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PADOVA – In questo anno dove ci dobbiamo e dovremmo sorbire Dante Alighieri in tutte le salse e le posizioni, in tutte le versioni e le traslazioni (è giusto festeggiare una morte?), l'operazione del Teatro Stabile del Veneto è tra quelle che abbiamo accolto con più calore per l'originalità, la sperimentazione, l'audacia. Tre grandi giovani drammaturghi nostrani, un regista di indubbia fama e abilità (Fabrizio Arcuri), i neo diplomati dello Stabile per un approccio diverso alla Divina Commedia, declinata al contemporaneo. I tre autori, Fausto Paravidino per l'Inferno, Letizia Russo per il Purgatorio e Fabrizio Sinisi per il Paradiso, hanno anche tenuto dei laboratori di scrittura nel corso dell'anno ad aspiranti drammaturghi. Un grande lavoro composito che ha 6_TritticoDantescoArcuri27042021-0623.jpgportato alla realizzazione di queste tre piece autonome e indipendenti ma con il fil rouge ben riconoscibile di passioni, vizi, tormenti, sofferenze, dolori, salvezze tutte umane. In questo “Trittico Dantesco” (fortemente voluto dall'ex direttore Massimo Ongaro) tutto è vicino a noi e terreno, riconoscibile: non ci saranno Caronte né Cerbero, né Paolo e Francesca né Virgilio ma tutto prenderà forma esaltandosi ai nostri giorni. Un particolare è importante sottolineare; nei tre titoli c'è un piccolo dettaglio che qui diventa fondamentale. Infatti l'Inferno è diventato “Un Inferno” e così via per gli altri due step, facendo così luce su quell'articolo indeterminativo che stavolta diventa determinante per raccontare appunto un inferno tra i tanti sulla terra possibili, un purgatorio tra i tanti passaggi di redenzione e perdono, un paradiso tra tutti quelli che si sarebbero potuti affrontare. Altra peculiarità è quella che nel primo Dante è una donna, nel secondo non c'è proprio mentre nel terzo torna ad essere un uomo. Potenza dei tempi.

Partendo 27_TritticoDantescoArcuri27042021-4444.jpgdall'inizio del progettone (tutto svolto all'interno del Teatro delle Maddalene, forse non il miglior spazio possibile) avevamo molte aspettative sul testo di Paravidino (del quale abbiamo sempre ammirato la lucidità, l'ironia e la profondità) è risultato invece, purtroppo, il più “povero” e deludente, stereotipato e prevedibile, caotico dei tre proposti. Una donna, che più che Dante potrebbe essere Alice che cade nel buco, non delle Meraviglie ma delle disgrazie, attorniata da monaci usciti da “Il Nome della Rosa” che sono un concentrato di vizi e malvagità tra violenze sessuali, aggressioni, infamità. Ma è proprio la drammaturgia che ci ha lasciato sospesi, sorpresi e leggermente attoniti e basiti; ovviamente siamo all'Inferno (un Inferno terreno, però) e il linguaggio non può che essere volgare, ma il testo fa leva su dettagli da pellicola trash che niente aggiungono e anzi chiudono la visuale invece che allargare il panorama della riflessione. Troppi attori (in totale una dozzina, due musicisti e dieci performer, dei quali nessuno riesce ad emergere e a farsi ricordare: Emma Abdelkerim, Elena Antonello, Riccardo Cardelli, Federica 55_TritticoDantescoArcuri27042021-4768.jpgFresco, Michele Guidi, Imma Quinterno, Tommaso Russi, Andrea Sadocco, Elisa Scatigno, Alberto Vecchiato) in un continuo di situazioni rocambolesche, in uno spazio angusto e chiuso troppo ristretto per una dozzina di corpi che cercano un posto al sole, continuamente a sovrastarsi. Si sente una grande confusione d'intenti e il pezzo sbanda pericolosamente perdendosi tra matti e filastrocche dalle rime popolari, Gesù improvvisati, cani rabbiosi e amanti, il tutto però centrifugato e ansiogeno con la nostra Danta poco credibile e lupi e zombie e scheletri, urla continue di anime moleste e disturbatrici. Rimaniamo, come le figure sul palco, impantanati e intrappolati nelle sabbie mobili disseminate dalle parole che vengono emesse, perché sul piatto della frittata arriveranno in sequenza mixata un sentore di migranti e la pedofilia, la disoccupazione e i militari su un campo di battaglia, famiglie separate e dissolte, il tutto triturato e mantecato assieme ad una critica al consumismo, i manager e la pubblicità. Ne esce fuori un drammone-favoletta, raccontata male, che infatti alla fine era tutto un brutto sogno. Allontana e non riesce ad affascinare né a coinvolgere. Non si è colto proprio il senso né l'odore, non si è percepito l'essenza del progetto. L'Anno Dantesco produce anche mostri (unico dei tre pezzi alla cui chiusura Arcuri non è salito sul palco a prendere gli applausi).

Si06_UnPurgatorioFabrizioArcuri_fotoSerenaPea_DSC8222.jpg torna a respirare con il secondo passaggio dantesco, “Un Purgatorio” a cura di Letizia Russo che ha messo sul palco due attrici, una parlante l'altra silente per la maggior parte, e due piccoli innesti finali che però danno senso al tutto. Praticamente un monologo dentro, attorno, all'interno di questa macchina, una vecchia Alfa che ci ha riportato subito con la mente ad Ostia alla fine tragica di PPP. Abbiamo visto auto in scena in “Lolita” di Ronconi così come nel “Rigoletto” al Circo Massimo dello scorso anno, ne “La vita nuova” di Romeo Castellucci e anche ne “Il serpente” di Malerba trattato dal Teatro Scientifico o grazie allo stesso Arcuri che piazzò in “Fatzer Fragment” una carcassa distrutta caduta dall'alto. Lo 11_UnPurgatorioFabrizioArcuri_fotoSerenaPea_DSC8287.jpgspazio raccolto stavolta è giusto e armonico, gli interpreti pochi e concentrati, l'auto risolve molti problemi di movimenti e fa da canalizzatore degli sguardi. Il lampione (il lume della ragione, acceso ma fioco) impiantato nella scena ci ha ricordato invece il “Scena da Romeo e Giulietta” di Federico Tiezzi che costruì una strada con tanto di guardrail e asfalto. Il dialogo è sottile, leggero, onirico; siamo in una terra di mezzo, nebbiosa, coperta di una foschia solida e spessa che ammanta e nasconde, che rende tutto opaco e trasognante. Anche il dialogo scivola nel metafisico tra reale e immaginario con slanci poetici. Una domanda ci siamo fatti: perché microfonare gli attori che tutto diventa ovattato?

