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TORINO – Torino è una città che cambia di anno in anno. Un'anima sempre in costante mutamento che la pioggia di questa edizione non è riuscita ad ingrigire né smorzare. Torino è viva, è verdissima, è colorata. E questa undicesima edizione del Torino Fringe Festival ha confermato proprio questa straordinaria empatia e simbiosi tra città e rassegna con freschezza, gioventù, attenzione, aperture, accessibilità, nuove visioni. Tanti gli spazi toccati dalla manifestazione diretta da Cecilia Bozzolini, dall'Unione Culturale Franco Antonicelli al Magazzino sul Po, dal Museo Storico Reale Mutua allo Spazio Ferramenta, dal Bunker a San Pietro in Vincoli, dallo Spazio Kairos al Cubo Teatro Off Topic, da Casa Fools al Vinile, dal Teatro Astra al Beeozanam, un giro di Torino per conoscerla meglio attraverso luoghi nascosti e tutti da scoprire in un itinerario diverso tra i vari quartieri. Organizzazione perfetta, pochissimi ritardi sull'inizio degli spettacoli, sorrisi in quantità, due spettacoli a sera Betun.pngin ogni spazio per due settimane di repliche (dal 12 al 28 maggio).

Nel Fringe puoi trovare un po' di tutto, dal monologo al teatro di strada, dalla stand up comedy al dramma. Ad esempio la compagnia Teatro Strappato, italo-venezuelana con il loro “Betun” (prod. Teatro Strappato) ci ha mostrato come la piazza sia diversa da un palcoscenico. Anche se qui lo spettacolo ha festeggiato le centocinquanta repliche ha mostrato tutte le sue lacune lasciando fredda la platea nelle timide interazioni degli attori verso il pubblico. Una pièce senza parole, cupa e fosca, che non è riuscita a comunicare il senso di straniamento e violenza dei bambini di strada sudamericani con scene e quadri che hanno sottolineato un difetto di molti gruppi indipendenti: la mancanza di un occhio esterno, quel “primo spettatore” fondamentale per capire che cosa si sta passando a chi non conosce la materia che si sta raccontando; da dentro molte cose e passaggi vengono dati per scontati. “Betun” soffre di grandi vuoti drammaturgici e le tanto glorificate maschere non riescono a sopperire a queste mancanze lasciandoci interdetti, delusi e naufraghi. Se non avessimo letto il foglio di sala o se l'attore a fine replica non ci avesse spiegato a che cosa facevano riferimento le loro evoluzioni sul palco non avremmo capito a che cosa si stavano riferendo. Non è un dettaglio da poco. Forse la loro dimensione migliore è quella di uno spazio all'aperto e non chiusi tra le mura di un teatro dove occorrono altre esperienze.

Si può sempre prenderla con filosofia, così ci spiega Davide Grillo nel suo “Come se niente fosse” monologo su disastri e disillusioni. Timido quanto basta Davide Grillo.jpgper far scattare vicinanza e solidarietà alle sue gesta sfortunate. Strimpella la chitarra, suonicchia il trombone. Peccato per quel leggio che stoppa il flusso delle immagini e mette un freno al pathos, imbriglia la risata, rallenta i cuori. Il suo è un racconto profondo in tono leggero sul nostro mondo ormai invaso da scetticismo, insignificanze, disorientamento, incertezze, vuoto, panico, straniamento dove al suo interno fanno capolino i rapporti sentimentali ovviamente andati al macero, i fascisti (perché ci stanno sempre bene), il poliamore, l'inadeguatezza, i sensi di colpa, l'ansia di vivere. In qualche passaggio, per qualche verso sottopelle e sentore sconosciuto ci ha ricordato, come senso di abbandono e disfatta, la pellicola “Siccità” di Virzì. Tre momenti esilaranti: la fidanzata che parla del loro rapporto come farebbe un calciatore in un'intervista nel dopo partita, lo spot dello spray “Adito” (super), il coro dei cattolici in stile ultrà in trasferta: “Che ce frega del futuro noi c'abbiamo l'Aldilà”. E poi tante belle verità da appuntarsi e conservarsi e tatuarsi (perché la scrittura c'è eccome): “C'è il male di vivere e il vivere male” o “Di fronte all'indifferenza bisogna fare la differenza” e infine “Se non trovi il punto di riferimento forse il punto di riferimento sei tu”. Mai banale, generazionale ma neanche troppo. Grillo ci deve credere un po' di più, spingere ulteriormente, essere più convinto. I mezzi ci sono.

Presenza scenica che ne ha da vendere Rossella Pugliese che, con il suo “Ultimo Strip” (prod. Deneb), ci parla di famiglia ma anche di Rossella Pugliese.jpgpatologie psichiatriche in una Calabria (suo habitat linguistico naturale) che fa da sfondo e avvolge, stritolando, i protagonisti della vicenda. Narrazione per la verità alquanto contorta, con nomi e date ed eventi che si incastrano e sovrappongono, contorcendo i fatti a tratti non risultando lineare e scorrevole. Il percorso di una madre e una figlia, che sembrano accavallarsi e ricalcare un modello e un esempio anche se osceno e negativo, troppo frammentato e, in alcuni passaggi chiave, di difficile comprensione. Comunque il play è onirico e sensuale, la Pugliese, che gira come la bambola da carillon, governa la scena e la doma tra l'abito da sposa e questo piedistallo che si fa cassapanca dei ricordi, come cilindro del mago, il palo della lap dance, le catene, il body a rete e le altalene da Luna Park. Miscelate con sesso e autodistruzione, con sottomissione e rapporti sentimentali corrotti e tossici, caustici e corrosivi, tradimenti e una grande insoddisfazione di vivere di una ragazza maltrattata diventata adulta troppo presto. Le doti attoriali della Pugliese non si discutono ma chiarire alcuni momenti testuali e sottolineare meglio, forse asciugando e snellendo, alcuni nodi focali per una comprensione migliore del fatto che si sta raccontando. Ed è un peccato se il pubblico non riesce pienamente ad entrare nella storia nelle pieghe e nelle sfumature.

Paolo Paolo Faroni.jpgFaroni ci sorprende ancora una volta con il suo nuovo “Perle ai porci” (prod. Bluscint) con la sua verve aggressivo-passiva e quella “cattiveria” dialettica profonda e ispida, mai stucchevole, bilanciata tra una sana risata e una riflessione sorridendo a denti stretti. Ha questa fisicità debordante, incute timore la sua voce profonda ma il suo sciorinare tra i meccanismi del teatro e quelli della vita affascina la platea che lo acclama come suo mentore e guru. Pare un pugile arrabbiato, lancia i suoi jab ficcanti, ci porta a spasso con una scrittura che funziona toccando temi alti, fascismo e sinistra, gli alieni (che hanno la voce di Sandro Ciotti), politica e mafia, Capaci, Cucchi, la Val di Susa con battute al vetriolo, non urticanti ma ustionanti. Montagne russe tra il comico e il drammatico, applausi festanti, traboccanti e scoppiettanti. Inutile sottolineare che le Perle sono le sue e i Porci noi.

A volte nella vita è questione di accenti. Ad esempio vénti e vènti, pésca e pèsca. Oppure, ed è il nostro caso, Péne o Pène. Organo sessuale maschile o sofferenze. E gioca proprio sulla doppia accezione questo “Pene” (prod. Fools) con Stefano Sartore (lussureggiante e sfolgorante) che brillantemente punge il tema dell'identità, picchiando forte il maschio. L'aria si fa subito frizzante nel suo nudo esposto. La tesi di fondo è che nel mondo c'è troppa violenza e disagio e guerre ed è tutta colpa del maschio e del suo testosterone. Lo dice testualmente: “Vogliamo dimostrare quanto sia nocivo il cazzo” e poi suggella: “Ci sono anche cazzi che hanno fatto buone cose” citando il passato. Non che le sue teorie (testo scritto insieme a Luigi Orfeo e Roberta Calia) non possano avere fondamenti di verità ma spesso si tracima nelle espressioni, “L'unica possibilità è evirare tutti gli uomini alla nascita”, o nel mostrare una tipologia di uomo che rafforza la tesi proposta: l'uomo violento finiti alla sbarra, il padre possessivo e geloso patologico con bambina in braccio, il generale guerrafondaio, l'omosessuale anziano che racconta le sue peripezie e Lorenzo Bartoli Entusismo zero.jpggeometrie euclidee per incastrarsi meglio. Quando la cabina dei cambi d'abito si gira troviamo la scatola-confezione di Ken a grandezza naturale. E il cerchio si chiude. Forse il compagno di Barbie soffre dell'“invidia del pene” freudiana? Quasi un “Brevi interviste con uomini schifosi” o un “Monologhi della vagina” in versione maschile o ancora un “Quello che le donne non dicono” di mannoiana memoria ma molto più incarognito e radicale.

Nella vita ci vogliono eccitazione, esaltazione, foga e fervore non come il personaggio (assente) di “Entusiasmozero” scritto, diretto e prodotto da Fabio Marchisio con un eccellente e generoso, spiritato e esagerato e esagitato Lorenzo Bartoli (ci ha ricordato un mix tra Scimone/Sframeli, Antonio Albanese, Antonio Conte e Johnny Stecchino) in scena lanciato in un dialogo surreale ad una voce tra un piccolo malavitoso locale e un “picciotto”, appunto silenzioso. Anche qui la veste leggera nasconde un animo contemporaneo e tagliente in un racconto sulla mafia, sulle regole e i rapporti Don-chischotte-sulla-luna.pngnon scritti con la politica, la corruzione, gli appalti, il tutto in salsa pentastellata, una rivoluzione taciturna, più un auspicio, un sogno rispetto a quello che poi effettivamente nella realtà è accaduto.

Ed eccoci al migliore, secondo noi, visto nei quattro giorni di permanenza al Torino Fringe (ma perché non inserire un Premio della Critica e uno del Pubblico e varie menzioni? Renderebbe il tutto più frizzantino): “Don Chisciotte sulla Luna” (prod. Elmo di Mambrino, A.M.A. Factory). La scrittura di Angelo Tronca è pantagruelica, dadaista, irrazionale, paura e delirio, una follia ben architettata in scena dallo stesso Tronca affiancato da costole del Mulino di Amleto, Barbara Mazzi e Francesco Gargiulo in questa pazzia teatrale dissennata, una chimica spasmodica, una miscela giocosa tra Cervantes e l'Ariosto. Inventiva e invettive, trovate ed escamotage, arringhe, citazioni e poesia, tra Mario Bros e Celentano, una piece sul coraggio, sul non avere paura, un'alchimia emozionante, un respiro commovente, irriverente: sicuramente spassoso.

