O tempora o mores. Il “copyright” di Marco Tullio Cicerone campeggiava ieri sera, al teatro India, nella sala strapiena per assistere a una trasposizione scenica delle fasi più cruciali della storia dell'oratore romano, quelle che lo condussero alla morte nella sua villa di Formia, per mano di due sicari. Cambiano i tempi, cambiano i costumi e così probabilmente se oggi Cicerone fosse stato tra noi avrebbe fatto precedere i suoi celebri aforismi da un hastag, risultando il più rituittato dal web. Sembra un azzardo e invece non sono stati pochi i commenti, durante la messa in scena di “Cicerone, o il regno della parola” da un testo di Anna Foa e Vittorio Pavoncello (che ne cura anche la regia), a sottolineare l'estrema attualità della storia di questo gigante della storia romana, che tutto ha basato sull'uso della parola. La sua carriera in tribunale, le traduzioni in latino della filosofia greca, l'arte oratoria dei suoi interventi in Senato: non è oggi ancora la comunicazione il tratto distintivo dei governi attuali? “Le armi cedano il posto alla toga” diceva Marco Tullio anticipando di oltre due millenni ciò che oggi è reso ancora più potente dall'effetto moltiplicatore dei mezzi di comunicazione di massa.
Ma parlare con lungimiranza vuol dire spesso porsi al di fuori dai “mores” del tempo. Così dalla fuga da Silla, all'esilio indotto dalle leggi proposte da Clodio, fino alla congiura di Catilina, ripercorreremo per un'ora e mezza una vita che sembrano dieci vite, tutte improntate sull'affermazione della supremazia dell'oratoria sui conflitti. Dai vecchi nemici, ai quasi amici, dal rapporto controverso con Cesare, al tradimento di Ottaviano, passando per l'odio di Antonio: “L'amicizia comincia dove termina l'interesse”, ci ricorda Cicerone, non sapendo più di chi potersi fidare. Le parole fanno paura, oggi come allora. Le parole sono più pericolose della spada.
Ecco perché l'ex moglie Terenzia e il fratello Quinto gli chiedono di non proferire in Senato le sue orazioni incendiarie, che mettono in pericolo la sua famiglia, ragionando neanche a dirlo “pro domo sua”. Ma sono ormai le Idi di marzo e Bruto ha pronunciato il nome Cicerone col pugnale ancora sporco del sangue di suo padre. Per dire che sarà la prossima vittima dopo Cesare o perché ristabilisca un ordine politico e sociale? Cicerone non sa rispondere e sceglie di arroccarsi nella vita speculativa, lontano dalla politica, insegnando con scarso successo all'effeminato Teocrito la massiccia virilità della sua arte oratoria. Già, ma “quosque tandem”? Due sicari, Erennio e Popilio, restano in scena per tutta la pièce, scandendo col suono di una lira il momento giusto per tendergli un agguato.
“Mala tempora currunt” per il senatore che fu console e anche soldato, non è più tempo in cui “se vuoi la pace, prepara la guerra”, ma piuttosto quello di affrontare i fantasmi del passato (rappresentati da orridi corvi gracchianti) prima di consegnarsi alla morte.
Che poi, è davvero morte quella che vediamo consumarsi sul palco? No di certo, perché a sopravvivergli sono le sue parole: “O tempora, o mores”, la regola che per tutta la vita tenterà di rispettare, auto-esiliandosi quando era il caso e cedendo a più miti consigli quando la situazione a Roma sembrava migliorata, dovendo infine soccombere alla spietatezza dei nuovi equilibri politici e quindi alla veridicità del suo stesso aforisma.
Ottima l'interpretazione degli attori in scena, sicari compresi. Menzione speciale per i protagonisti Cicerone (Giuseppe Alagna), Terenzia (Arianna Ninchi) e Teocrito (Nicola Deleonardis), figura che ha contribuito non poco ad alleggerire la narrazione di questo spaccato di storia antica (o profondamente attuale?). Per un filosofo, un pensatore, un maestro della parola, di fronte ai colpi bassi della politica, qual è il ruolo oggi? Quello di ritirarsi – come molta della compagine intellettuale italiana ha scelto di fare – quello di rimettersi alle volontà del Cesare o di combattere in prima persona, affrontando le sedi opportune della politica, con discorsi che elevino il popolo? Dovrebbe essere la terza opzione la più giusta e per fortuna come dice Cicerone “finché c'è vita c'è speranza”.
(Rosamaria Aquino)