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MODENA – Partiamo da una curiosità abbastanza lampante: la fiaba è donna, è femmina, è mamma, è nonna, è accogliente. Questo è quello che ho percepito nei miei tre anni, felici, di passaggio al “Festival della Fiaba” di Nicoletta Giberti: donne organizzatrici, donne conferenziere, donne ad accompagnare, donne spettatrici, donne attrici, donne lettrici. Forse non è un caso; e non perché la donna sia sognatrice o trasognante o abbia la testa tra le nuvole ma anzi perché, a differenza dell'uomo più concreto (che a volte travalica nel materiale), la donna ha in sé, ha in serbo quel nascondiglio, quell'antro miracoloso, quello spazio generatore di nuovo, di altro, di diverso. Se niente si crea e niente si distrugge ma tutto si trasforma la donna è l'emblema (al contempo naturale e voluptassovrannaturale) di riuscire a trasformare l'infinitesimale e farlo diventare una persona: più miracoloso di così. La fiaba (alla quinta edizione) non è il buonismo snocciolato, non è la melassa, non è la dolcezza. La fiaba è metafora, trasposizione che chiarisce ancora meglio, se la si ascolta fino in fondo, a quale punto del nostro personalissimo percorso siamo, dove siamo arrivati, chiarifica lampante, rilascia certezze, certamente mette in discussione con la sua aura di infantile e magico, di aleatorio e fumoso, di immateriale e nuvoloso, talmente difficile da afferrare da entrarti sottopelle.

voluptas2L'edizione 2018 si è spostata da Villa Sorra, alle porte di Modena, nel centro della città dell'aceto balsamico e Pavarotti. Poteva essere un azzardo passare dal bosco incantato di lucciole e passi scricchiolanti, di foglie secche e parole sussurrate nel buio ancestrale, dove solo le stelle potevano rischiarare, al muoversi all'interno di un palazzo. Qui la Giberti, vera anima del tutto, e il suo staff composto da donne e ragazze ugualmente agguerrite e sorridenti, ha saputo ricreare un immaginario soffice, una parentesi nel flusso del Tempo, uno scrigno fatto di candele e lumini, di fiammelle e fiaccole, con quell'aria retrò da respirare a pieni polmoni. Il perno di questa edizione è la piece (sempre sold out, come da tradizione pone lo spettatore e gli attori in un rapporto di uno ad uno) “Voluptas”, concept principe e traino focale di tutta la rassegna sul quale si incastonato e si animano, a spirale come un dna colorato e mistico, altri racconti notturni, mostre, conferenze, passaggi, consegne.

C'è una religiosità nell'aria difficile da spiegare, c'è un campanellino, nel suo tintinnare rituale da silenzio, da campanella scolastica, da qualcosa che sta per accadere nell'immediato, nell'imminente da Pifferaio magico, c'è il cammino condiviso di cinque sconosciuti alla volta, che si immergono (ma ognuno per conto proprio), inoltrandosi in questo palazzo, la porticina in legno che s'apre cigolando e mostrando un mondo nascosto, buio, dove solo le poche fiammelle a terra, come piccole mongolfiere capovolte, rischiarano le alte mura e le volte. Un nuovo mondo ci aspetta: qui non esiste il tempo del fuori, i rumori sono rarefatti, ovattati, come essere immersi in un liquido amniotico che insieme protegge ma anche cerca giù a picco, in profondità, butta l'amo dentro la nostra coscienza e psiche, ricordi e nostalgie, passato e voglia di futuro. Tutti abbiamo qualche peso sull'anima, qualcosa da farci perdonare, groppi da sciogliere, massi da frantumare, nuovi percorsi da riconoscere, paura da addomesticare.