Le due ragazze (Emma Abdelkerim, Federica Fresco) sono sospese in questo limbo, in questo passaggio tra la carne e l'oltre ed è delicato il loro incontro-scontro di unione, vicinanza e fratellanza. Ci viene alla memoria Grace Kelly e il suo incidente a Montecarlo. Il testo ci porta dentro una dimensione di case bombardate e soldati che ci porta nei Balcani, quella stessa desolazione, apatia, mancanza di prospettive e di un futuro tangibile. Rastrellamenti, esecuzioni, cecchini. Una parla, l'altra la interroga con i suoi mutismi, il respiro appanna i vetri e la suspense diventa concreta tra la prima che “non vuole liberarla”, lasciarla andare, evaporare, e la seconda che la incalza. “Come se salvarsi fosse una colpa” le intima la prima che ha accettato senza ribellarsi, si è nascosta per sopravvivere, mentre la seconda ha cercato la fine, non ha voluto piegarsi al nemico, all'invasore. Nuovi Partigiani e sentore di “The Others”. Atmosfera da “Una pura coincidenza”. Passano sempre per la stessa strada tortuosa e vedono sempre 37_UnPurgatorioFabrizioArcuri_fotoSerenaPea_DSC1273.jpgla stessa immagine, lo stesso scenario, il medesimo atroce panorama come in “The blair witch project”. Tutto sembra ripetersi senza soluzione di continuità, anime che cercano un pertugio per finalmente librarsi. Il finale è uno schiaffo gelido, è amarissimo e gli sciacalli (Elena Antonello, Michele Guidi) che depredano i morti ci riportano con i piedi per terra, nello strazio, nel fango, nell'oblio, nello schifo di una “Still Life” da immortalare.

Se Antonio Latella è il Re del pop teatrale, certamente Arcuri è il Principe e il suo talento, gusto raffinato e ricerca del dettaglio, emerge con 1_TritticoDantescoArcuri20042021-3839fotoSerenaPea.jpgforza in questo conclusivo “Un Paradiso” di Fabrizio Sinisi, una scrittura che sembra a compartimenti stagni ma che poi si ricollega, quadri e scene criptici che trovano un senso e un compimento nel suo svolgimento e andamento. Un atto unico molto lungo (2h 30') pieno, denso, poetico, celestiale immerso in un ovvio bianco latteo, una luce abbacinante in un Teatro delle Maddalene finalmente aperto e ampio dove la scena può respirare (al contrario di quanto successo con “Un Inferno” claustrofobico). In questo rettangolo candido scaffali laterali fanno mostra degli ultimi retaggi d'oggettistica, feticci del nostro mondo che fu, messi in archivio, in teche, in bacheca come trofei o rimasugli, come reperti da catalogare, da conservare: vecchi televisori, una colonna antica, un'opera di Banksy, un grammofono, una bomba, un quadro di Pollock, un violino, la testa della Statua della Libertà. L'aria è quella asettica di un ospedale e infatti entrano dottori e barelle, infermiere e respiratori alternate a tute glitterate mentre il nostro narratore-Dante è in total black 8_DivinaCommediaArcuri20042021-9911.jpge incappucciato (costumi di Lauretta Salvagnin). Ancora una volta la musica è dal vivo ma qui è molto amalgamata, è un tutt'uno inscindibile con i movimenti attoriali, non è soltanto puro accompagnamento, le note cambiano il climax, spostano l'attenzione, alimentano, premono, spingono. In questo caravanserraglio dalle sorprese infinite entrano aviatori e giocolieri circensi, cheerleader e militari.

E' una pièce “europea”, potremmo vederla a Berlino o a Bruxelles, ci ha ricordato qualcosa delle messinscene di Jan Lauwers (la pienezza) 27_TritticoDantescoArcuri22042021-0213.jpgo di Jan Fabre (la pulizia). Appare anche un suonatore di sega e i suoi riverberi, simili al canto delle balene, ovattano questo mondo rarefatto, questa bolla sospesa eterea ed eterna. Si ha come la sensazione che potrebbe durare all'infinito o interrompersi improvvisamente vista la sua ciclicità. Arcuri ha dato il meglio di sé: pensando al percorso “Un Inferno”, “Un Purgatorio”, “Un Paradiso”, qui è esploso il viaggio supportato da una drammaturgia infarcita di momenti altissimi, di insegnamenti come di parabole, di frasi da appuntarsi. Ecco il primo uomo sulla Luna con bandiera americana, un portantino d'albergo in stile “Grand Budapest Hotel”. I giovani attori molto più coinvolti e partecipi degli altri step (i più espressivi e sicuri: Alberto Vecchiato, Tommaso Russi, Imma Quinterno, Michele Guidi, 36_TritticoDantescoArcuri22042021-0320.jpgElena Antonello). Qui c'erano linfa e spunti, materia da manipolare, fuoco da domare. Emozionante il teatro in miniatura dove all'interno i suoi personaggi da presepe prendono vita così come la sagoma di Carlo Giuliani a terra, stilizzata e corredata da un lampante estintore. Si affaccia il dipinto Quarto Stato, le immagini dell'11 settembre, la Regina Vittoria (la parte più ironica) che prova “orrore” per tutto e per tutti, l'hip hop collettivo (potente e cantabile), una ragazza nuda in stile Janis Joplin. “Un Paradiso” tutto da vivere, da sentire, da sognare, la degna conclusione di questo progetto durato, per Arcuri e i quindici in scena, cinque mesi. Un brivido vigoroso.

Tommaso Chimenti 24/05/2021

Foto di Serena Pea

VENEZIA – Non è morte a Venezia ma aleggia un odore di morte in laguna che fa spavento, terrore, paura. Mancano i giapponesi che scattano compulsivi fotografie, sono rimasti soltanto i piccioni imperterriti senza più briciole da beccare. Non c'è più neanche l'acqua alta atterrata dal Mose che anche senza l'accento finale fa aprire le onde spugnose e marroni. Lugubre il profumo rancido che sale, ti guardi intorno e sei solo. Finalmente e purtroppo. Manca la vita, rimangono le case, spesso disabitate che aspettano nuovi turisti, i mattoni colano pioggia che pare che piangano, le piazze deserte, panchine vuote senza anziani, la malinconia, la disperazione di avere a disposizione un orizzonte visivo libero e non saper che farci. Ti senti sperduto e solo, i vicoletti angusti, bui, le ombre che si ingigantiscono al passaggio, un senso di sconfitta che striscia e serpeggia infido s'intrufola tra i pensieri e fa sbagliar rotta. Tutte le calli diventano simili senza il vociare stupito, senza il codazzo da marcia che ti indica i punti cardinali da raggiungere o superare, Piazza Roma, San Marco, Rialto. Tutto azzerato, appiattito, azzoppato. Gondole a riposo, barchette coperte, tutto è fermo, statico. Sembra di muoversi all'interno di un quadro dove tutto sta ordinato in un proprio caos del quale non capisci il disegno, la fine ultima, il destino. Se ti fermi a pensare sei risucchiato e tutto sembra scartavetrato, esposto, scrostato. Senza pelle, gli organi al vento.BackstageIgemelliVeneziani20112020-2813.jpg

