Scriveva Lewis Carroll nel conosciutissimo ma sempre da scoprire “Alice nel paese delle meraviglie” che “i ricordi non stanno mai fermi”. Un po’ come dire, cioè, che il passato è imprevedibile tanto quanto il presente e inafferrabile e inconoscibile non meno del futuro. Se, insomma, è alquanto evidente l’illusione di poter sapere ciò che è stato prima di noi, altrettanto illusoria e ingannevole è la presunzione di dirsi a conoscenza di ciò che siamo stati prima, noi. Continuamente, e spesso involontariamente, costruiamo ricordi, reinterpretando il nostro passato: la memoria è un testimone talmente affidabile che quando mente non ce ne accorgiamo. Più che ricordare, allora, l’uomo interpreta e (ri)costruisce.
E lo sa bene quel genio dell’essenzialità che è Harold Pinter, il cui valore di drammaturgo non smette di essere riconosciuto e omaggiato. “Vecchi tempi” è la pièce che, con la regìa di Michael Rodgers, va in scena nel prezioso Teatro dei Conciatori fino al 14 maggio. La storia è, come sempre, semplice, schematica anzi scheletrica: Deeley (Marco S. Bellocchio) e Kate (Christine Reinhold), felicemente sposati da vent’anni, si ritrovano, nella propria casa di campagna, a fare i conti con Anna (Lisa Vampa), vecchia amica di lei, inaspettatamente venuta a farle visita. Tra dialoghi che sembrano monologhi e monologhi che sembrano dialoghi, attraverso impacciate incursioni in un passato remoto e rimosso, i due coniugi dovranno fronteggiare le proprie paure e pulsioni, arrivando a una consapevolezza di sé (comunque precaria) che forse sarebbe stato meglio non raggiungere.
La scena che ci troviamo di fronte è perfetta nella sua semplicità: due divanetti, una poltrona, un tondo tavolino per bicchieri e bottiglia e bricchetto del tè – tutto precisamente British. A fondo palco campeggiano tristemente invece i caratteri cubitali di “Harold Pinter, Vecchi tempi”, caso mai lo spettatore dimenticasse via via cosa sta vedendo. E certo che il rischio esiste, perché in effetti l’interpretazione dei tre sembra in più d’un’occasione sbagliare la mira: si punta al teatro di Pinter, ma si colpisce quello di un qualunque altro drammaturgo che scriva battute perché siano dette su un palco. Lo spettacolo che viene fuori, cioè, è qualcosa che ha poco a che fare con la quotidianità allucinata, la carica simbolica addirittura del niente, l’esorbitante chiasso che fa il silenzio tipici della scrittura pinteriana. È una messa in scena, questa, che scegliendo l’approccio più tradizionale al testo teatrale (l’apprendimento e l’esecuzione di battute che van dette in un determinato modo, comunicando una determinata sensazione) sembra dimenticare lo specifico stilistico e poetico dell’opera in questione.
Il teatro di Pinter è tutto giocato sull’allusione, sull’evocazione, nella sua scrittura pesano più le parole non dette che quelle pronunciate, il vuoto più che il pieno, ed è nel silenzio, dall’inglese scavato come fosse minatore o rabdomante, che sta l’essenza. E quel silenzio, quel vuoto, perché significhino in chi guardi e ascolti, non dovrebbero esser mai riempiti – nemmeno dalla bravura di un interprete.
E però, e perciò, in fondo Pinter non è diverso dal passato: pretendiamo di conoscerlo, di averlo vissuto, e ce lo stiamo invece sempre inventando.
Sacha Piersanti 07/05/2017