Tommaso Chimenti 31/05/2023

Venerdì, 16 Settembre 2022 18:52

"Secret life": la scienza deve essere morale?

TORINO – Il dubbio è amletico e senza soluzione: alla scienza e al progresso possono essere applicabili norme morali, comportamenti etici, etichette e patenti di giusto o sbagliato? Oppure l'Uomo può, e deve forse, cercare di studiare come poter superare i propri limiti, applicare intelligenza e strumentazioni per gettare uno sguardo sul domani, sul futuro, creare qualcosa che non esiste, sbirciare verso l'ignoto dello sconosciuto per renderlo, appunto, conosciuto e fruibile? L'uomo è fatto e composto di curiosità, senza queste caratteristiche si inaridisce, muore, si secca come un albero senz'acqua. Al tempo stesso qualcuno ci spiega che gli scienziati dovrebbero studiare e inventare e ingegnarsi solo nelle scoperte “buone” per l'umanità, scoperte pure che portino soltanto benefici. Ma chi è che decide e controlla la 1a3f8f5dc285878f1d75d423cdb0f8ee_XL.jpgbontà di queste innovazioni? Non esistono cose né parole né oggetti buoni o cattivi, esiste solamente il contesto, il come, la loro applicazione nel reale. Se costruisco un'arma, quella stessa non sparerà da sola. Un'arma è un pezzo di ferro che può portare alla morte solo se un umano premerà il grilletto. Quindi il libero arbitrio è il cardine ma l'uomo crede sempre, per assicurarsi un alibi buono per ogni stagione, di essere troppo debole e che davanti ad una pistola sicuramente, prima o poi, sarà portato dagli eventi (non dalla sua coscienza e scelta intima) a schiacciare il grilletto rimandando la responsabilità del proprio gesto all'oggetto invece che sul soggetto (lui stesso) che ha compiuto l'atto.

Il regista Manfredi Rutelli ed i suoi LST Teatro scelgono sempre testi con ampie finestre di riflessione, propongono un teatro che tra le righe, negli anfratti delle pieghe, dentro le parole riesca ogni volta a scardinare crepe, aprire spiragli, non dare verità ma concedere il beneficio del dubbio, socchiudendo parentesi dentro le quali approfondire, ascoltare più campane, instillare punti interrogativi di una dialettica mai fine a se stessa ma che spazi all'interno di un ventaglio di possibilità oltre l'ideologia, oltre il pensiero unico, al di là di indottrinamenti e prese di posizione tanto nette quanto ottuse. LST Teatro Secret Life Vita segreta degli umani .jpegIn questo “Secret Life”, testo dell'inglese David Byrne mai proposto né tradotto in Italia prima di questa versione a cura della compagnia chiancianese (presentato all'interno del composito Earthink Festival, rassegna dedicata ad ambiente e sostenibilità, per la direzione artistica di Serena Bavo, dal 9 al 17 settembre in vari spazi torinesi, dall'Atelier Spazio Fisico allo Spazio Kairos, dallo Spazio Cecchi all'Imbarchino del Parco del Valentino fino all'Off Topic e alla Cascina Filanda) attraverso felici incastri temporali si dialoga proprio sul filo flebile e tremolante della scienza che ha sempre il cannocchiale spostato su ciò che non c'è e la morale che tenta non tanto di comprendere il reale ma piuttosto di normarlo, controllarlo, assoggettarlo a regole politiche. Quindi se da un lato lo scienziato studia il possibile, la morale del presente tenta di tirare le redini, frenare, fermare o soltanto rallentare un processo comunque inevitabile e ineluttabile. Non puoi dire all'uomo di non “aprire quella porta” sul futuro, sarà la prima cosa che tenterà di fare.

Fondamentale, a livello scenico ma anche drammaturgico, è stata la scelta di applicare alla scena dei grandi pannelli che hanno una doppia intelligente resa meccanica: possono infatti essere retroilluminati e proporre un'aura, una parvenza, un'essenza che arriva da un altro tempo sperso nell'Universo, ectoplasmi provenienti da altre dimensioni, defunti che dialogano e interagiscono nella linea del presente, oppure ruotare su se stessi, come porte di un saloon, aprendo sliding doors sconosciute, spalancando nuove idee o soltanto mostrando plausibili verità nascoste o anche, come il titolo ci suggerisce, vite segrete. Possiamo suddividere “Secret Life” in tre trance temporali: il professore Bronowsky, personaggio realmente esistito, scienziato e divulgatore (una sorta di Piero Angela, affabile, preciso, didattico e didascalico e al tempo stesso figura positiva entrata in tutte le case grazie ai documentari BBC con il suo fare amichevole e accogliente, spiegando argomenti complicati con un linguaggio semplice e adatto a tutti), la moglie vissuta per quarant'anni dopo la scomparsa del coniuge, il nipote al giorno d'oggi.TeatroAntropocene_2022_07_13_LucaMatassoni_HD_13.jpg

Bronowsky è Gianni Poliziani, presenza predominante, imponente e importante, voce calda e profonda (ci ha ricordato quella del doppiatore dell'uomo d'affari John Hammond ideatore di Jurassic Park), perno dell'affabulazione sul quale ruota tutta la piece, il nipote invece è Alessandro Waldergan nella sua fisicità dinoccolata gioca il suo lato da Paperino, tra lo scoordinato e l'ingenuo, attirando le simpatie della platea, Francesco Pompilio è una valida spalla, il collaboratore dello scienziato, la professoressa è Enrica Zampetti, veramente convincente, una sorta di presentatrice che introduce prima per poi entrare in scena, sempre lucida in questo dentro e fuori, vero ago della bilancia dei vari posizionamenti sul palco, infine la moglie è Clara Galante, precisa, dà colore e pienezza, oltre che ironia.

Si ride di noi, del genere umano, di quello che eravamo e di quello che siamo diventati, da cacciatori sanguinari ad inventori fino ai giorni nostri dove al massimo (non) riusciamo ad aprire una scatoletta o siamo imbambolati tutto il giorno davanti a video di gattini. Anche la decelerazione è un'accelerazione, negativa ma pur sempre un'accelerazione, come a dire che l'evoluzione può avere anche momenti dove sembra che non si stia andando avanti mentre qualcuno sta comunque lavorando per proporre sistemi alternativi, non sempre migliorativi dello status quo ma pur sempre tentando (spesso, forse sempre, per fini commerciali e non per il benessere dell'uomo o del Pianeta, sia chiaro) di cercare altre vie, nuove strade per affrontare il domani nebuloso, a tratti confondendolo ancora di più.

TeatroAntropocene_2022_07_13_LucaMatassoni_HD_26.jpgI pannelli in trasparenza, quasi dissolvenza cinematografica, creano un gap sia temporale che spettrale sia nel differenziare i personaggi in vita, davanti, rispetto a quelli che parlano dal loro passato. Brunowsky era un uomo irreprensibile, onesto, benvoluto e stimato da tutti, collaboratori e telespettatori (un nostro Enzo Tortora, per intenderci) mentre lo scandagliare dentro le sue stanze segrete, portando alla luce i suoi studi sulla bomba potenzialmente devastante per l'Umanità, potrebbero distruggerne l'immagine. Un testo che ci parla di sociologia e antropologia ma anche di quanto siamo disposti a scommettere sul futuro dell'Uomo, di quanta fiducia abbiamo in lui e nelle istituzioni che ci governano e sull'annosa questione del “chi controTeatroAntropocene_2022_07_13_LucaMatassoni_HD_27.jpglla i controllori”. Una drammaturgia che ci porta dentro gli studi sull'umanità e sulla nostra evoluzione, che procede a strappi e ad elastico, “il progresso corre che noi umani si sia pronti o meno”. Ma se si ha paura del futuro e dei suoi inevitabili cambiamenti allora vivremo nel terrore, impantanati nel fango dell'immobilismo, stretti e costretti dentro comfort zone sempre più asettiche e senza ossigeno. Se consideriamo anche la guerra come un frutto dell'ingegno umano (anche Leonardo da Vinci la studiava per rendere possibile la vittoria per i propri committenti) allora anche gli studi di Einstein o Enrico Fermi sulla bomba atomica (in questo ci ha ricordato la piece “Copenhagen” di Michael Frayn) devono essere visti e considerati in quest'ottica. Anche perché l'evoluzione dell'Uomo è andata di pari passo con distruzioni e guerre, l'annientamento dei nemici, l'estinzione di popoli (la storia la scrivono i vincitori) ed “essere umani vuol dire essere dannosi, distruttori e fare di tutto per sopravvivere”, anche attaccare altre nazioni: “Ad Auschwitz e Nagasaki non è stato il gas, sono stati i matematici”. Poi arriva la stilettata finale, vera e preoccupante, più realistica che pessimistica: “Andremo avanti fin quando non arriverà qualcosa che ci farà fermare come specie”. Un testo necessario (ben recitato, il che non guasta) sul nostro passato e sul nostro futuro. Sul presente invece siamo troppo invischiati e coinvolti per poterne fare un affresco super partes.