E' la stessa sensazione che ti lascia, acre e pungente, la visione de “I due gemelli veneziani” (produzione Teatro Stabile del Veneto, TPE - Teatro Piemonte Europa, Teatro Metastasio di Prato) passati sotto il torchio e la pialla di Valter Malosti (al suo primo avvicinamento goldoniano) che, con la sua cifra chiara e riconoscibile, ha smontato e rimesso in piedi una macchineria spesso mostrata soltanto nella sua accezione brillante e comica e che qui, invece, fortunatamente sorprende con un noir-thriller, spingendo sui chiaroscuri, forzando sulla pece interiore, giocando macabro, forgiando il testo e piegando i personaggi verso un intenso e cupo scandaglio dell'anima. Adattato insieme ad Angela Demattè, il plot, fatto di misunderstanding e scambi di persona colorati dalla Commedia dell'Arte, prende corpo e si trasforma in dramma, nella tragedia della vita che trasfigura se stessa, trancia, taglia, spezza, toglie gli orpelli agli uomini lasciandoli nudi davanti alle proprie manchevolezze, scelleratezze, ineffabili debolezze sordide.

Malosti 31F3cv0w.jpegha il pregio, tra i tanti, sempre di costruire un cast ottimamente equilibrato come potenzialità ed espressività (anche nei ruoli comprimari, tutti estremamente validi i vari Alessandro Bressanello, il piglio di Anna Gamba, Andrea Bellacicco, il furore drammatico di Irene Petris, Vittorio Camarota, Valerio Mazzucato, l'energia di Camilla Nigro), non trascurando dettagli, anzi esaltando la cornice che puntella e fa scintillare nuovamente azioni e protagonisti. Un pool d'attori che alimentano l'un l'altro la scena illuminando il cono di buio caravaggesco dentro questo percorso esistenziale fatto di consapevolezze ritrovate e perdita d'innocenza. Alla squadra amalgamata e affiatata sul palco si aggiunge un altro personaggio dall'eguale virtù, dignità e rispetto, il suono (a cura di G.U.P. Alcaro) che con il regista torinese non si può mai definire semplicemente “tappeto sonoro” né basicamente accompagnamento musicale né tanto meno rumori di fondo. La musica qui preme, s'agita, cresce, pulsa, dà vita, risuona, aumenta, scivola ma non è mai secondaria, mai cedevole, mai in secondo piano. E' proprio la sonorità inquietante, che non abbandona mai l'azione, assieme alle luci (di Nicola Bovey), o al suo misurato uso centellinato, a creare un'armonia frastagliata di sentimenti sensoriali come nave che ondeggia in attesa della secca che spezzi le vele. Perché nell'aria si annusa l'imminente calamità, la catastrofe che sta per travolgere ogni pagliuzza, il disastro che strapazza sogni e aspettative, la disgrazia che ammanta i gesti impulsivi di uomini piccoli, la sciagura che si respira solida, la rovina che potresti delinearne i confini, che puoi vederla lontano avvicinarsi come un transatlantico traboccante di oblò che affiora in San Marco.

“I due gemelli veneziani” sarebbe dovuto andare in scena proprio in questi giorni di dicembre 2020 e solo la lungimiranza, e apertura e respiro, del Teatro Stabile del Veneto ha fvKAvINQ.jpegpermesso e concesso di assistere alle prove, una boccata d'ossigeno, un importante segnale fresco portatore di futuro. Si comincia con la fine, mettendo in chiaro le cose, urlando sommessamente che non sarà una passeggiata tra lazzi, frizzi e risate, che qui andremo a cercare quel punto profondo dentro, quell'idea che per trovarla devi forzatamente e necessariamente aprirti, sventrarti, prosciugarti, squartare il petto e frugarci ansioso e impaurito con le mani sporche. E' un viaggio cupo e avvelenato e rancido, tra Hitchcock, Kubrick e Lynch, e senza salvezza quello nel quale ci guida, con aria affabile e fintamente leggera, l'intuizione dell'inserto di un Pulcinella (esplosivo, flessuoso e seducente Marco Manchisi) conducente delle anime in un Purgatorio rassegnato che non punisce né lenisce, che non perdona né salva, ma, freddamente, fotografa l'assenza di valori, le mancanze degli uomini, la terrenità spicciola e scivolosa dove tutti alla fine cadiamo senza possibilità di risalita. Pulcinella, nel suo napoletano dolce nenia che coccola e tramortisce, che culla e verga, è un Caronte accompagnatore, demone che suggella le fragilità dei terrestri mettendoli di fronte, ma senza cercare vendetta o confessione, ai loro stessi inevitabili difetti e delitti, peccati e zoppie. Possiamo dire che questo “I due gemelli” sia un lungo epitaffio, una strada tortuosa che ci spinge sempre più in profondità, in quel buco dalle pareti lisce che è lo scorrere del Tempo e la fine delle speranze e delle congetture da stratega.

Tocchi da vjaC_TeA.jpegricordare e sottolineare: lo schiaffo al rallenti è una pausa ristoratrice nel traffico, il napoletano Arlecchino che tenta di conversare in veneto, il monologo toccante di Padre Pancrazio sulla carnalità e sul maceramento interiore tra sesso e spirito, il saluto finale di Zanetto tra ammissioni e incomprensioni. Rosaura che vuole intraprendere un matrimonio vantaggioso con lo stolto Zanetto, uno dei due gemelli, la serva Colombina che aspetta Arlecchino per condurlo all'altare, Tonino, l'altro fratello del titolo, che vuole accompagnarsi a Beatrice, il tutto contornato da padri e amanti in una giostra dolente, nel gioco lacrimevole e sciagurato di mosse da scacchi per stanare l'altro, una guerriglia che di spassoso ha soltanto la patina. Qui si scava a mani nude, con le unghie spezzate, in questo mondo feroce dove non basta la lampada di Diogene. Zanetto e Tonino, facce della stessa medaglia, vengono interpretati pirandellianamente Z5o4P3Hw.jpege bipolarmente da un Marco Foschi maturo e profondo, ha corpo, voce e forza interpretativa debordante, una continua percussione precisa nel rilanciare adesso il primo istupidito e sottomesso, ora il secondo sbrigativo, rude e conscio dei propri mezzi. Ha carattere il Padre Pancrazio di Danilo Nigrelli, sottile tramestatore di ingarbugliati traffici, alla fine sconfitto e annullato nella sua stessa macchinosa voglia di rivoluzione personale.

