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Giovedì, 05 Maggio 2022 12:46

La Classe di Garella non è morta

BOLOGNA – La differenza salta agli occhi, diceva un De Gregori che discettava tra il bisonte e la ferrovia. Ma il confronto tra “La classe morta” di Kantor e “La Classe” di Nanni Garella sta proprio in quella mancanza, in quell'assenza di quell'aggettivo pesante, ingombrante, assoluto. Sembra poco, un aggettivo, ma qui dà nuovo senso alle stesse parole, alle stesse azioni, dona speranza per una compagnia per metà composta da attori (sei) e per l'altra metà da componenti dell'Associazione Arte e Salute, pazienti del Dipartimento di salute Mentale di Bologna. Sulla scena la dozzina è ben calibrata e se ne perdono i confini in un equilibrio artistico e attoriale che li fa essere sullo stesso piano, senza sbavature, senza discordanze, scarti e difformità che l'arte e la recitazione e lo stare su un palco, dentro le parole La classe ph Stefano Triggiani (8).jpgkantoriane, ha azzerato. “Morta” è stato eliso perché recitare, nel piccolo e intimo e raccolto Teatro delle Moline (dove ERT mette in scena piccole produzioni nostrane di grande apertura e respiro, ruolo fondamentale di un Nazionale), è vita, rinascita, sorpresa, scoperta, nuova linfa.

Testo La classe ph Stefano Triggiani (9).jpgmigliore non poteva esserci per questa compagnia nata a fine millennio scorso. L'impianto è quello dell'originale del '75 del regista polacco (ma senza una figura che ne ricalchi la sua presenza in campo): banchi di scuola funerei che sembrano inginocchiatoi penitenti da chiesa ottusa e claustrofobica, abiti pece stinti e facce bianche cadaveriche per un'installazione umana che si anima dopo un torpore secolare, come un sogno che ricompare catartico, un ritornare alla vita passata, un incedere dentro le pieghe del tempo andato, un ripercorrere anni e traumi, in un loop che sa di rivincita, di riconquista, di contrappasso, di purificazione. Infatti le azioni sono reiterate e prendono vigore proprio dalla loro riproposizione continuativa, come un riflesso che si propaga cambiandone i contorni, rafforzandone il contenuto ad ogni mossa, ad ogni nuovo ciclo. La classe come microcosmo dell'esistenza con i soprusi, i maestri, i kapò, il potere che soverchia il popolo, le angherie, la massa che si fa caos; come una fisarmonica si riempie e si svuota. Adesso l'aula è sovraffollata perché ognuno degli attori ha in mano dei pupazzi, quasi a grandezza naturale, i loro doppi di quando erano ragazzi, giovani, bambini, si portano in giro, si coccolano come marionette e bambole, si accudiscono con dedizione e cura e delicatezza. Ognuno di noi dentro ha sempre il fanciullino che una volta è stato, compresi i traumi che ha vissuto, passato, subito.

E' nella ripetizione meccanica degli avvenimenti che si esalta e sublima il senso di questo limbo purgatoriale, le processioni vorticose attorno ai banchi sembrano una danza, una coreografia di dervisci la-classe-luca-sgamellotti-2_1000x0_79620d41ddda236ca32c486beca1c7f2.jpgche incanta, che trascina in un'altra dimensione, una spirale che spalanca le porte del tempo. Come le filastrocche e le canzoncine, quelle nenie cullanti e inquietanti che trascendono in un mondo parallelo, seppiato e offuscato, scolorito e immaterico. Ognuno con il suo alter ego deve sempre fare i conti, ogni personaggio colpisce violentemente il suo fantoccio, lo uccide, li accatastano in un angolo, in quella crescita che disconosce l'età fanciullesca, quell'adultità che vuole cancellare le origini, rinnegando il prima in cerca di un futuro vergine da conquistare. Senza il passato e la memoria, lo sappiamo, non può esserci un domani limpido.

E qui ilaclasse14.jpg bambolotti sostituiscono i vivi sulle panche, le loro essenze che non si sono mai allontanate da quell'atmosfera restrittiva (il messaggio politico allora era chiaro, nel nostro caso, all'opposto, forse il riferimento è all'infanzia inteso come tempo neutrale prima della consapevolezza e della malattia conclamata e certificata), che non sono mai riuscite definitivamente a staccarsi, sganciarsi da quella cupezza, da quel legno bruno. Questo manipolo di uomini e donne eterei e chapliniani, pittoreschi al limite dell'essere foloniani, fragili e vulnerabili, con i loro movimenti automatici istintivi quasi involontari pinocchieschi, oniricamente incastonati e relegati nel tempo paludato, asfittico e impantanato, esotericamente imprigionati e imbrigliati, fantasmi attanagliati nella maglie della clessidra potrebbero essere un coro greco di anime o parte di quelle manifestazioni di lamentazioni funebri pubbliche, prettamente del folclore del Sud Italia, le prefiche, che si sciolgono e dolgono rumorosamente e plasticamente in sceneggiate lacrimevoli, in pianti rituali strazianti, adombrandosi in lagnanti litanie angosciose e laceranti. Come se il tempo si fosse inceppato in una seduta spiritica, come un disco rotto con la puntina gracchiante arrugginita, a rievocare lo spirito di se stessi quando, forse, erano felici non sapendo di esserlo.