Tommaso Chimenti 16/09/2022

Foto: Luca Matassoni

 

TORINO – Torino Caput Mundi. O quanto meno dell'Italia. Se Milano è città europea, Torino le va subito a ruota. Qui accadono le cose, pur nelle contraddizioni, si ha la netta sensazione che questa metropoli, una volta considerata aristocratica e adesso cosmopolita, sia in cammino, in movimento. A Torino non ci si annoia. Negli ultimi anni infatti, su questa sponda del Po, sono, non a caso, approdati il Salone del Libro come i Masters di Tennis o ultimamente l'Eurovision. L'arabo che prende piede, la Francia così vicina, la maestosità delle montagne sullo sfondo di questa cartolina, Torino incastrata tra il mare ligure e le Alpi, la Torino solida per natura, per dna basti pensare ai suoi due simboli per eccellenza: il toro, che dà il nome all'unica squadra di calcio tifata in zona, e la Mole. Ma è grazie al “Fringe Festival”, alla sua decima edizione, che ci siamo spinti lungo bisettrici laterali, esplorando quartieri popolari fuori dalle rotte classiche turistiche; e così abbiamo visitato (tra le dieci location della rassegna) Casa Fools che da fuori sembra un negozio e invece dentro si apre in un'accogliente sala, ed ecco lo Spazio Kairos ex fabbrica di colla poi divenuta ditta di terra rossa per i campi da tennis sbriciolando mattoni, poi scuola circerse adesso teatro con la forma di un fienile, o ancora il Circolo di via Baltea quasi una serra, e infine lo Spazio Ferramenta, luogo di culto comunista, vicino al museo Mao, tutto votato al sovietico, al cimelio russo (non il momento migliore per la nostalgia socialista), con la sua sala sotterranea fresca che sembra di scendere nelle segrete di un castello o nella sala torture. Una trentina gli spettacoli off proposti, sei repliche ognuno, grande carica, grande energia per tre settimane di freschezza e colori, di fermento, di ribollire, di incontri e collaborazioni, di scambi e incroci, di conoscenze e vicinanze artistiche e umane. Il Torino Fringe (la direzione artistica è affidata a Cecilia Bozzolini, Pierpaolo Congiu, Michele Guaraldo, L'origine dell'occhio.pngLia Tomatis) vale sempre una visita per l'accuratezza delle scelte, per la dedizione, per lo spirito che scorre sottopelle come filo sotterraneo riempiendo le atmosfere di ogni spazio dedicato al palco e ai suoi derivati.

Il nostro viaggio è cominciato con “L'origine dell'occhio” del giovane Collettivo Spinaci dell'acqua (nato all'interno del Progetto Cantiere del Festival Incanti diretto da Alberto Jona)che hanno messo in campo la loro ingenuità artistica ma anche idee e voglia, visione, spirito, immaginazione, lavoro e una ricerca invidiabile. Due tavoli laterali, quasi tecnigrafi da geometri, e nel mezzo un telo per le proiezioni, un impianto tanto semplice quanto artificioso che aveva sentori di laboratorio come di artigianalità, di esperimenti scientifici come di manualità tecnica. Se il musicista stava in mezzo ai suoi aggeggi meccanici, oggetti strani, insoliti e inusuali strumenti musicali che producevano inquietanti suoni di caverna, di abisso, di sirene d'Ulisse, di canto delle balene, dall'altra parte la performer muoveva i suoi piccoli arnesi mentre piccole telecamere ne riproiettavano le fattezze amplificate sullo schermo creando una bolla cinematografica dove perdersi. Non solo oggetti miniaturizzati ripresi (qui ci sono tornate in mente le esecuzioni di David Espinosa, specialmente “Mi gran obra”) ma anche libri pop-up (e in questo caso ci sono balzati agli occhi i Sacchi di Sabbia con “Un fossile di cartone animato”) le cui pagine, una volta voltate, escono prepotenti come montagne, prendono forme, aumentano il loro volume, diventano tridimensionali. Una poetica che scivola nell'infantilismo, con delicatezza, una rotta che tende in maniera ostinata e contraria allo stesso tempo verso le paure ancestrali dell'Uomo, ovvero da dove veniamo e dove stiamo andando ma soprattutto chi siamo. Il loro (in scena Martina Mirante e Costantino Orlando) è un racconto sull'origine della vita sul pianeta Terra. Sembrano amanuensi piegati sui propri tomi di studio alla ricerca del Sacro Graal, curvi impegnati tra i loro alambicchi e pozioni e intingoli e arcani. Ed è interessante vedere il prodotto del loro fervente lavoro (e lavorio) come è altrettanto coinvolgente esaminare le postazioni aggrovigliate e arruffate, captando gli autotune e le eco, i riverberi, le mosse tra piccoli segmenti, tra microattrezzi che si trasformano in maniera alchemica in cinema casalingo. L'immagine iconica conclusiva con l'attrice abbracciata al lenzuolo diventa in un attimo l'affresco ambientalista di una ragazza abbarbicata alla coda di un cetaceo: questi ragazzi hanno tenacia, tenerezza e grazia: “Non sarà il canto delle sirene, nel girone terrestre ad insegnarci quale ritorno attraverso le tempeste, quando la bussola s'incanta, quando si pianta il motore, non sarà il canto delle Clown-last-show.pngsirene ad addormentarci il cuore”, De Gregori rules.

Climax completamente opposto è quello invece che porta in scena, e che riesce ad alimentare Willy nel suo “Clown Last Show”. Come bravi soldatini compiliamo un foglio anonimo con i nostri ultimi desideri prima di lasciare questo mondo e li infiliamo in una boccia da pesci rossi: è chiaro di cosa parlerà lo spettacolo ed è chiaro come andrà a finire. Ci si presenta subito un clown aggressivo, alla Leo Bassi ma senza quella carica dirompente e dissacrante. I vuoti sono corposi, i silenzi ampi e consistenti ma con una canzone dopo l'altra si cerca-tenta-crede di ovviare alla mancanza di senso, di testo, di drammaturgia. Entra una bara in scena e il prevedibile diventa reale. Aumentano le attese ed è snervante questa riproposizione della Famiglia Addams, il macabro che sfocia nell'ironia caustica, nel rapporto tra il capocomico e la sua aiutante: le gag sono consunte e consumate, la musica è debordante che sembra di essere in un piano bar e viene usata esclusivamente come riempitivo, la sostanza è minima se non infinitesimale, il tedio ci assale in questo brodo che viene continuamente allungato di superficialità, l'entusiasmo è ai minimi storici e neanche il continuo ricorso al pubblico, portato in scena, riesce a rivitalizzare il boccheggiante, ansimante, agonizzante, claudicante, stanco show: “Io sono un clown e faccio collezione di attimi”, sosteneva Heinrich Böll. Qui sono mancati proprio gli attimi.

Stuzzica e affascina l'impianto creato da Davide Carnevali nel suo “Calciobalilla”, un gioco nel gioco, una partita di ping pong che si trasforma in pedana di scherma che diventa un finale di partita scacchistico beckettiano. Ci si aspetterebbe il classico calcino con gli omini fissi e immobili blu e rossi impagliati nelle stesse pose lungo le assi di ferro a muoversi soltanto lateralmente, e invece ecco la prima sorpresa: la scena. Una lettura a tavolino con i due attori (Fabrizio Martorelli e Stefano Moretti efficaci, tormentati, turbolenti, furiosi, provocatori, molesti) e il regista-direttore d'orchestra (Claudio Boschi kantoriano), tre voci profonde radiofoniche, e microfoni che colano e calano a piombo ad ovattare il suono, ad imperlarlo, ad emanciparlo, a riecheggiare lo spazio. Il testo, un'operetta gioiosa e furiosa, è un perdersi futurista, è una continua rivelazione ed epifania, è un cadere e ripartire come le corse attorno a questo tavolo-campo di battaglia, è una rima dietro l'altra che amplifica il senso ma che al tempo stesso lo dissolve, lo distrugge, impastando tutto in un'onda, in un'armonia dove è piacevole naufragare e lasciarsi cullare. I due hanno fogli in mano, adesso sembra un doppiaggio ed è proprio quando ti concentri sui movimenti di quest'esperimento che emerge prepotente il testo (ha aperto spazi Happy days-Santomauro.jpegriconducibili al “Cyrano de Bergerac” di Rostand) e le sue parole concatenate, ed è proprio quando surfi sulle sillabe che la macchineria meramente teatrale si esalta e vive e guizza tra gol o canzoni sudamericane che mordono l'anima, infarti d'assonanze, disillusi come filastrocche, abbandonati nei rimandi semantici, sovraesposti negli sberleffi, orfani di calembour. In definitiva la vita è “una partita di calcio da giocare da fermi”. Diceva un anonimo: “Mi sento come se nella partita di calcetto di ieri io fossi stato il pallone”.

Si ride, a tratti smodatamente altre amaramente, con gli “Happy Days” di Stefano Santomauro, terza appendice comico-grottesca sulle italiche falle comportamentali, dopo “Fake Club” e “Like”. Il livornese è scatenato, riempie la scena, la fa sua, e somiglia, come impatto, forza espressiva, argento vivo addosso, a Jack Black in “School of Rock”. Le sue analisi sul reale certo sono declinate sul brillante cercando sempre di ridere delle tragedie, ma hanno tra le righe il desiderio di comprendere meglio i nostri tempi bui, di sviscerare l'affresco degli anni, caotici e in continua evoluzione, che stiamo vivendo, o subendo, sulla nostra pelle stanca. Qui si parla di felicità rapportando il Bel Paese al Nord Europa, alla Scandinavia dove, nonostante il clima inclemente e l'alto tasso dei suicidi, sono sempre nelle prime posizioni nella classifica dei popoli più happy per reddito, welfare, aspettative di vita, onestà e fiducia nel governo, salute. Perché, si chiede e ci interroga Santomauro (uno dei crack del Fringe a livello di pubblico presente), sempre spigliato e pimpante, frizzante ed esplosivo, con la sua classica veemenza e la sua postura guerrigliera da mitragliatore, se in Italia abbiamo tutto non riusciamo ad essere felici come quelle nazioni che hanno meno di noi? Cosa è successo? “Perché ci siamo ridotti in questo Stato?”, cantava Caparezza, con la S volutamente maiuscola. Quindi l'indagine (scritta in collaborazione con Marco Vicari e Daniela Morozzi) del comico livornese (che ha tempi e scansioni e ritmo perfetti) è tutt'altro che leggera, ci stuzzica, ci fa riflettere, continuando a ridere di gusto, tra pezzi talmente assurdi di autobiografia da essere realmente accaduti. Il suo sguardo è quello incisivo che trafigge di Van Gogh, le sue mani frullano, non perde un colpo, trascina le folle, è un capopopolo battagliero e sa come arringare la platea. Si esce più consapevoli, con tante domande alle qualiuna_cena_daddio.jpg rispondere sorridendo. Forse più felici. “Ha stato lo Stato”, urla un murales.