Ma è tutto “I due gemelli”, di rubensiane atmosfere fosche, che lotta e play nel doppio ora affiorante adesso che affonda come sabbie mobili, un doppio che si cela dentro i personaggi e proprio per questo inestirpabile, introvabile, inespugnabile. Come un tumore il doppio cresce e si sviluppa, si aggancia e s'attacca alla carne, il doppio sta lì a ricordarti la parte oscura, le crepe, gli spigoli, il doppio punge e ferisce, il doppio non ha anima né senso di colpa come lo è il riflesso in uno specchio opacizzato dal tempo che lo fa sembrare incerto e imbrattato, tremolante e titubante come l'acqua increspata della laguna. Odore di morte a Venezia.

Tommaso Chimenti 07/12/2020

PADOVA – Negli ultimi anni ho avuto la possibilità di vedere quasi tutti i lavori firmati da Bruno Fornasari, sempre con il fidato Tommaso Amadio al suo fianco, e targati Filodrammatici di Milano. Appunto quasi: da “Nerds” fino a “S.U.S.” passando per “La Prova” o “Martiri”. Una scorpacciata alla quale mancava all'appello proprio questo “Mattia”, primo testo che li aveva proposti alla ribalta e che adesso è stato ripreso da due differenti cast (dieci componenti per gruppo) di giovani come prova d'esame della triennale Accademia Teatrale Carlo Goldoni dello Stabile del Veneto. Mattia, dal “Fu Mattia Pascal” pirandelliano, è sì una trasposizione dal romanzo dell'autore siciliano ma asciugata, resa contemporanea, alleggerita, snellita da tanta polverosità anacronistica.

30.JPGE' possibile rifarsi una vita? Oppure se sia lecito o ragionevole o anche solo giustificabile chiedersi, dopo essersi costruito una posizione, una casa, una famiglia, un lavoro, se ci sia ancora uno spiraglio, una porta aperta per non essere più quello che abbiamo per tanti anni voluto essere. Ci si sente in gabbia, stretti, soffocati e la voglia di fuggire fa capolino. Ci sono tantissime agenzie oggi che ti possono aiutare a sparire, a cancellare ogni traccia, fisica o virtuale, e cambiare identità, passaporto, nazione. Alcuni usano le tragedie (l'11 settembre o uno tsunami, un attentato o un disastro aereo) per prendere la palla al balzo e fare quello che avrebbero sempre voluto fare: mollare le proprie credenziali e provare ad essere qualcun altro altrove.

Dicevamo, il desiderio è lecito e comprensibile, realizzarlo complicato e spesso si incappa in una serie infinita di nuovi reati. Ma andiamo per ordine, la nostra storia si svolge tra l'inizio degli anni '70, il '97, e il 2010, in tre focus che si rincorrono, finestre che si aprono e velocemente si richiudono in questa che sembra una ricostruzione dei fatti accaduti, in un'esposizione frontale che ammicca al pubblico, lo tira dentro, lo coinvolge, lo istiga a prendere posizione, ad immedesimarsi. Una coppia sposatasi troppo in fretta, due figli, una madre in coma, debiti accumulati per sopperire insoddisfazione e frustrazione con oggetti inutili, e tutto che rotola verso una destinazione già scritta alla quale Mattia (nella versione originale era interpretato da Tommaso Amadio, alter ego di Fornasari sul palco) si ribelle, pone un freno, vuole scendere dal vagone in corsa. E' possibile cambiare scenario e panorama o siamo condannati per sempre a trascinarci dentro situazioni che volevamo ma che adesso, a distanza di anni, sentiamo che non ci appartengono più? E' più coraggioso, o vigliacco a seconda da dove lo si guarda il problema, resistere e annullarsi, appiattirsi, inaridirsi su ruoli ormai sfibrati, o sparigliare le carte e mettere in discussione tutta la propria esistenza? E qual è il nostro “lato oscuro”? Quello che ci fa morire prima del tempo in un ruolo non più nostro o quello che ci vorrebbe felici in una situazione diversa da quella che stiamo vivendo ma che abbiamo paura anche solamente a pensare di poter cambiare?

A MATTIA-SITO.jpgquesta solida costruzione, chiamiamola i “mattoni” che compongono la drammaturgia, Fornasari (una scrittura mai lineare, una lingua sempre alta e popolare, mai scontata né prevedibile, il ritmo e l'ironia intelligente che contraddistinguono i suoi testi) riesce ad aggiungere piccoli tocchi sparsi di umanità, di visceralità senza scadere nel sentimentalismo, colpi seppiati di ricordi, pennellate nelle quali riconoscersi, minuzie disseminate come trappole, come zucchero a velo, dettagli che ad un primo sguardo possono sembrare inutili, laterali, comprimari, collaterali o che non aggiungano sostanza al plot centrale ma che al contrario fanno quella “calce” che cementa i momenti, che lega le scene, che compatta le temporalità, che comprime, che dà tutt'altro tono e riesce a sferzare colpi come a distribuire carezze amare, farci scivolare nella nostalgia, farci cadere nel buco di Alice, farci, per un attimo, scordare il fusto centrale dell'opera, l'idea originaria sulla quale tutto si fonda. Piccoli momenti che destabilizzano e ci portano in altre dimensioni, piccoli momenti di letteratura; l'orologio Casio che da delizia si fa croce, la digressione sul divano (unico oggetto in scena) che da pezzo d'arredamento diviene feticcio sacro, l'ingresso a piedi uniti dei Doors e l'iconica frase di Jim Morrison che ci rimbomba: “Meglio bruciare subito che spegnersi lentamente”.

