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Al teatro Argot Studio è Tempesta: perché l'esistenza è un gioco onirico tra vendetta e compassione

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Vendetta, giustizia, compassione e infine l'immenso potere della conoscenza che muove il mondo, sposta le coscienze, le fa vivere, esistere, scomparire, forse ne determina il sapore intrinseco, forse semplicemente circoscrive il colore di ogni singola parola pronunciata, scritta, pesata sulla bilancia, anche solo pensata. È questo, andando oltre gli antefatti, i preamboli e il contesto storico, la vera grande forza immensa di Shakespeare, e forse è questo l'immenso dono e testamento che ha lasciato su questa terra. Panici decide consciamente di mettere in scena Tempesta, dal 5 al 15 Aprile al Teatro Argot Studio (Roma), eliminando e snellendone la forma per adattarla ai tempi moderni veloci, concretizzanti, alienati.
Arriva ogni singolo dettaglio riversato sul pubblico come fosse un'onda anomala che accarezza i volti e subito dopo ne determina stupore, angoscia, riso, pianto. Come fosse un mosaico, si auto determina ogni microcosmo dei personaggi che, nel loro piccolo, hanno un immenso ruolo catartico: il mago Prospero, vecchio duca di Milano, che dirige da buon burattinaio la baracca tramite i libri, il logos, la conoscenza, Ariel, lo spiritello, se vogliamo il corrispettivo lato oscuro di Puck di Sogno d'una Notte di Mezza Estate, Antonio l'imbroglione, Ferdinando, ingenuo e per bene, Alonso l'innamorato re di Napoli, il “servo mostro” Trinculo, emblema dell'ingegno mal applicato, Stefano, ubriacone incosciente e divertito, l'ingenua Miranda.Tutta l'opera si sposta su di una linea sottile che oscilla tra vendetta e compassione, si interroga sull'entità dell'uomo, teso per natura a voler giustizia o a farla da sé. Eppure, quando la giustizia sconfina in vendetta crea esclusivamente lacerazioni negli altri e spesso in chi ha inflitto la medesima. Ed è il che Prospero, l'uomo del sapere, decide di sacrificare il suo stesso dono, il suo stesso tesoro inestimabile, per lasciar spazio a sentimenti ben più nobili come la misericordia, il perdono, la compassione appunto. 

Panici crea abilmente una ballata che si barcamena, proprio come fosse in tempesta, tra la metrica serrata del testo, e il rock irriverente dei Pink Floyd, connubio perfettamente in linea con l'innovazione e la genialità del padre dell'opera.
Tra costumi rifiniti, colorati o specularmente cupi e una scenografia sospesa tra il paradiso e l'inferno, il gioco onirico prende piede con grande tenacia, ubriacando chi osserva, cullando dolcemente sul finale e dando voce al bellissimo dono che abbiamo e che dovremmo imparare ad usare nel migliore dei modi possibili: la parola.

Giorgia Groccia
06/4/2018

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