra la realtà e la fantasia, e la regista dal repertorio ricco di personaggi femminili che oscillano tra il mondo dei vivi e quello dei morti. La compresenza di reale e irreale, materia e spirito, Aldiqua e Aldilà fa scattare un cortocircuito della nostra volontà, rende possibile qualcosa al di fuori del nostro controllo dove tutto si confonde, si rovescia, svela e inganna. Un incontro nel soprannaturale, che porta la vicenda a svolgersi sotto il livello del suolo, dalle strade di Colonia alle catacombe dei cappuccini di Palermo, sotto la chiesa di Santa Maria della Pace, per ricordarci come il confine tra terreno e ultraterreno sia sottile o forse non esista affatto. Nell’ultimo atto lo scheletro di un donna messo in croce è un raccapricciante presagio della fine della protagonista. La decisione scenografica sepolcrale viene anche incontro a quel gusto un po’ macabro dell’opera, decorato inoltre da Dante con il taglio cimiteriale dei teschi e delle ossa con cui la compagnia di attori gioca mentre un’indovina predice il futuro di Renata. Di radicale novità la decisione di fare Madiel un angelo rovesciato che, invece di librarsi in volo sbattendo le ali, ‘cammina’ sul cielo a testa in giù. Ma c’è una scena in cui di angeli ne appaiono addirittura due, uno luminoso e uno scuro, a dare corpo (invisibile) all’immaginazione di Renata. L’unione che la donna tanto agogna e l’angelo rifugge, probabilmente si compie nella morte. Condannata al rogo con l’accusa di aver portato il maligno all’interno del monastero, dove le sorelle possedute si scatenano in un climax orgiastico in cui si uniscono con l’angelo, Renata andrà in conto alla sua fine – in tripudio quasi carnevalesco di sicilianità – agghindata da Madonna dei sette dolori di Palermo, con un lungo velo nero dalla testa ai piedi, sul capo una corona a raggiera e sul petto un enorme cuore d’oro dove sono infilzati sei pugnali. Madiel se li avvicina e le porge l’ultimo, con cui lei assesta il colpo fatale. Entrambi si accasciano, senza vita. E’ nell’Aldilà, nella dimensione dove le regole della razionalità e le certezze della materia non valgono più, che il desiderio diventa realtà.
Lorenzo Cipolla