Un divano e un interno borghese ci attendono sulla scena di “Una cena d'addio” degli Onda Larsen nel loro teatro rinnovato con uno spazio all'esterno in stile baita, un vero e proprio foyer all'aperto ospitale e accogliente. L'ambientazione e la cadenza, l'andamento e il ritmo, le situazioni e la scelta delle parole sono indubbiamente francesi (gli autori sono gli stessi de “Il nome del figlio” trasposto anche in Italia), e alle gag e ai misunderstanding si sommano grandi valori sociali, civili e quel pizzico di cinismo che rende il tutto più interessante e pungente, certamente divertente. Ad essere sul tavolo anatomico è l'amicizia. Una coppia decide di seguire l'esempio di un loro conoscente che organizza delle cene d'addio con i suoi amici per “tagliare i rami secchi” delle relazioni inutili e circondarsi di nuove persone più stimolanti. I tre in scena (Lia Tomatis, Riccardo De Leo, Gianluca Guastella tosti) hanno piglio brillante, i dialoghi tengono, la tensione regge: marito, moglie e il terzo incomodo, perché la compagna di quest'ultimo non si è neanche degnata di presenziare, senza avvertire, alla cena-resa dei conti. E infatti escono fuori, come in un duello da Far West, le acredini incancrenite da anni, i difetti nascosti e mal sopportati, le crepe non dette, i livori sotterranei, le ragioni taciute per il quieto vivere, le litigate postdatate. Viene fuori tutto, come un vomito irrefrenabile, tra nevrosi e psicoanalisti, tic e egocentrismi, manipolazioni e consuetudini noiose. Una sorta di Ultima Cena per azzerare le amicizie ormai meccaniche senza più l'intimità che le hanno generate (ricorda “La cena dei cretini”, non a caso francese anch'esso). Si ride molto di noi, del nostro avere bisogno degli altri e allo stesso tempo del nostro essere antisociali; in una parola sola, bipolari: “Di quei violini suonati dal vento l'ultimo bacio mia dolce bambina brucia sul viso come gocce di limone l'eroico coraggio di un feroce addio”, Carmen Consoli docet.

Tommaso Chimenti 02/06/2022

TORINO – Nell'ultimo guado dell'esistenza, tra un impalpabile possibile e un indefinito nebuloso proseguire, sospesa tra questa terra e il declino oblioso, la (non casta) Diva dell'antichità sta e serpeggia logorroica, si muove raccogliendo i cocci in frantumi del frantoio del proprio passato, riassumendo nefandezze squallide e tesori d'amore candidi, riportando alla luce pepite di memoria intatta e affranta. La triangolazione di “Cleopatras” (prod. Tpe e Colline Torinesi, che apre la stagione '21-'22 dell'Astra di Torino) Giovanni Testori, drammaturgia, Valter Malosti, regia, e la formidabile, titanica, gigantesca Cleopatras-Anna-Della-Rosa-©-Tommaso-Le-Pera-min-scaled.jpgAnna Della Rosa, in scena, si esalta in un connubio faticoso, corpo a corpo voluttuoso, all'ascolto tra invenzioni letterarie e un lombardo d'antan, schizzi di popolare infarcito d'aulico, espressioni volgari acide e architetture linguistiche arcaiche per un gramelot suggestivo, compatto e solido e ruvido. La nostra eroina, come una frontman di una rock band, microfono in mano e sguardo ben piantato sul pubblico a cercarne le debolezze e le crepe, si apre alla platea, la sonda e scandaglia, la concupisce inebriante, la seduce bramosa, la avvolge con gli artigli d'aquila, quanto la allontana, la reprime, in un gioco di sfioramenti brividosi e perdite.

Con la bottiglia teatro.it-cleopatras-marcos-vinicius-piacentini.jpgdi whisky ci appare come Marilyn nelle sue ultime ore solitarie abbandonata nella camera da letto che ne decretò l'unhappy end, in alcune movenze, tempestate dalla desolazione e dallo scivolare verso l'ignoto, abbiamo potuto vedere lo sconforto di Amy Winehouse, il cipiglio di Bette Davis, il mistero di Greta Garbo, la sicurezza di Ava Gardner, l'altezzosità arrogante di Marlene Dietrich e il profilo, appunto come le iscrizioni egizie, tra Nefertiti e Marge Simpson con la sua crocchia, facendoci affiorare ulteriormente un mix tra Mina e Nina Zilli. L'imperiale Anna Della Rosa ha come unico appiglio il microfono dal filo che agitandolo pare la sua vipera flessuosa in cerca del morso fatale: bottiglia e amplificatore si fanno fallici in cerca della sua bocca, apertura verso il suo mondo, dentro le sue parole. Per lei, in abito lungo di raso lucido le cui volute e pieghe e onde paiono quelle di marmo del “Cristo velato” napoletano, è un'estenuante prova d'attrice linguistica e fisica a slalomare tra desuetudini lessicali ed eros, tra perifrasi ricoperte di pathos e un gergo da portuale, balla come favilla di fiammifero ondulando in una danza sensuale allungata e arabeggiante.

Ogni tanto un suono del telefono, quasi una sveglia che attira per un attimo la sua attenzione, la ridesta dal suo monologo a teatro.it-cleopatras-principale.jpgperdifiato, a valanga di ridondanze e artificiose costruzioni; il trillo viene dalla camera da letto alle sue spalle, crediamo d'albergo (sul comodino un teschio amletiano o proveniente direttamente dal quadro del San Girolamo caravaggesco), impersonale e anonima nelle sue linee fusion e pulite ma senza personalizzazione, dove con una siringa tossica in vena (la trasposizione contemporanea dell'aspide) si inietta il veleno, dolce amara tragica ineffabile conclusione di tutta l'affabulazione precedente, degna chiusura per chi non può più restare in questa dimensione perché tutto ha cleopatras-valter-malosti-anna-della-rosa-©-laila-pozzo.jpgbruciato, morso, addentato con voracità e violenza. Violento come solo sa essere la desolazione e l'avvilimento in cui è stata lasciata come nelle sabbia mobili, accecante, furiosa e prepotente come questa lingua macchinosa e ardimentosa che liscia e accalora, carezza dannata leggera e lussuriosa, ora focosa adesso slanciata, carnale e femminea, illuminante e cavernosa, piena d'accensioni e oscuratezze e accelerazioni, una lingua cantata e marcita, spugnosa e sugosa, martellante, conturbante ed esplicita, di rime che ora addolciscono e in seconda battuta restano refrattarie e impermeabili ad una facile comprensione.

Sono le sue ultime ore da mortale della Dea dell'Era antica, i suoi finali rintocchi con il destino in questa confessione marcia tutta di pancia, piena, ritmica, corporea, libidinosa, eccitante, meramente materiale, certamente tormentata, ogni rigurgito del passato come una ferita struggente per far sgorgare una verità nascosta prima di essere per sempre sepolta e adombrata dalla dimenticanza, dall'oscuro e dal silenzio siderale che tutto inghiotte e purifica. La Cleopatra di Testori non cerca salvezza né chiede pietà, né protezione né riparo né tanto meno perdono, per cosa poi? Per aver vissuto?

Tommaso Chimenti 06/10/2021

Foto: Tommaso Le Pera; Laila Pozzo

Giovedì, 03 Giugno 2021 10:40

Festen: la verità tragica e la rimozione

TORINO – Nessuno in Italia lo aveva ancora messo in scena mentre in Francia, Germania, Londra, e soprattutto Scandinavia, è diventato un cult, un classico, sebbene la pellicola sia del 1998, quindi relativamente vicina nel tempo. “Festen” (vincitore a Cannes) incute timore solo al pensarlo, timore nella trasposizione dalla celluloide al palco, timore nel riproporlo troppo simile al film, timore nel cercare il naturalismo che la macchina da presa può produrre e Festen_photo_Giuseppe_Distefano0172.JPGche il teatro, necessariamente, deve cercare di declinare nel metaforico, nel simbolismo, nel non-detto. Se vogliamo tutta la violenza psicologica espressa dal testo è una miniera d'oro per chi, come il regista di questa versione (targata Tpe, Elsinor, TS Friuli Venezia Giulia, Solares) Marco Lorenzi (sempre più raffinato, consapevole e maturo), sa maneggiare la macchina teatrale e si pone in quelle ferite-crepe di senso che solo la parola e lo spettacolo dal vivo, se si riescono a toccare le giuste corde interiori, sanno creare e far sbocciare, fiorire ed eruttare. Il regista del film iconico, Thomas Vinterberg, che ha appena vinto l'Oscar come miglior film straniero con “Un altro giro” (durante la lavorazione della pellicola sua figlia è deceduta in un incidente stradale), è uno dei fondatori del movimento-manifesto-decalogo Dogma 95 (del quale fa parte anche Lars von Trier): niente luci artificiali, nessuna scenografia, assenza di colonna sonora, camera a mano, anche i costumi devono essere di proprietà degli attori e mai abiti di scena. Un ritorno al passato, la negazione degli effetti speciali. Quindi, sia per il tema proposto (una festa per il sessantesimo compleanno del padre-padrone di questa famiglia aristocratica che violentava la coppia di figli gemelli), sia per il bagaglio di aura che aleggia(va) attorno a questo “peso massimo” del cinema contemporaneo, la responsabilità era alta, la pressione in ebollizione.

Festen ©AndreaMacchia.jpgNon tutti gli spettacoli sono uguali, questo aveva una carica diversa, una patina, un forte richiamo. Come rappresentarlo? Il regista Marco Lorenzi ha avuto, durante la stesura della drammaturgia, un fitto scambio epistolare direttamente con Vinterberg che leggeva, faceva appunti e approvava le varie scene; un lungo lavoro di smussare, togliere, medicare. Possiamo dire che l'intuizione di Lorenzi, e del suo Il Mulino di Amleto, ha fatto centro: non riuscendo, non volendo, riproporre freddamente la pellicola (la cosa più semplice sarebbe stata quella di mettere tavolo e sedie al centro della scena), si è deciso per un escamotage da un lato tecnologico (quindi contravvenendo alle regole ferree del Dogma), dall'altro ricercando, proprio attraverso l'uso di strumentazioni, quell'artigianalità, quella semplicità, quel concreto che solo il teatro può regalare. Il telo, non un velatino, davanti al boccascena, sipario da proiezione, ci tagliava la visuale da quello che succedeva alle sue spalle. Due mondi divisi, come quello che è accaduto e quello che abbiamo visto, la verità dietro, con le sue storture e sporcature, e quello che ci fanno vedere, possiamo vedere, vogliamo credere, davanti a noi. Dietro questo telone-velo di Maya che scinde il Vero dal Falso, le scene erano costruite in presa diretta da una telecamera come fossimo su un set cinematografico e assistessimo alla realizzazione, Festen_photo_Giuseppe_Distefano31.JPGancora gretta e impura, di alcune scene poi da montare. E' un film nel film, è un teatro filmico, è quella giusta misura, la terza via tra palco e camera. Tra palco e realtà, cantava Ligabue. Nell'aria si annusa molto Ibsen, soprattutto “Spettri”. Una telecamera che riprendeva momenti e volti e sguardi e primi piani e li riproiettava sul grande schermo creando questa doppia e duplice visione possibile: dietro, illuminata dalla luce del cameraman, la scena per come veniva architettata, con i cavi, le imperfezioni, gli oggetti di scena, le falsità del cinema, davanti la ripulitura del tutto, la scelta dei dettagli da evidenziare ed esaltare, lo zoom intenso, il particolare da suggellare, il passaggio da sottolineare. Eppure era la stessa realtà ma presa da angolazioni differenti, piccola e naturale dietro, gigantesca e artificiale davanti. A quale credere? A quale donare la nostra fiducia?