Il nostro è un mondo in prestito, il nostro tempo è un prestito, i vestiti che teniamo per poco e poi dimentichiamo, gli oggetti64.JPG, i sentimenti, le persone, tutto è momentaneo, come un grande temporary shop. Il “per sempre” ha cambiato significato, ora vuol dire per adesso che è tutto quello che abbiamo nella nostra programmazione che non arriva mai così lontano nel tempo, nelle settimane. Perché? Perché non si sa mai. E allora godi, spendi alla ricerca di quella felicità che non puoi trovare pensando che tutto sia in prestito (quindi non gli dai la giusta importanza), che se lo perdi lo puoi ricomprare, che se i rapporti si interrompono fai spallucce e dici che chiusa una porta si apre un portone. Niente ha più senso, tutto è più vuoto e fa eco e ci fa paura. Ci vuole coraggio per uscire dal giro, per lasciare il tavolo da gioco, per abbandonare il sistema e non sentirsi più un ingranaggio di una macchina che deve solo macinare. Un'anatomia prima di un incontro poi di un matrimonio, di una sparizione, di una vita, del come, a valanga, tutto possa andare a rotoli senza nemmeno accorgersene nelle pressioni della vita moderna costellata di routine e mutui (parallelismi con il romanzo “Colibrì” di Sandro Veronesi) che stringe sempre un po' di più il suo cappio.

La vita per Fo45.JPGrnasari si divide tra momenti sentimentali e attimi speculativi. Ai monologhi drammatici (quello finale ha una marcia in più) si alternano costruzioni collettive, alle scene intime fanno da contraltare le coreografie (di Marta Belloni) in un'altalena veloce di sensazioni che non lascia comodi, in un ping pong che scuote e tiene incollati. Impossibile non riconoscersi in quel bivio, in quel pensiero che prima o poi ci prende, ci è venuto o arriverà. Tra gli allievi sottolineiamo nel primo cast le presenze di Federica Fresco (Vale), Gianluca Pantaleo (Mattia) e Andrea Sadocco (il croato), mentre nel secondo Angelo Callegarin (Mino), Imma Quinterno (Vale), Gaspare Del Vecchio (Bustros). Nuova linfa per il teatro.

Tommaso Chimenti 29/09/2020

PADOVA – Ormai la comunicazione moderna è talmente abbagliante sul momento, catalizza l'attenzione attraverso i media, i social network in maniera tanto invasiva da scemare in pochi giorni. Una luce potentissima che porta una luce flebile e spesso frivola buona per un tweet, un po' di commozione dal divano, un like svogliato e stanco e assonnato dalla scrivania. E poi? Rimangono i danni, rimangono gli abitanti sul territorio, rimangono i detriti, le macerie, fisiche e morali. E così è successo con la Tempesta Vaia nel Nord Italia dell'ottobre 2018, le immagini raccapriccianti di distese infinite di alberi travolti, smembrati, divelti come cerini da una terra prima arida e poi gonfia di pioggia. La comunicazione, dicevamo, è talmente insistente e pervasiva nei primi giorni e talmente 21-DaQuiAllaLunaGiorgioSangati04112019-4686.jpgpotente e violenta, occupando tutti i canali d'informazione che, necessariamente, dopo poco ha bisogno di altra carne fresca da spolpare, di nuovi casi, nuove tragedie, vicine o lontane, nuovi sensazionalismi da sparare in prima pagina o in apertura di tg. Gioco forza il dramma precedente finisce sotto la polvere, nell'oblio, nel dimenticatoio. Tutto diventa talmente preponderante e importante, tutto è sparato e strillato a decibel sempre più alti che la nostra concentrazione, interesse e memoria rimuovono, accantonano un po' per difesa e un po' perché tutto il bombardamento si somma e diviene una matassa indistinta di rovine e fatichiamo a ricordarci quando, dove, chi, cosa e a rimettere i pezzi a posto. La tragedia del Vaia è solamente di un anno fa e, come dice il testo di Matteo Righetto, al di là delle Dolomiti se lo scorderanno presto. Vero, anzi verissimo. E' quello che è successo. da sx_Sangati, Gobbo, Pagliei, Carcano, Righetto, Pennacchi, Beltotto, Ongaro.JPGNon se ne parla più. Altre tragedie in questi ultimi 365 giorni si sono affacciate, altri disastri, altre urgenze, tra la realtà e il bisogno dei media di riaccendere, con la paura e lo scandalo e lo stupore (creando spesso l'effetto contrario: l'assuefazione), il focolaio delle notizie da vendere.

Sta di fatto che il teatro, forse perché mezzo ed arte più terrena e umana, più artigianale e tattile, in due recenti produzioni ha ricordato la sciagura di fine ottobre scorso: a Siracusa questa estate nella produzione Inda del Teatro Antico gli abeti abbattuti erano la scenografia de “Le Troiane” pensata dall'architetto Stefano Boeri, e in questa nuova produzione del Teatro Stabile Veneto, “Da qui alla Luna”, viscerale, sentita, partecipata. Il titolo fa riferimento alla portata del disastro che pare impalpabile parlando di alberi ma che invece, parlando di numeri diventa ingombrante: se messi uno in fila all'altro i 16 milioni di alberi abbattuti dalla furia della bufera riescono ad arrivare ad una somma di chilometri tali da poter raggiungere dalla Terra la Luna, la Luna dei poeti, la Luna di Pierrot, la Luna di Astolfo, la Luna di Armstrong. Una tragedia di proporzioni bibliche che ha colpito Veneto, Trentino e Friuli Venezia Giulia. In questo “Da qui alla Luna”, commovente e toccante, il regista Giorgio Sangati è riuscito a far dialogare l'affabulatore Andrea Pennacchi, il chitarrista e cantautore Giorgio Gobbo e l'Orchestra di Padova e del Veneto, con oltre trenta elementi, che si è fatta pioggia, uragano, tsunami e ha tratteggiato, sottolineato e non semplicemente accompagnato, tutti i momenti e le fasi del disastro, da quando montava a quando infuriava fino alla devastazione che ha lasciato a terra.45-DaQuiAllaLunaGiorgioSangati04112019-4817.jpg

Un piccolo inciso è necessario sul protagonista, da settembre nel cast di “Propaganda Live” di Zoro: Pennacchi è la risposta a Crozza quando apriva Ballarò, è la risposta a Stefano Massini a Piazza Pulita, è Grillo agli inizi della sua carriera, un po' Albanese, un po' Gnocchi, un po' Natalino Balasso, molto Paolini, ha la pastosità di Chef Rubio, l'imponenza di John Goodman, quella terrenità nostrana ruvida e semplice delle campagne, ha un'anima ironica travestita da tragedia, un telaio sarcastico vestito da cronaca, il tutto immerso nel dialetto feroce veneto, ha quell'aria rude da guerriero celtico, è spigoloso nella sua barba ispida, furibondo, furioso, imbufalito ti sfida selvaggio, il suo modo di stare in scena è crudo, sanguigno, sa di provincia, va dritto al punto, sferzante come una mazzata, duro senza tanti giri di parola, arrabbiato, corposo come un rugbista in mischia, testa bassa e pedalare. Un grande caratterista. I suoi sono sguardi feroci, lampi indagatori, che ti scavano dentro, fulminandoti, addosso, è burbero e brutale ma è anche un possibile Cipputi moderno: “con i Pennacchi e con le armi”, diceva De Andrè nella sua “Bocca di rosa”. Azzeccato.

