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Teatro e immigrazione: cronache dalla realtà

È il 2015, siamo nel mese di settembre e Nilufer Demir, una fotoreporter, scatta la foto di un bambino che giace a terra senza vita sulla spiaggia di Bodrum in Turchia. Aylan Kurdi, con i suoi pantaloncini blu e la sua maglietta rossa, senza volerlo diventa in un istante il simbolo di un fenomeno, quello migratorio, che da anni domina le cronache e la politica nazionale e internazionale.
Per raccontare la perdita di umanità del nostro secolo, anche Marco Baliani e Lella Costa, hanno scelto per uno dei numerosi quadri che compongono “Human” di menzionare la drammatica foto, diventata un triste caso mediatico. Lo scatto, nonostante il clamore iniziale, non ha prodotto nessuna spinta propulsiva di tolleranza e apertura verso i migranti. C’è da chiedersi allora se il teatro, che da sempre racconta il mondo e le sue contraddizioni, sia invece in grado di riattivare l’originario significato etimologico della parola “umano”, ovvero compassionevole verso le sventure dei propri simili.
Da anni in Italia il tema della migrazione occupa un posto di rilievo nella drammaturgia degli spettacoli teatrali. In particolare sembra che la chiave di lettura preferita per il racconto di ciò che vivono i profughi debba essere sempre necessariamente mediata dagli stessi protagonisti per risultare credibile. Lo spettacolo, diventa così, la maggior parte delle volte, solo l’ultimo tassello di un percorso di sensibilizzazione della massa e di inserimento dei nuovi arrivati. Le compagnie aprono le loro porte a dei laboratori interamente dedicati ai ragazzi che scappano dalla guerra. Una scelta questa che forse evita di cadere nella retorica o nella banalità, sempre in agguato quando si parla di “immigrazione”. Lavorare a stretto contatto con i migranti, infatti, permette senza dubbio ai registi di osservare concretamente e farsi testimoni dell’oggetto che vogliono narrare.imm1
La “Trilogia del deserto” (iniziata nel 2015 e in procinto di chiudersi questa estate) di Riccardo Vannuccini parte proprio dal laboratorio che il regista ha fatto con i rifugiati del Centro Accoglienza Richiedenti Asilo di Castelnuovo di Porto. Tre spettacoli “Sabbia”, “Respiro” e “Africa bar” realizzati per indagare il fenomeno migratorio partendo dal suo inizio, ovvero la fuga chiusi in un container, passando al respiro, affannato mentre si corre, e in apnea, quando si cade in mare, fino ad arrivare alla vita nei centri CARA. Non c’è pedagogia negli spettacoli di Vannuccini, ma solo l’intento di mostrare agli occhi dello spettatore in che direzione si sta dirigendo il mondo.
Il teatro potrebbe, in maniera ideologica, sostituirsi dunque al telegiornale. La rappresentazione scenica mette in scena l’invisibile, o meglio gli invisibili. Nonostante siamo circondati dai migranti e bombardati mediaticamente sui loro incessanti arrivi, finiamo per essere consapevolmente indifferenti o volutamente aggressivi. Eppure l’essere umano è geneticamente portato alla migrazione, lo dimostra la storia antica, ma anche quella recente. Gli stessi europei, che ora si sentono soffocare dalla numerosa presenza dei migranti, hanno incarnato questo denigrato ruolo sociale. Al teatro spetta quindi anche l’ingrato compito di rinfrescare la memoria a un pubblico annoiato e distratto. Per farlo ovviamente non c’è un modo giusto e uno sbagliato, ma solo scelte diverse per far immergere lo spettatore nella visione del reale. Il compositore Guido Cataldo e il performer Simone imm2Sibillano scelgono il potere travolgente della musica per portare sul palco il movimento migratorio del Novecento e le storie dei tanti, che scelsero di trasferirsi nel nuovo continente in cerca di “fortuna”. Con il musical “America” vanno in scena la povertà, la paura, la disperazione, ma anche il desiderio di ricominciare e la speranza, svincolati dalla storia e mutati in situazioni universali. “Scusate se non siamo morti in mare” (testo di Emanuele Aldrovandi), dell’associazione Centro Teatrale MaMiMò, invece, trasforma gli europei in migranti, cercando di innescare, attraverso la mimesi, una reazione più profonda nello spettatore. Come se l’unico modo possibile per impressionare la società odierna sia privarla di tutti i suoi privilegi e vestirla con i miseri panni dei profughi.
Due rappresentazioni di uno stesso fenomeno diverse ma accomunate da un elemento, l’acqua. Fonte di vita, ma anche di morte, il mare con le sue correnti e la sua natura mutevole da sempre è simbolo del viaggio. Lo sa bene Emanuela Giordano che per parlare di fughe, speranze e paura del diverso sceglie di partire dal primo di tutti i migranti, Enea. In particolare la regista di “Il viaggio di Enea” usa il racconto che ne fa Olivier Kemeid, modernizzando il celebre poema epico di Virgilio per portare sul palco la necessità di sopravvivere di un uomo meno pio e più spaventato del famoso eroe.
Tanti sono gli spettacoli teatrali che compagnie e registi italiani hanno creato sul tema dell’immigrazione in questi ultimi tempi. Un’abbondanza creativa in linea senza dubbio con la sempre maggiore diffusione del fenomeno, che però lascia aperto un quesito: perché l’atteggiamento dominante della società contemporanea continua ad essere impostato sull’odio raziale, la rabbia e l’intolleranza? La recitazione ha perso il suo antico potere catartico? O sono gli uomini del XXI secolo ad aver perso del tutto la loro umanità? Difficile rispondere. Forse la narrazione teatrale non sortisce effetto sulle vecchie generazioni, ma può essere funzionale per sensibilizzare i giovani? Una cosa è certa. Il teatro nasce sempre da un’esigenza del racconto, dunque fino a quando una parte della società lotterà per superare i pregiudizi e per aiutare i migranti, gli spettacoli su questo argomento continueranno ad esserci. Perché l’umanità non è andata distrutta, ma solo persa in questo eterno e irrazionale flusso di uomini.

Eleonora D’Ippolito 14/05/2017

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