Una casa in miniatura davanti alla scena ci porta in un mondo infantile, di giochi, di costruzioni, così come la favola noir di Hansel e Gretel ci introduce in questo mondo che di fiabesco ha soltanto i contorni inquietanti. Al centro del palco, aperto e svuotato del Teatro Astra torinese, due cerchi concentrici, un mirino per colpire meglio, per stoccare il colpo fatale, o anche il labirinto di Cnosso dove il nostro Padre-Minotauro (un Danilo Nigrelli grande anche in questo ruolo odioso e irritante, placido e calmo mentre tutt'attorno la rabbia sale) fa scempio di vergini innocenti, il nostro Padre-Barbablù che toglie e succhia la vita dai suoi stessi figli, un Padre-Ciclope che, a valanga, a cascata, ha distrutto le vite dei quattro figli e della consorte, costringendoli ad una vita di facciata. Centrale è anche la figura di Christian, il figlio accusatore del padre pedofilo, che con i suoi brindisi (alzandosi e battendo una posata Festen_photo_Giuseppe_Distefano0063 (1).JPGsul bicchiere attirando l'attenzione dei numerosi invitati) denuncia quello che il genitore faceva a lui e alla sorella Linda che si è suicidata da poco perché, anche a distanza di decine di anni, non riusciva a superare l'accaduto. Elio D'Alessandro, sofferente e tormentato, dilaniato, è appunto Christian e riesce a dare al personaggio vita dolente e disperata forza, tratteggiata anche nella veste musicale grattugiata, affranta e angosciata in sonorità straziate che ci hanno fatto pensare a Manuel Agnelli degli Afterhours o a Giovanni Lindo Ferretti dei CCCP o ancora, per rimanere alla scena torinese, a Mauro Ermanno Giovanardi dei La Crus. Da sottolineare tutto il cast, unito e partecipe: Roberta Calia (la compagna incinta del figlio più problematico), Yuri D'Agostino (il cerimoniere dai mille coriandoli), Barbara Mazzi (la sorella psicologa che sta insieme ad una donna ma non FESTEN 1_phAndreaMacchia.jpgha il coraggio di dirlo alla famiglia), Angelo Tronca (il nonno con il trucco volutamente “storto” proprio per mostrare in maniera lampante l'imperfezione, l'errore, la non ricerca della precisione), Raffaele Musella (energico e vitale nel ruolo del figlio scapestrato), Roberta Lanave (la cameriera).

Da evidenziare anche la figura della Madre (Irene Ivaldi eccezionale, straniante nei panni freddi, glaciali, algidi, indifferenti) che tutto sapeva e conosceva e niente ha fatto per interrompere la mattanza né per salvare i propri figli-cuccioli dagli artigli del Drago tra le quattro mura domestiche. La Madre racchiude in sé il Male, quel male che non se ne andrà nemmeno quando il Mostro sarà allontanato; diceva Martin Luther King “non ho paura dei malvagi ma del silenzio degli onesti”. E' un compleanno che si miscela con un funerale, la chiusura del cerchio, la chiusura del baratro su questa famiglia vissuta nell'ipocrisia dei buoni sentimenti, nella falsità di sorrisi fasulli e contraffatti. Il sottotitolo è “Il gioco della verità” che ci porta diretti alle atmosfere e suggestioni pirandelliane del cosa è vero e che cosa è falso, e se la verità altro non sia che la realtà accettata e non quella accertata, la credenza collettiva che, a forza di dirla, supera e fa slittare i fatti, creando psicologicamente una rimozione da un lato e una sostituzione dall'altro, spostando eventi, una rimozione che è anche una esorcizzazione del Male, una salvezza, un rifiuto di responsabilità di fronte a momenti ingestibili o drammaticamente troppo esposti. Il pubblico è chiamato non solo ad assistere ma ad intervenire (con il suo silenzio-assenso) fin dall'inizio quando gli viene chiesto che busta vorrà aprire, la gialla o la verde, per alzata di mano. Era l'espediente che usava il padre per far scegliere, e quindi negare una propria responsabilità in ciò che sarebbe da lì a poco accaduto, il supplizio ai suoi bambini. La platea quindi (come il popolo tedesco di fronte ai campi di concentramento nazisti) diviene complice e sente il fiato sul collo di tutto quello che si dipana davanti ai suoi occhi e non può più dire di essere vergine ma ha, e si sente, le mani metaforicamente “insanguinate”. Il pubblico sono gli invitati alla Festa che non prendono posizione, che ascoltano e non supportano il ragazzo che denuncia ma, rispettando la forma e la buona creanza della società altolocata, le paillette e i lustrini, il galateo e la parvenza e i buoni costumi, annuisce e silenziosamente sostiene la tesi del padre che scredita il figlio con una violenza che ferisce e lacrima, una violenza sottile e soffice, una violenza dalla quale è difficile difendersi perché ha il sapore di una carezza calda e solo dopo averla accolta ti accorgi dell'emorragia interna.

Padre: “E' colpa mia se mi sono capitati figli così incapaci?”

Christian: “Perché lo hai fatto?"

Padre: “Eravate buoni solo a quello”.

Repliche giugno: fino al 6 Teatro Astra, Torino; 8-13 Teatro Rossetti, Trieste; 15-16 Teatro al Parco, Parma; dal 18 al 27 Teatro Fontana, Milano.

Tommaso Chimenti 03/06/2021

Foto: Giuseppe Distefano, Andrea Macchia

TORINO – La perfezione non è di questo mondo ma l'appena visto “Le sedie” ci si avvicina, teatralmente parlando, moltissimo per empatia, sensibilità, acume, giustezza, armonia. Sostenuto da due attori miracolosi, Michele Di Mauro e Federica Fracassi, che si sostengono, complici, esaltando il testo senza mai soverchiarlo, al suo servizio senza perdere di vista l'obbiettivo, una regia (di Valerio Binasco) ispirata e visionaria quanto tangibile e immersa nell'attualità, una scena (di Nicolas Bovey) che è un campo di battaglia futuristico, distopico di sassi, pietre, calcinacci e appunto sedie. Ne viene fuori un piccolo grande capolavoro che rimarrà nel tempo e si consegna agli archivi per la concezione, il pensiero, la dedizione, la cura, il respiro che si porta ancora dietro, e dentro, lo scritto di Ionesco (dopo settanta anni dalla stesura) troppo spesso bollato come “teatro dell'assurdo” (e invece così simile ai nostri giorni) epiteto-definizione che ne ha limitato la fruizione o messo tra le parentesi di generi minori, parcheggiato in naftalina. E' un'architettura che sprizza magia, è quello che ti aspetteresti, a qualunque età, se ti parlassero del teatro e tu non ci fossi mai entrato. Ci sono più cose in cielo e in terra, spettatore, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia: appunto il teatro, questo tipo di teatro, talmente immaginifico e grottesco da fare il giro e tornare saldo con i piedi ben piantati a terra, anzi sprofondati nel fango delle nostre miserie 01_DIV9570-1392x928.jpgesistenziali. Ci si commuove nel vedere “Le sedie” perché tocca le coscienze, sfiora lievi prima di infilzare, scuote fino alle viscere con quella grazia e delicatezza, con una leggerezza che sembra un vento sottile d'autunno che ci arriva alle spalle; è il flusso della vita che non riusciamo a cogliere e nemmeno a fermare né a fotografare, possiamo solo farne poesia, inanellando termini che ci sconquassano senza trovare il bandolo della matassa, fragili, zoppicanti, tentennanti esseri bipedi sempre in precario equilibrio ma con la presunzione dell'immortalità, con la fregola ossessiva dell'eternità.

La montagna di sedie che sbuca sulla destra di questo palco inclinato, in discesa quasi intento a rotolare negli abissi oscuri imperscrutabili, sembra una lingua, un vomito, una pira indiana pronta ad essere incendiata di cadaveri, una collina di conifere secche, il cumulo di sabbia dove Winnie di “Giorni Felici” rimane incastrata, ricorda la parte finale della Mole Antonelliana, è simile, con le dovute proporzioni, agli stracci della celebre Venere di Michelangelo Pistoletto. Sul fondale una finestra aperta, divelta, distrutta e delle navi che in lontananza ci evocano i pericolosi affondamenti della città lagunare per eccellenza. Ecco, potrebbe essere un “Morte a Venezia” ma spalmato tra un “Finale di Partita” e un “Ubu roi”, potrebbe essere l'isola di Alcatraz che si abbandona soltanto con i piedi in avanti (Io ne esco), potrebbero essere gli ospiti del Titanic che ballano fino all'ultima nota di un caravanserraglio destinato ad una consapevole implosione.