Ma torniamo all'attualità: “Da qui alla Luna” è un colpo al cuore, un gancio ben assestato alla bocca dello stomaco, entra come un'autopsia dentro le pieghe della sciagura tra documenti, perizie, vita vissuta, lacrime, paura. Una foresta viene divelta, sradicata, mangiata, implosa. E dire che da queste parti, dal Polesine al Vajont, di tragedie, purtroppo, ne hanno sentite, vissute sulla pelle. Tanti ceppi a terra, che arrivano proprio dalle zone colpite, sono la scarna scenografia, magra e macabra di ombre basse come le immagini di quelle montagne adesso brulle e calve dove giacciono ancora i cadaveri di arbusti, linfa e resina non più verticali. Una disgrazia da dover necessariamente urlare anche oltre i confini macroregionali aggrediti dalla forza della Natura (e dalla stupidità umana che ha innescato il surriscaldamento globale e la conseguente tropicalizzazione alla quale viene imputato anche questo evento) per riportare l'attenzione nazionale, quelle “Venezia e Roma”, citate da Pennacchi, che hanno altro a cui pensare, a livello politico e non solo, per occuparsi delle “province”, del contorno, del laterale. Pennacchi, e il testo di Righetto, riescono a farci sentire la fatica, la preoccupazione crescente, la ferita, anche il dolore degli alberi: “Non è ambientalismo da salotto”. Adesso cadono gli alberi, “i prossimi a cadere saremo noi” in un parallelismo purtroppo molto vero.

25-DaQuiAllaLunaGiorgioSangati04112019-4710.jpgL'escamotage per raccontare la vicenda, anzi lo sviluppo e il corso degli eventi che in quella settimana dal 24 ottobre 2018 hanno cambiato radicalmente e per sempre il volto delle nostre montagne, è l'invenzione di tre personaggi, tre età scandite, l'uomo adulto, Silvestro, il bambino, Paolo, l'anziana signora, Agata, tre diversi sentimenti confluiti in un unico grande afflato, un solo respiro prima di grande timore poi di lacrime infine di scossa, rivalsa, rivincita. Possiamo dire che Vaia è stato l'11 settembre ambientale italiano ma in qualche modo sembra sia stato derubricato a qualcosa che interessi soltanto “i montanari”, che non tocchi tutto lo Stivale, tutti gli italiani. Il fumo staziona in aria, in alto a metà tra gli uomini e il cielo, ed è nebbia, è coltre, è mistero in questo thriller con molti cadaveri ma senza l'assassino. Ecco gli incendi, ecco il vento caldo Favonio che secca e prosciuga, ecco in successione venti fortissimi da tifone e piogge torrenziali monsoniche su una terra dura che non accoglie tutta l'acqua scesa e fa saltare come birilli gli abeti. E' un crescere, un aumentare il pathos, il respiro gonfio mentre in alto un faro diventa la Luna che ci guarda tra lo sconsolato e l'impotente. Una Luna che inquadra e impalla Pennacchi e che ci ha fatto trapelare l'immagine della copertina dell'album “Ruttle and Hum” degli U2 nella quale Bono Vox direzionava e da qui alla luna.posato (1 of 7).JPGpuntava un riflettore su The Edge curvo sulla sua chitarra.

Il racconto è denso come fango, è pregno e incessante come melma, è umido di lacrime, ora è una scarica adesso una riflessione sconvolta, ora è senza posa, ora è poesia senza resa, adesso decelera per poi risalire, perforare, trafiggere, solcare: “Una volta gli uomini vivevano con la Natura, ora contro la Natura”. Sembra un inferno di ponti che crollano, tetti che volano, “case scoperchiate e boschi stesi”, strade che cedono, la corrente che salta e gli alberi che cadono come birilli nel bel mezzo di uno strike, come grissini sgretolati, come fuscelli spezzati, come stecchini rotti: un vero massacro ecologico, emotivo, sentimentale, il Giudizio Universale, la Fine del Mondo, uno scenario apocalittico, di zolfo, di marcio, di crollo, di perdita, non solo materiale, di lutto. La Luna indica il progresso dell'uomo, questa Luna invece, questa distanza colmata con gli alberi messi idealmente in una linea ipotetica fino al satellite crivellato di crateri, certifica un regresso. Piacerebbe anche a Greta.

Tommaso Chimenti 08/11/2019

Foto: Serena Pea

VENEZIA – “Arlecchino è il rifiuto di tutti i perbenismi, i luoghi comuni, le ipocrisie” (Dario Fo).

Scordatevi l'Arlecchino burlone, saltimbanco e colorato. Quello che il regista Marco Zoppello (anima degli Stivalaccio Teatro) e il Teatro Stabile Veneto (due spettacoli su altrettanti canovacci goldoniani poco rappresentati, 70 repliche sul palco del Teatro Goldoni veneziano, con due cast di sei giovani attori per produzione provenienti dalle scuole venete affiancati ad un Arlecchino esperto) hanno deciso di mettere in scena, anche per questa seconda trance “Arlecchino e l'Anello magico” (l'anello ci riporta sempre alle atmosfere misteriche del “Signore degli Anelli” marco-zoppello.jpgo “Harry Potter”), ha un che di malinconico e lugubre, una seriosità, sotto la forma cialtrona e spumeggiante, che si fa scura, si incupisce la frizzantezza, si rabbuia lo spirito allegro. Ogni costume infatti ha note di scuro e bruno e un piccolo tocco nero (idea illuminata dell'ingegnosa costumista Lauretta Salvagnin) che fa da fil rouge e tiene uniti tutti i caratteri e le figure sul piccolo palco montato sul grande palco del teatro lagunare. Stare sulla piccola gradinata, a pochi passi dagli attori, e avere la doppia visuale della recitazione così fresca e vicina e, alzando gli occhi, sui palchetti accesi da piccole luci, con le ombre della scenografia di alberi che ci rimbalzano, è uno scarto emozionante che fa sentire nel cuore dell'arte, della creazione, della produzione, al centro di un grande progetto.