Può uno spettacolo teatrale fare tutto questo? No, certo, gli daremo troppe responsabilità, ma, se si entra con cuore puro, con i canali della percezione aperti e pronti a cogliere ed accogliere, qualcosa, piccolo, lento, fragile, comincia a macerare e lavorare, a muovere e spostare, diventa domanda insistente da non dover calpestare, da non insabbiare sotto l'ennesimo tappeto. “Lungo il sentiero non si torna mai indietro, come nella vita” c'è scritto nel foglio di preparazione, dopo il silenzio è padrone e, finalmente, liberati dai rumori della città, delle chiacchiere inutili, della musica superficiale, dei cellulari assordanti e ronzanti, accompagnati per mano da ancelle, ci introducono in questo piccolo grande viaggio dentro noi stessi. Il format è quello di una mini Via Crucis (quest'anno collegata al mondo degli scacchi), un cammino che porta alla conoscenza, alla consapevolezza, al riconoscimento, al disvelamento di meccanismi di difesa, all'elaborazione, per esorcizzarle, di timori e incertezze. Non uno spettacolo ma un'esperienza che tutti dovrebbero poter fare una volta nella vita. Piccoli gesti gentili ci accompagnano.voluptas3

La domanda di quest'anno è chi o cosa ci guida nelle nostre scelte? Il karma, il daimon, il destino o un'intima nostra personale volontà. Quella volontà che dalla sua etimologia è stata traslata nel mondo occidentale-capitalistico-cristiano in qualcosa di faticoso e difficile, di sudore e sofferenza, mentre la voluptas è legata a doppio filo al piacere del fare la cosa stessa, al desiderio di realizzarla, alla voglia di avvicinarsi, di prenderla, di goderne. Non sforzo ma godimento. Siamo in un anfratto, della città, del tempo, di noi stessi; leggerezza, sospensione ci sostengono, ci supportano, ci spingono nei budelli, nei corridoi e soprattutto lungo il perimetro di un grande chiostro dove al centro emerge, maestoso e protettivo, un leccio di centoventi anni che fa da casa e cupola, da cappuccio e da cappello, da ombrello e tetto, proprio al centro di questo giardino nascosto e privato. Il leccio, non un albero a caso: con questo legno ci facevano le croci, questo albero attira i fulmini.

voluptas4Da uno step all'altro, questi attori ti mettono gli occhi negli occhi, ti parlano piano, ti ascoltano, ti indagano dentro con la dolcezza di un tocco, con il flebile passaggio di dita sulle nocche, con un palmo di mano che scivola e guida, ti mettono a contatto con il tuo più profondo io. Ascolti ascoltandoti, ti racconti, ti apri come è difficile fare nel veloce mondo che tutto trafigge e trancia là fuori: c'è chi ti fa scegliere un pezzo di legno, che poi si rivelerà un pezzo di scacchi stilizzato, chi tra ungenti e pozioni, alambicchi arabeggianti e fluidi alchemici, miscele di stregonerie e mortai dove pesta liquidi e polveri, ti lascia un segno simbolico su un braccio, chi batte il tempo incessantemente e ti fa sentire, palpabile, che siamo destinati alla fine e che il tempo non aspetta tempo, che il tempo passa e non ritorna, chi disegna dentro il contorno dell'ombra della tua testa, chi ti fa specchiare nell'acqua in un secchio, chi ti fa giocare a scacchi dove vincere o perdere, come nella vita.

Le centinaia di fiaccole sembrano anime in questo girone (paradisiaco per riveder le stelle) attorno al grande albero della vita, sembrano un pratovoluptas6 di lucciole in questo mondo separato dal resto, in questa dimensione pacificata dove la musica di pianoforte lieve dai piccoli tocchi si mischia al batter e levare in lontananza del tempo che fugge, ai ticchettii della pioggia battente e dondolante. I sensi sono ampliati, si sente il battito del cuore, il peso della suola che fa pressione sulla terra, si annusano le parole che ti piombano addosso e che parlano proprio a te, di te, e che dentro cominciano a far rumore. Da una parte ti accarezzano dall'altra ti mettono di fronte alle tue paure, passate e future, ai tuoi bui pensieri, e non ti danno soluzioni ma illuminano soltanto le possibili vie da poter intraprendere: le scelte sono comunque sempre personali. Dalla postazione finale, come partoriti nuovamente, come sbucati da questo pertugio in penombra, nuovamente risputati dall'abisso, mangiando ciliege, si scrutano i nuovi spettatori, i loro passi incerti, le loro titubanze incespicando nel loro destino, affannandosi con il loro passato, vagano assorti e inquieti alla ricerca di sé, dell'incontro con le proprie radici. Solide, ma non statiche, come quelle del grande leccio protettivo che ci abbraccia placido. Tra altri centoventi anni lui ci sarà, sarà lì a difendere e riparare altri come noi, entrati scettici e usciti fiduciosi.

Tommaso Chimenti 11/06/2018

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