Tutto è sgangherato, cialtronesco, bistrattato, consumato e quell'intonaco che manca alle pareti sembra essere finito sulle facce imbiancate dei nostri, Semiramide e il Maggiore d'Alloggio. Siamo nella controra dell'Umanità, della nostra specie, del Pianeta Terra: Di Mauro parte, nei movimenti rallentati e precisi caracollanti, con una calata vocale che ricorda Peppino Prisco fino ad arrivare, in una serie di sfumature colorate prismatiche, fino a Vasco. Incespicano gobbi, tossiscono le ultime risorse in questo palazzo sventrato dai bombardamenti (siamo nei giorni dell'ennesimo scontro tra Israele e la Palestina), gabbiani cechoviani volteggiano ma il loro gracchiare sa più di uccelli saprofagi, condor in attesa di carogne, avvoltoi che hanno individuato le carcasse. Potrebbero essere due personaggi in cerca d'autore che, impolverati dall'essere stati tenuti troppo a lungo dentro ad un 14_DIV9595-1392x2088.jpgbaule di marionette, emergono ogni sera per l'ultima, replicabile, scena, mummie che rimettono in atto l'epifania della loro eclissi. La nebbia, più una foschia indefinita, che emerge sul fondo tinta da raggi solari mal(and)ati e tossici, malsani, malvagi e cancerogeni, ricorda un Purgatorio, un limbo dove i nostri due teneri fossili ondeggiano inceppandosi come dischi rotti, annoiati, incerti tra un passo e il successivo. Si portano addosso una nostalgia sbiadita e triste mista ad una malinconia seppiata e depressa che somiglia ad un rancido hangover, e in questo buco nero tutto viene triturato senza tempo, in questa clessidra senza più sabbia per seppellirli aspettando, sornioni, tanti Godot che, se arriveranno, saranno comunque invisibili. In questa mancanza di parole, di passato dimenticato, di futuro offuscato, di tempo sospeso, si intravede l'alzheimer che desertifica il panorama interiore. Sono gli ultimi uomini e si muovono in questo paesaggio lunare, pagliacci di un circo fallito e sfitto e avvizzito immersi nel vuoto desolato, inabissati, sciupati, disfatti, sgretolati, mangiucchiati, scartavetrati, grattugiati, sviliti, sporcati. In certi passaggi ci ha ricordato il nulla devastante e debordante della recente pellicola “Nomadland”, quel senso di solitudine che esalta per ampiezza 15_RR63478-Modifica-1392x2088.jpge ferisce perché ci schiaccia.

In un incastro davvero felice, Di Mauro, a tratti carmelobenesco, è Robert Smith, frontman dei Cure, è Sean Penn in “This must be the place”, la Fracassi è un mix tra Courtney Love e Cyndi Lauper, insieme potrebbero essere Nick Cave and Siouxsie Sioux. Sono negativi di fotografie sovraesposte e bruciate, "Questi fantasmi" perduti tra dolori e rimpianti che vagano e si aggirano nelle loro vecchie stanze senza pace e senza possibilità di riposo imbevute nella loro Chernobyl, nella loro personale Hiroshima, nelle polveri sottili dell'Ilva di Taranto, della Ferriera di Servola di Trieste, delle acciaierie Lucchini di Piombino, della Thyssen Krupp di Terni. Sono gli ultimi orsi polari che vanno alla deriva su un pack che si sta squagliando in mezzo all'Antartide. In definitiva che cosa sono le sedie se non un simbolo di civiltà, di calma, di ascolto, di riunirsi, di parlarsi, di confronto, di imparare? Ma se le sedie sono accatastate allora “dopo tutto il tempo che abbiamo passato a concentrarci sul progresso dell'umanità, è il momento di ritirarci”. Un gigantesco sì perché “Le sedie” di Binasco ci rendono piccoli davanti all'inspiegabile, come granelli di pulviscolo nel cosmo. Si piange proprio per l'autocommiserazione senza possibilità di salvezza.

Tommaso Chimenti 13/05/2021

TORINO - Curioso che nella stessa città, Torino, ci siano contemporaneamente due spettacoli che hanno per oggetto cardine e feticcio delle sedie, il primo addirittura nel titolo e il secondo questo “Sorelle” (prod. TPE, Triennale Milano). Sedie che, in questo caso, non aiutano a placare, a calmare, non servono per sedersi ma creano un labirinto colorato e inestricabile dove sentirsi ingabbiati, intrappolati. Pascal Rambert ha costruito uno spazio vuoto lucente e bianco, ampio, dilatato (sarà dilaniato), un’arena dove far scontrare due sorelle che mettono sul piatto antiche nostalgie, vecchie ruggini e tutto un passato fatto di accuse, risentimenti, rivisitazioni di eventi familiari, divise in fazioni, lontane anni luce, recriminazioni patite. Partono subito in quarta, le strepitose Anna Della Rosa e Sara Bertelà, fenomenali nel dare corpo e pasta, dolore e sofferenza alle parole di Rambert, e non tolgono mai il piede dall’acceleratore. I decibel sono alti e non seguono un’armonia di rincorsa, scoppio, ricarica, addolcimento, nuovo attacco. Due donne fragili che si imputano qualsiasi nefandezza, sensi di colpa a cascata nell’impossibilità di una diversità così acre, inaccettabilità amara e acida del non poter stare né insieme né vicine.Pwl8apBA.jpeg

Rimangono in diagonale senza mai toccarsi, fanno un passo verso l’altra ma subito recedono, retrocedono, come bamboline di un carillon legate a dei fili impercettibili, a degli elastici che respingono ogni loro slancio verso l’altra. L’una è per l’altra alibi e insoddisfazione e il vedersi una davanti all’altra, come in uno specchio, altera e deforma la visuale, i lineamenti, aumenta le distanze e i dissapori come guardandosi dentro le superfici deformanti dei Luna Park. Senza allegria, senza gioia, l’una è l’abisso dell’altra, il buco nero dove si perdono l’infanzia e i giochi, il magma fangoso dove si sono impantanate tanto tempo fa pur proseguendo l’esistenza apparentemente piena e soddisfacente, una è giornalista l’altra è terzomondista, tra apparenti successi e flebili appagamenti. Dentro sono rimaste le bambine irrisolte che erano, consumate dall’astio, erose dalla violenza inespressa e taciuta e frustrata e rappresa, distrutte da quella voglia di emergere, nella ricerca della perfezione come forma d’accettazione. Senza leggerezza, senza autoironia tutto diventa tremendamente pesante.

Come questo dialogo a due voci, o meglio come questi due monologhi che si vomitano addosso senza limiti, senza riserve, senza freni. Come la diga del Vajont che ha rotto gli argini e tutto ormai è irrecuperabile, come l’alluvione di Firenze che tutto trancia e porta con sé a valle, risucchiando, smembrando, riducendo in poltiglia i pochi grammi rimasti di sentimento. Si vogliono ferire con le parole, e ci riescono, provano disgusto per la sorella e non si contengono, ormai si scambiano tutti colpi sotto la cintura in questa anatomia di una famiglia ridotta all’osso. cXqdowOA.jpegNell’incapacità di abbracciarsi riescono soltanto ad azzannarsi, a sputarsi rancore e morte. Ma l’una è inevitabilmente anche parte della vita dell’altra, come tumore che cresce al proprio interno inestirpabile. Si infliggono sofferenza che è l’unico modo che hanno imparato cronicizzato di stare assieme. Sono ognuna una faccia della stessa medaglia arida accusandosi vicendevolmente delle stesse invidie, delle stesse gelosie. Scarpe e pantaloni neri, maglia bianca entrambe. Sono in chiaroscuro, sono in bianco e nero in un mondo a colori, tutte queste sedie (quaranta come gli scacchi in questo scontro che finirà in uno stallo da “Finale di Partita”) cromatiche e variopinte. Un Far West senza vincitori che lascerà due corpi a terra, svuotati, prosciugati senza più linfa. Un processo però necessario, di ripulitura, per poter, forse un giorno, andare avanti, ricominciare. Senza empatia né vicinanza, senza solidarietà né condivisione. Sull’orlo di una crisi di nervi rimescolano le carte delle loro esistenze lontano una dall’altra minacciandosi, aggredendosi, offendendosi, ansiose, iraconde, agitandosi, detestandosi.

Faticoso però reggere 1h 40’ di fossa dei leoni dove ci si grida, ci si morde senza tregua, guerriglia senza esclusione di colpi. Come un terremoto che non conosce attimo di respiro, la platea viene inondata da questo sfogo con il lanciafiamme volto ad annientarsi, a distruggersi. Un testo che fibrilla, che scardina, alto e intenso, pungente e sempre velenoso, appuntito come una grattugia che però si impantana nella lunghezza e nella scelta appiattente sonora e vocale delle due protagoniste (la loro prova rimane comunque superba, in apnea), -6qzRDDw.jpegsenza scarto, senza sottolineature proprio perché tutto è gridato con forza in uno stato quasi di insonorizzazione che, paradossalmente, non permette di cogliere sfumature e rilievi, contrasti e passaggi. Monocorde e urlato, dall’inizio alla fine, tra sciabolate da combattimento, all’ombra di questo padre e questa madre ingombranti anche se non invadenti, un odio declinato in tutte le forme possibili che, raggiunto il punto di rottura, il punto di non ritorno di una qualsiasi discussione, con freddezza diventa assuefazione e non crea più scompiglio in chi ascolta. Come iniziano a sbranarsi così terminano in una fine irrisolta che chiude ma non conclude questa lotta serrata, senza vincitori né vinti, senza perdoni, senza abbracci, senza futuro, senza speranza. Colpevoli entrambe ed entrambe portatrici di energie negative, manipolatrici si rincorrono e criticano per abbattersi e non per costruire un terreno comune di dialogo. Si vogliono lordare e sporcare in questa grande competizione cinica, contestandosi l’essenza stessa di essere appunto “Sorelle”: l’aver diviso lo stesso tetto, gli stessi genitori. Dilaniate da vertigini, sventrate in quest’odio condensato che non può chiamarsi famiglia. Senz'Amore.

Tommaso Chimenti

TORINO – La formula della serialità a teatro non è cosa nuova ma rinverdisce il format dello sceneggiato in bianco e nero prima che fosse sorpassato dalle soap opera, poi dalle fiction e, in tempi recenti, dalla serie tv. Proprio per il suo incedere progressivo, con ogni spettacolo a sé stante e indipendente ma anche globale se visto nell'ottica più ampia delle puntate precedenti e di quelle successive, una serie teatrale incuriosisce da una parte, soprattutto i giovani così tanto abituati a Netflix e Sky e Amazon Prime, e dall'altra fidelizza il pubblico attorno ad una storia, ad un cast, ad un progetto. L'ultima volta che avevamo assistito ad un'operazione simile, riguardo alla serialità, era stato sempre a Torino con “I tre moschettieri” al Teatro Astra, grande produzione del Tpe dell'allora direttore Beppe Navello con ogni piece affidata ad un regista differente. Poche stagioni prima c'era stato a Roma anche l'esperimento “Bizzarra” di Manuela Cherubini da Spregelburd e, ancora Torino protagonista, con “6Bianca” per la regia di Serena Sinigaglia a cura della Scuola Holden. Una serie a teatro affascina, attira, crea una comunità di spettatori attorno ad un'idea, attorno ad un'attesa.104A5359 copia.jpg

Ultima in ordine di tempo, ma siamo sicuri che la tendenza riprenderà con forza, è questo “Radio International” che ha inaugurato, per tutto il mese di ottobre, tre repliche a puntata, la stagione “Re-play” di Fertili Terreni Teatro, nel magico spazio di San Pietro in Vincoli, gestita da ACTI Teatri Indipendenti, CUBO Teatro, Tedacà e Il Mulino di Amleto. Cinque le puntate (ma aspettiamo tutti gli episodi in un'unica giornata) che hanno immerso il pubblico nel mondo della radio, del giornalismo d'inchiesta, nell'informazione senza padroni né padrini, nelle fake news che sempre più popolano i nostri schermi, in un futuro distopico dove la democrazia è messa in forte discussione e dove le poche fonti di notizie indipendenti dai poteri forti rischiano di essere silenziate, svendute, azzittite, comprate. On Air: sei in onda.