Dicevamo67602765_10219748058039959_1692225648724017152_o.jpg i costumi: già perché tutti e sette sono stati costruiti e cuciti con cenci e stracci, quelli per pulire la casa per intenderci, raccordati tra loro, anche questa una piccola grande ricercatezza, fervida intuizione di maestranze esperte che sanno lavorare, bene, con le mani e soprattutto con la testa. Forse è questo uno dei motivi dominanti della riuscita dell'operazione (inizio alle 19, sovratitoli in francese e inglese, tanti i turisti, sold out tutte le recite, la convivialità del prosecco distribuito a fine replica) che lancia la nuova stagione che sta per cominciare: la grande sintonia di più comparti, registico, attoriale, tecnico, dirigenziale (il direttore Massimo Ongaro soddisfattissimo del risultato e sempre presente) uniti, concentrati e affiatati; si sente, si intravede, si tocca, si percepisce tra le pieghe dei non detti tangibili.

Costumi più contriti e anche la maschera del nostro (anti)eroe (Stefano Rota, unico perno non intercambiabile tra le due piece, “Il figlio” e “L'anello”, attorno al quale ruotano sei giovani attori per volta) che si fa cagnesca ma, oseremmo dire, suina o ancora, forzando la mano, cinghialesca, in una sorta di ritorno alle origini animalesche (vaghi rimandi alle maschere giapponesi guerresche o a quelle tribali rituali africane). C'è da dire che i due canovacci (appunto, non testi) di Carlo Goldoni erano poco più di qualche appunto e schizzo, 67638025_3082772498429873_7308939185556029440_n.jpgpoche pagine che Zoppello (reduce da un Avignone con i fiocchi e con il botto che gli ha portato in dono le repliche parigine di novembre al Petit Palais) ha reintegrato, adattato, infarcito, espanso, raccordato. Tutto è a vista, compresi i rumori prodotti accanto alla scena dagli stessi attori che ne fanno quasi una striscia di fumetto; altro tocco di artigianalità. A livello linguistico vengono utilizzati più che i dialetti, le calate regionalistiche: il veneto, ovviamente (ad esempio “desmentegarme” al posto di dimenticare), il laziale, il napoletano, con irriverenti e ilari strafalcioni ed errori grammaticali.

La melancolia pensierosa e lo spleen di fondo, che scorre e ogni tanto fa capolino con piccoli tocchi leggeri ma pungenti, se nel primo episodio del dittico riguardava la violenza sulle donne e il machismo diffuso antifemminista, in questo secondo step si rivolge e guarda un altro problema del nostro tempo, una patologia che colpisce moltissime famiglie: l'alzheimer o la demenza senile. Infatti Arlecchino, che si vuole suicidare (altra piaga sociale del nostro mondo progressista, evoluto e benestante), fa un patto con una sorta di mago mefistofelico (strano che somigli ad una figura papesca) che gli dona un anello con il quale dimenticherà il suo passato. E sono tenere e dolcissime le scene nelle quali Arlecchino (dai tratti interiori del Joker di Joaquin Phoenix) non riconosce sua moglie Argentina (spicca Eleonora Marchiori, brava anche negli stornelli; struggente il primo “S'è fatta mezzanotte e io non so perché”) ma le chiede la mano perché, anche se non la ricorda, la vorrebbe sposare nuovamente. 68475937_3082766461763810_7811090848950517760_n.jpgQuesto il dato più esistenziale, sentimentale e familiare, se vogliamo, al quale si aggiunge una velata critica sociale che però fa comunque rumore: Arlecchino, che appunto ha perso la memoria, non conosce più il valore dei soldi e, come un bambino ingenuo e puro, si chiede come sia possibile che chi non ha denaro non possa cibarsi, sfamarsi e alimentarsi, “E' una bestemmia questa libertà”; e anche qui apre un'ampia finestra di riflessioni sul nostro Primo Mondo che produce, consuma e fa crepare.

Tutto il cast comunque è up: il Signor Gendarme, alquanto carabiniere pinocchiesco, è Davide Falbo che ha fisico, news-arlecchino-estiva.jpgprestanza ed ironia, Amelia, la madre di Rosaura è Meredith Airò Farulla, il suo ruolo ha un che di dantesco, Celio è Marlon Zighi Orbi che ci ricordato Orlando Bloom, Lorenza Lombardi è Fernanda l'ostessa manesca, il suo romanesco è da Rugantino o Marchese del Grillo, e Pierdomenico Simone è Trappola il gobbo, “falso invalido”, molto “Pirati dei Caraibi”, un picchio punk, Puk rock. Uno, cento, mille Arlecchini.

“Arlecchino è savio o matto? È intelligente o balordo? Sono domande impossibili, perché la maschera si muove su un piano diverso. Anzi ciò che turba è la doppiezza o polivalenza della maschera” (Giorgio Strehler).

Tommaso Chimenti 17/10/2019

VERONA – C'è chi sta sette anni in Tibet e chi due giorni in Veneto. Verona e Venezia, stessa iniziale, stesa regione. Se la città degli innamorati è ancora legata, troppo, a Romeo e Giulietta e all'Arena, la città sull'acqua per eccellenza fa rima con la Biennale e Goldoni. In Veneto è molto apprezzato un certo tipo di teatro dialettale ed amatoriale al netto di compagnie (Babilonia, Ippogrifo, Teatro Scientifico) di nuova drammaturgia che negli anni hanno tentato di creare un altro tipo di discorso attorno al teatro. Proprio lo Scientifico, che quest'anno ha spento le cinquanta candeline, si inserisce in un terreno di qualità, innovazione e teatro d'attore solido che deve “combattere” contro l'insormontabile Teatro nel Chiostro di Santa Eufemia, il Chiostro Santa Maria in Organo e l'Arsenale dove, tra giugno e settembre, le repliche totali sono oltre 200: un sovraffollamento tra leggerezza, risate, frivolezze brillanti. La loro novità “Il serpente”, da Luigi Malerba, infilato nell'Estate Teatrale Veronese e spostata 20150412-Teatro-Laboratorio-Verona-Isabella-Giovanna-Luca-Caserta-dismappa-.jpgda luglio all'aperto a settembre al chiuso (non favorevoli i giorni di riapertura delle scuole e il debutto infrasettimanale) è la prima trasposizione teatrale del romanzo degli anni '60: ne esce fuori un piccolo gioiellino tra note attoriali (Francesco Laruffa tiene saldo le redini, Isabella Caserta emana lampi di luce), video in bianco e nero proiettati sul velatino (sempre bellissimo e funzionale il Teatro Camploy) di quell'epoca di grandi trasformazioni e cambiamenti (le 600, una anche in scena, le lambrette), la musica degli anni '60 che riempie il cuore, scioglie la nostalgia, ci culla in quella patina di sospensione.