Il progetto di Beppe Rosso (sua anche la regia) e Hamid Ziarati ci conduce tra microfoni e ovatta rossa alle pareti per attutire e attenuare voci e musica, cabine di registrazione in plexiglas e mixer, fonici e una redazione battagliera che vuole contrastare i mali del mondo contemporaneo come veri Robin Hood, che si spende in prima persona, sempre dalla parte degli ultimi. Recentemente la radio è tornata ad essere un elemento che ha fatto da sfondo ad alcune delle serie tv più seguite: parliamo dell'argentina “Felice o quasi” su Netflix e l'italiana “Passeggeri notturni” su Raiplay. Ci sono venuti in mente anche gli intramontabili “Good morning, Vietnam” o “I Guerrieri della Notte” con la bocca rossa che sembra mangiarsi il microfono nel raccontare le imprese notturne dei nostri Warriors. Per non parlare di “Radio Freccia” di Ligabue o di Radio Aut di Peppino Impastato. Sarà che in tempi di lockdown c'è stata una riscoperta della radio intesa come quella ritualità Radio International_ph E. Basile_104A5347.jpgdi voce lontana e soffice che sembra parlarci all'orecchio, soffusa e vicina, amica da confessione, a toccarci intimamente pensieri e incubi, sogni e speranze: la radio lascia spazio all'immaginazione molto più di tv e cinema.

In questa redazione radiofonica dove si fa controinformazione nelle puntate precedenti è successo di tutto: hanno seguito il caso di una bambina siriana che voleva passare la frontiera tra Italia e Francia, un ragazzo mediorientale ha impugnato una pistola minacciandoli, adesso il futuro è incerto per tutti, nubi nere all'orizzonte, scenari pessimistici. La leggerezza, affidata principalmente al personaggio di Luca - Francesco Gargiulo, smemorato e svampito che deve assumere medicine altrimenti ha enormi vuoti mnemonici (quasi come Dory di “Nemo”), si mischia al dramma nel cercare fonti attendibili sul campo e informatori che possano dare ragguagli sulle condizioni della bambina che porta con sé documenti segreti. Sono tutti molto pasionari: Lorenzo Bartoli è Roberto un po' il Jack Folla di turno che inneggia e colpisce, che accusa e sottolinea, cerca mobilitazioni e protesta contro il Governo, mentre Grazia – Barbara Mazzi è guerrigliera e arcigna, sempre pronta alla pugna e alla lotta contro le ingiustizie. L'Italia ha chiuso le frontiere in entrata e in uscita e indirà un referendum popolare per chiedere ai propri cittadini se restare o uscire dall'Unione Europea, in una mossa simil Brexit. Dalla regia si susseguono “Because the night” di Patti Smith come i Police o gli Spandau Ballet, mix che dà energia e scalda, fomenta e spinge.Radio International_ph E.Basile_104A5345.jpg

La drammaturgia semplifica e comprime, nell'impasto e nell'andamento tra il serio e il faceto, concetti pesanti triturando complottismi vari e la deriva dei social network in una sorta di riassunto compattato e facile, così come il ruolo dell'Europa che “deve fermare le guerre” per poi, dall'altro lato, essere sgridata, ancora una volta di colonialismo, e tacciata di voler esportare la democrazia. Come nel paragonare gli italiani che andavano a lavorare in Francia o negli Stati Uniti a chi prende una barca, pagando uno scafista illegalmente, viene soccorso da ONG straniereRadio International_ph. E.Basile_104A5349.jpg battenti bandiere di chissà dove e scaricati sulle coste italiane ai quali dobbiamo dare prima assistenza, poi casa, istruzione, sanità, un lavoro e pagare cooperative che se ne curino: le due situazioni non sono neanche minimamente paragonabili. L'Italia poi paragonata all'Ungheria sembra il peggior incubo noir, adesso che poi non c'è più il cattivo per eccellenza Salvini ma i buoni per antonomasia del Pd. Speriamo che i tristi presagi politici messi al centro del dibattito e nell'agorà del discorso teatrale si rivelino infondati. Comunque la soluzione proposta è soltanto una: l'Europa deve sentirsi in colpa su tutti i fronti e deve soltanto accogliere silente chiunque arrivi, con qualunque mezzo e senza i documenti in regola. Tesi esposte ed elargite leggermente naif. “Radio International” resta un altro modo di vedere e godere il teatro. Attendiamo la maratona delle cinque parti: ormai vogliamo vedere come va a finire.

Tommaso Chimenti 23/10/2020

Ph: Emanuele Basile

TORINO – Nel 2018 le donne vittime di femminicidio in Italia sono state 142 (dati Eures). Dal 2000 ad oggi, in questi venti anni, oltre 3200: un massacro, una strage, un'ecatombe, un disastro, un martirio, un attentato. Non va certo meglio in Europa: nel 2016 l'Italia registrava un tasso di omicidi con donne vittime pari a 0.5 ogni 100.000 persone. Uno dei livelli più bassi, e non è che ci sia da festeggiare, un amaro primato: la GB arrivava a 0.9, la Francia a 1, la Germania a 1.1. Non c'è da gioire. La cronaca, ogni giorno, ci riporta alla cruda realtà, come uno schiaffo, da Nord a Sud, tocca tutti i ceti sociali. E' per questo che il tema, spinoso e scivoloso (si può cadere nel banale come nel cronachistico) va affrontato con delicatezza. In “Scene di violenza coniugale” (prod. Teatro Stabile di Torino, Teatro di Dioniso, Pav) molte inesattezze, dimenticanze, superficialità hanno intaccato la visione, indebolito l'argomento, non centrato il focus. Mancanze a partire dal testo di Gerard Watkins (traduzione di Monica Capuani) attore e drammaturgo inglese naturalizzato francese. Tanti i dubbi e le incertezze che abbiamo incontrato. A partire dal titolo: quel “coniugale” 3_SCENE_Malanchino_Troisi_Serra_Corradino_Cipolletta_ph_Manuela_Giusto-800x540.jpgvisto che le due coppie in questione, una di giovani scalcinati (ventenni?), l'altra di adulti (quarantenni?) non sono sposate. Scricchiolamenti, fraintendimenti.

Siamo a pochi passi dal Teatro Carignano, aspettiamo fuori da un elegante portone di un elegante palazzo nel centro elegante di Torino: vengono a prenderci come invitati ad un ballo, ad una festa, ad un ricevimento. La sala (solo per quaranta spettatori alla volta) sembra essere fuori rotta rispetto alle parole del testo che ci porta nel 14esimo arrondissement (a proposito, la traduzione poteva cercare una trasposizione in una metropoli non meglio identificata del nostro Paese, dire “siamo nel quattordicesimo” confonde, allontana), una sala formale di stucchi dorati, specchi, Scene-di-violenza-coniugale-modus-verona.pngcaminetti e parquet: sembra di stare alla corte di Luigi XIV e non in un appartamento e per giunta di periferia. Già la location spiazza, destabilizza, non trova appigli né corrispondenze, lascia sospesi, interdetti.

Non abbiamo neanche capito perché la regista (Elena Serra) ci accompagni uno ad uno a dei posti da lei assegnati (facendosi personaggio), cercando il migliore per ogni persona del pubblico, come se questo avesse un fine cosa che poi, con lo scorrimento della piece, notiamo e comprendiamo che non ne ha alcuno. Perché questa pantomima, che necessariamente avrebbe dovuto implicare una conseguenza un effetto di tale scelta? Misteri.

I quattro attori (Roberto Corradino esperto, Clio Cipolletta interessante nel suo fare ansiogeno, Aron Tewelde combattivo, Annamaria Troisi accurata, bravi ed impegnati ma dai decibel troppo forzati, sempre sopra le righe, dalla recitazione eccessiva, affettata ed esagerata se non proprio esasperata anche quando non servirebbe) dialogano cercando una sponda nel pubblico, raccontando alla platea, occhi negli occhi, ed anche questo fa uscire dal pathos del momento, toglie dall'immersione dello spettatore dentro la storia che si sta sviluppando sul palco: appare una recita, qualcosa che sa di finzione, di replica, l'hic e il nunc si perdono tra sguardi complici, alla ricerca di una relazione visiva che fa perdere potenza alle parole dette; in qualche modo “ci si crede” meno, si esce dal patto sottaciuto e intimo tra attori e pubblico. SCENEDIVIOLENZA1.jpgInteressante è il ping pong emotivo tra le due coppie che, nella stessa stanza, con entrate ed uscite angoscianti (il crash in audio tra una scena e l'altra è didascalico), si intescambiano vivendo situazioni simili in ambiti spaziali e temporali differenti.

Altro misunderstanding è l'incrocio tra le due coppie, la malandata e scalcagnata giovane e la borghese matura, che visitano lo stesso appartamento, gigantesco ma periferico appunto, incontrandosi e proponendo entrambi, quindi punto di scontro e frizione tra le due fazioni, la documentazione per accaparrarselo. Ulteriore cortocircuito è il fatto che la casa da affittare possa essere motivo di contesa sia di uno spacciatore-malavitoso di borgata, vestito malandato con una tuta da ginnastica, che di un fotografo-imprenditore, si cambia più volte d'abito con camicie alla moda, elemento che ci fa capire che ha disponibilità economiche. Ma non è tutto: le due coppie si incontrano nell'unione delle ascisse di tempo e spazio, nello stesso luogo fisico, con la regista che, dopo aver accompagnato gli spettatori alla loro seduta diventa agente immobiliare, senza che questo momento, che appare centrale e cardine per lo sviluppo della narrazione successiva, abbia alcuna conseguenza, non muti assolutamente alcuna vicenda o azione nella seconda parte. Ogni oggetto, ogni azione proposta in ogni quadro dovrebbe avere, a cascata, delle ripercussioni all'interno della scena stessa altrimenti sono inutili e fuorviano lo spettatore verso elementi futili e superflui. Ed ancora un perché: perché la nostra Caronte o Virgilio, la regista che diviene anche agente immobiliare, si presenta con una piccola pancia da donna incinta di qualche mese, senza che questo elemento, anch'esso visivamente molto potente, perché implica altre riflessioni, porti alcun stravolgimento, nessuna idea, nessun risvolto? Scene messe lì, che se ne vanno come sono arrivate, come parentesi senza alcun nesso o senso pregnante.

La SCENEDIVIOLENZA2.jpgquestione più antipatica invece deriva proprio dalla drammaturgia comunque caotica e confusionaria: sembra che Watkins non abbia molto rispetto per la figura femminile da una parte e dall'altra quasi giustifichi certi atteggiamenti deviati maschili. Tratteggia la donna della coppia più esperta come una instabile, con due figli da altrettanti uomini (bambini che non vivono sotto il suo stesso tetto), sempre alterata e fuori misura mentre, all'interno della coppia più giovane, disegna il ragazzo come un “drogato” quindi come se lo scusasse e lo discolpasse delle sue azioni perché, appunto, alterato dall'uso di sostanze e psicotico: la violenza diventa posticcia, manierata.

Questi sono casi limite, certamente non riesce a fotografare la realtà, la “normalità” delle violenze domestiche subite da migliaia di donne quotidianamente. Tutto questo fino alla confessione finale, al messaggio conclusivo delle due donne (vengono fuori altri elementi come un “ferro da calza infilato in un orecchio” e degli “scarafaggi”: cosa c'entra buttare sul piatto altri cip lanciati senza analisi?) che sa molto di ramanzina, di rimprovero, di sgridata. Fintamente emotivo, tanto che risulta freddo e asettico. E' la deriva del teatro “civile”: non basta parlare di argomenti toccanti per riuscire a toccare gli spettatori e le loro menti, non basta parlare di femminicidio per fare un buon servizio alla società; a teatro ci vuole altro.

Tommaso Chimenti 22/01/2020

Foto: Manuela Giusto e Ruggero Lerda

TORINO – E con questa sono ventisei le edizioni del “Festival Incanti” (3-10 ottobre) dislocato tra Torino, Grugliasco e Rivoli con la centralità della Casa del Teatro ma anche, sempre nel capoluogo piemontese, il magnifico Circolo dei Lettori, il Teatro Astra e il Cinema Massimo. Il direttore Alberto Jona ha stilato un cartellone (supportato e sostenuto da Compagnia di San Paolo) con ospitalità da Perù, Canada, Spagna, Svizzera, Francia e Italia per un giro del mondo attorno e dentro al teatro di figura, piccole e grandi scoperte capaci di meravigliare, far sobbalzare o semplicemente sognare: non è poco.

Grande colpo per “Incanti” quest'anno è stato quello di essere riusciti a portare a Torino il memorabile gruppo svizzero dei Mummenschanz, storica compagnia mummen.jpg(riconosciuta a livello globale al pari di Cirque du Soleil, Stomp o Momix) da cinquant'anni in giro per il mondo con le loro creazioni, compreso Broadway. In un Teatro Astra gremito e traboccante (la rassegna si è aperta nel teatro del TPE diretto da Valter Malosti) si è sciolta e diffusa la loro ingenua e colorata vitalità con “You & Me”, vero inno fanciullesco, leggero e trasognante. Quasi due ore, ma godibilissime e scorrevoli, pur senza una parola né una musica, per un impianto gigantesco dalle mani bianche del mimo, su uno sfondo nero perfetto, che fanno il “muro”, si danno il cinque, si stringono in segno di saluto, indicano il pubblico, vagamente e gentilmente minacciose. Nascono, crescono e proliferano creature curiose e fuori dall'ordinario in questo universo che ribolle sul palco: grandi vermi verdi con la faccia da pesce e pavoni, farfalle e fantasmi, spermatozoi e murene, esseri marini stranissimi e meduse che lottano, giocando, tra cromatismi sfavillanti e spumeggianti. Una gioia per gli occhi. Un habitat primordiale, un terreno sommerso, forse primitivo e ancestrale, prima, molto prima della comparsa dell'uomo e di qualsiasi genere animale che conosciamo oggi. Orecchie blu Mummenschanz.jpggiganti, anemoni di mare e cavallucci marini tenerissimi e trasparenti, perfetti nella loro dolcezza e vulnerabilità, o pesci luminosi che vivono nelle profondità degli abissi o nella Fossa delle Marianne. Ma sono le meduse le vere attrici principali, sinuose, melliflue, seducenti come sirene, volanti, caracollanti in questa loro danza continua di tentacoli come braccia della Dea Kali. E ancora uova e rane e umanoidi stilizzati e segmentati che ci hanno ricordato la mascotte del campionato del mondo di calcio di Italia '90. Teste che diventano violini, volti di gong o di triangolo, che si trasformano in formiche o nell'urlo di Munch, tubi che sono lombrichi, mostri gonfiabili e bocche che ingoiano rifiuti. L'unica regola è che non ci sono regole, non cercare spiegazioni, segui soltanto il fluire, lasciati trasportare nella corrente.

Mettere i sacchi di sabbia vicino alla finestra come diceva Lucio Dalla ne “L'Anno che verrà” non servirà. Il gruppo pisano rimane travolgente, sempre elettrico ed eclettico, riesce sempre a stupire, coerenti all'interno di una loro poetica riconoscibile e congrua ma sempre spiazzanti, proseguendo nel loro percorso brillante, alto e popolare, insistendo sull'altra loro vena artistica, quella del disegno, del fumetto, del segnoMoschettieri 3.jpg sulla carta. I loro “I quattro moschettieri in America” è un inno al cartoon, alle storie lette da ragazzi, che poi sono quelle che costruiscono un immaginario e ci fanno sognare, alle figure con le quali giocavamo, non supereroi ma terreni, fallimentari, umani. I Sacchi di Sabbia miscelano i moschettieri di Dumas con la New York in bianco e nero del cinema del dopoguerra, cappa e spada e pistole, fioretto e le magnum dei mafiosi d'Oltreoceano con cognomi italiani. E l'incrocio e l'incontro sono fertili perché le risate e i colpi di scena appaiono come pop up (meravigliose opere d'arte) che si aprono dai libroni posti su un tavolino centrale. C'è il canto in rima, altra peculiarità e scelta del leader Giovanni Guerrieri, moschettieri in america-2.jpgc'è un'emigrazione al contrario, dall'Europa negli Stati Uniti, c'è la disoccupazione e la disperazione con la conseguente presa di posizione di farla finita decorosamente: “Spesso ci scambiano con i Fratelli Karamazov”. Personaggi involontariamente invincibili. Appare anche una battuta tratta da “Chi ha incastrato Roger Rabbit”, altro caposaldo che mischiava attori in carne ed ossa e cartoni animati: “Hai una pistola lì sotto o sei soltanto contento di vedermi?”. Un road movie pieno di inseguimenti, di disegni mirabolanti (bel tratto di Guido Bartoli), di fumetti eccitanti, una graphic novel di fuggiaschi e gangster senza scrupoli, dove per una volta vincono i più scalcinati e cialtroneschi: per bambini di tutte le età.

Sia nel 2017 che questa estate siamo stati invitati e abbiamo seguito il Festival Biennale della Marionetta di Saguenay, il Fiams in Canada, su un fiordo in Quebec. Proprio nell'ultima edizione abbiamo avuto la fortuna di assistere, della compagnia La tortue noire che organizza l'impegnativa rassegna nel Canada francofono, al monumentale “Ogre”. Se l'Orco del titolo era un pupazzone di quattro metri e la scena aveva grandoeuvre-adam.jpgnecessità di spazio per aprirsi ed esprimersi, questo “Le grand Oeuvre” si presenta in tutta la sua ristrettezza e piccolezza. Uno spettacolo per pochi spettatori, tutti a contatto con questa struttura magica, affatto semplice, dove tutto si trasforma, prende vita, si anima. Un teatro da camera che ci porta dentro gli esperimenti e le alchimie di un monaco incappucciato che già ci conduce all'interno dei misteri, delle penombre e dei chiaroscuri del “Nome della Rosa”. Una postazione dove il frate (Martin Gagnon, somiglia a Kevin Spacey) mischia, sposta, confabula, aggiunge pozioni e intrugli, crea, cupo e fosco e losco, in una serie di rituali esoterici e fumi e nebbie. Due sono i “palchi” a disposizione dentro questa minuta cabina: lo spazio sul tavolo davanti al religioso e il mondo dei suoi pensieri che si manifestano e solidificano e diventano reali e tangibili e prendono vita Le grand ouevre.jpgsulla sua testa calva, rasata come il Mondo, sferica come la Terra, rotonda come il nostro Pianeta. Lì le idee prendono corpo. L'alchimista è governato da due mini droni, il Bene e il Male che si scontrano e cozzano infondendo le loro volontà e verità alle azioni dell'ecclesiastico. Nascono tanti piccoli oggetti (il manovratore invisibile alle sue spalle è il regista Dany Lefrancois, un lavoro millimetrico e precisissimo il suo), quasi una creazione del mondo in sette giorni. L'alchimista è Dio che gioca sia con gli uomini che a dadi, sul suo tavolo da esperimenti e prove: ecco gli alberi, ecco una coppia, presumibilmente una sorta di Adamo ed Eva, e poi ancora alambicchi e bilancini, centrifughe e spume, ricette e ingredienti segreti e fatati e fatali, incantati e prodigiosi. Sulla sua testa spuntano missili e lampi di guerra fino ad una croce e ad un inquietante umanoide: la storia, complessa e articolata, di Dio e dell'uomo in mezz'ora, vitale ed esplosiva, colma di effetti artigianali e pirotecnici: magico.

Tommaso Chimenti 07/10/2019

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