Tutto è giocato sul filo del vero e del falso. Il nostro antieroe, ha tratti dello scrivano Bartleby di Melville, è un uomo medio, grigio, avvilito, soprattutto solo pur non volendo esserlo. Si trova nella condizione di una solitudine amara e permanente e quindi, da commerciante di francobolli stantii, è costretto ad immaginarsi, inventarsi di sana pianta, una vita alternativa. Oggi la chiameremmo second life, con incontri, avventure, non tutte positive, ma piene di sale e pepe, di quella verve esperienziale che la sua indolenza e apatia, frutto più della paura di perdere che dal rischio di vivere, non gli ha fatto provare, privandolo delle gioie della vita. Ci racconta, quasi in una confessione aperta, lo scopriremo alla fine, in una sorta di interrogatorio, ma felice finalmente per la prima volta forse, di essere ascoltato, di avere un suo uditorio a disposizione al quale mostrarsi, tirando fuori la sua vera anima che mai si è Il-serpente-6241-2.jpgallineata con l'immagine sociale che si era ritagliato: rigattiere, topo da biblioteca. Un uomo compresso in ciò che è diventato per abitudine e svogliatezza, che non preso in mano la propria vita e adesso si trova ad immaginarsene una piena di eventi e accadimenti. Ma mentre ci racconta del corso di canto, della moglie, dell'amante, delle gite in spiaggia, noi non sappiamo che sta cercando un'esistenza migliore della sua. Più racconti le bugie e più diventano vere. Ogni affermazione viene scardinata nella fase successiva, screditandola, negandola. Cosa è vero e che cosa è falso? Tutto si confonde nel pantano fangoso dove è difficile, se non impossibile, riconoscere chiaramente i contorni del reale e quelli della fantasia.

Un uomo pieno di contraddizioni (un bellissimo personaggio dai tanti spigoli e dalle infinite ombre, una scrittura a tratti gaddiana), silenzioso collezionista abituato alle scartoffie da impilare e archiviare più che ai rapporti interpersonali, che ha desiderio e ambizione di cantare ma lo vuole fare “interiormente” senza emettere un suono, mentalmente, geloso retroattivamente della sua amante (la Caserta ci ha ricordato Monica Vitti), fino a perderla, che è quello che gli riesce meglio: risultare sconfitto, farsi schiacciare dalla vita, lui che chiacchiera in maniera logorroica ma al quale, parole sue, non piace parlare con gli altri. E' titubante e ossessivo, ossessionato e ossessionante, ha incubi e allucinazioni. Vende il-serpente.jpgfrancobolli ma li odia, tradisce la moglie ma accusa l'amante di tradirlo, ha un amico che però gli è antipatico. Si inventa un'altra realtà fino a sconfessarla, a distruggerla, a cancellarla con un colpo di spugna pezzo dopo pezzo fino alla scissione tra il protagonista, che perde i contorni della figura realistica e che torna ad essere letteraria, e lo scrittore che manipola e distrugge, con la forza dell'immaginazione e della pagina bianca da riempire, la sua creatura riportandola alla sua condizione bidimensionale, rimettendola in naftalina, costringendola in quella bolla di sapone, la carta e l'inchiostro, dove tutto è possibile proprio perché pensato, il che non significa che sia irreale o non plausibile. Un mitomane come forse lo sono tutti gli scrittori che descrivono mondi, delineano personaggi, raccontano sogni. Un volume da rileggere, teatro da respirare.

La Venezia arlecchino-anello-sito.jpgmalata di goldonite invece piazza un piccolo e onesto adattamento goldoniano di Marco Zoppello (attore e regista degli Stivalaccio Teatro) per un grande progetto che prevede, tra Padova e la città di San Marco, una settantina di repliche suddivise tra “Il figlio di Arlecchino perduto e ritrovato” e “Arlecchino e l'anello magico” (che seguiremo ad ottobre), operazione in equilibrio tra turismo (l'orario delle 19 e i sovratitoli sia in inglese che in francese, ottima trovata), prosecco (aperitivo finale), e la magia di assistere ad uno spettacolo sul palcoscenico. Luci sul pubblico (settanta persone a replica la capienza sulle tribunette montate sul palco) e grande interattività, attori pronti a dialogare e a sentire la platea, i suoi umori, dove spingere, quando puntare, quando accelerare. Ne viene fuori, tra continui colpi di scena e scambi di persona (di bambino in questo caso) un divertimento per tutte le età, con segreti che vengono a galla e gelosie. C'è la francese e la siciliana a vivacizzare. Nello stesso momento nel quale Arlecchino e la sua Camilla mettono al mondo un pargolo, Maddalena (con le attrici che a turno a lato del palcoscenico emettono gridolini, gemiti, pianti e mugugni infantili), anche la figlia di Pantalone, Rosaura, ha avuto un figlio, Checchina, ma, non essendo sposata con Florindo, non può confessarlo al padre-padrone rigido ma ingenuo.

Su tutti Pantalone, Emanuele Cerra degli Evoè Teatro di Rovereto, la serva intelligente e furba Marionette, Emilia Piz (giocoso l'escamotage di storpiarle sempre il nome; diventa infatti: sauvignon, merlot, fois gras, vinaigrette, baguette, baionette fino a cabernet, cordon bleu e ratatouille) che danno spumeggianti toni e briose sfumature. Ma tutta la compagnia è ben collaudata in un ritmo incessante di brillantezza e colore. Potremmo dire una commedia dell'arte fresca e frizzante che, seppur con le tinte leggere proprie, non disdegna, di sottofondo, una neanche così velata critica all'uomo, al maschio, dipinto e disegnato come incapace di ascolto, furioso e talmente geloso da sfiorare la tragedia appiccando un incendio casalingo morso dalla rabbia (in anni di femminicidio e di sensibilità sul tema), mentre dall'altra parte le donne hanno una marcia in più, sono più sveglie, più pronte non certo all'inganno quanto alla risoluzione pacifica dei conflitti e delle incomprensioni con garbo, gentilezza e delicatezza (non è un caso se i due neonati siano due bambine: il futuro è femmina).figlio-ve-fg9.jpg

Vedere lo scintillio del Teatro Goldoni (mentre viene recitato Goldoni) da questa angolazione, con le luci di sala a rischiarare tenui come fosse un'alba violacea, è un privilegio, Arlecchino (Stefano Rota, anche formatore) è una maschera universale, esplosiva e stupida, goffa e geniale, istrionica e terrena che rivedersi in lui è naturale e catartico. Una buona operazione che miscela territorio e saperi teatrali, vivacità (tanti giovani attori) e vitalità imprenditoriale con l'artigianato scenico: esperimento curioso e soprattutto riuscito anche per i costumi (di Lauretta Salvagnin) che esaltano musica e parole, dando luce al tutto.

Tommaso Chimenti

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