Tommaso Chimenti 05/05/2022

visto al Teatro delle Moline il 03/05/2022

Foto: Stefano Triggiani, Luca Sgamellotti

BOLOGNA – In Italia scorrono circa 1200 fiumi che principalmente nascono dagli Appennini o dalle Alpi. Il più lungo è il Po che attraversa la Pianura Padana per oltre 650 km. Proviamo adesso a calcolare le migliaia di chilometri di argini che ci sono, che ci sarebbero dovuti essere, che mancano perché la manutenzione nel Bel Paese è roba da emergenza, da stato di calamità, fatta di malaffare e corruzione e cattiva politica. E allora ecco il Polesine nel '51 con 100 morti e 200mila sfollati, gli straripamenti del '54 a Salerno con oltre 300 morti, il Vajont nel '63 con 2000 morti, l'alluvione di Firenze nel '66, nel '68 a Biella e Asti con 78 morti, Una-Riga-nera-ph-Mario-Zanaria.jpgnel '94 ancora in Piemonte con 68 deceduti, il fiume di fango nel '98 a Sarno con 160 morti. Negli ultimi anni ricordiamo Livorno e Genova ed anche la tempesta Vaia (raccontata mirabilmente in teatro da Andrea Pennacchi), ma di eventi distruttivi naturali, che potevano essere controllati dall'uomo, avvengono ogni anno sul nostro territorio ed è facile dopo, a cose avvenute, scandalizzarsi, mettersi le mani nel capelli, piangere, indignarsi, fare una raccolta fondi per la ricostruzione.

Una riga nera al piano di sopra” (il titolo evocativo e bellissimo che sembra uscito da una poesia di Mariangela Gualtieri) rende bene, in un attimo, la fotografia della disperazione umana davanti alla furia dell'acqua, una riga nera che sembra rimmel sbafato sugli occhi piangenti di una donna di campagna, una riga tracciata tra ciò che era prima e quello che non sarà mai più, tra quel che c'era e quello che sarà trasformato perdendone la memoria e la tradizione, una riga come limite purtroppo valicato, una riga come confine deturpato e frontiera sfondata, una riga come spartiacque tra il fiume che era e il fango e detriti carichi di morte e povertà che adesso tracima e corre e travolge e sporca e lorda ogni cosa vivente e inanimata. Matilde Vigna (ha un volto “antico”; già due Premi Ubu nel suo palmares) è originaria del basso Veneto, terra di polenta e pane biscottato, una campagna dura rispetto ai merletti di Verona, i lussi di Padova, agli sfarzi di Venezia, ai palazzi di Vicenza. Un altro Veneto, più vero, più terreno, più tattile, fatto di mani e calli e lavoro. La Vigna (farà grande il teatro italiano nei prossimi 50 anni; ha un che della Vanoni; davanti a sé un futuro radioso da nuova “Maria Paiato”) è al suo primo testo che ha portato al Teatro delle Moline bolognesi nel bel progetto di produzione Ert sempre attenta alla nuova drammaturgia.

Un testo una-riga-nera-8-ph-Mario-Zanaria.jpgsolido, compatto, denso con l'attrice che ci aspetta in sala e una panca grigia che divide l'orizzonte dello sfondo nero alle sue spalle (fondamentale il disegno luci di Alice Colla). Ha in mano una pianta, un bonsai, quella natura che si ribella, quella natura che ha bisogno di noi, quella natura da cui inevitabilmente dipendiamo che però vogliamo distruggere e non rispettare per amore dell'asfalto e del cemento, di un illusorio progresso. La faccia è nascosta, celata, nella penombra, nell'oscurità. Ci apre alla memoria della sua terra con passione, tenerezza, senza fronzoli. Polesine 1951. Una performance carica di pathos e forza espressiva (teatro civile quasi paoliniano) nelle parti ombrose e in chiaroscuro dove è l'alluvione e lo stravolgimento delle terre soverchiate come delle vite trascinate nella melma a tornare in superficie, un racconto pieno, commovente, toccante, incisivo, corrosivo che ci arriva fino in fondo alle ossa e farci sentire il gelo dell'acqua fredda, quella miseria che la puoi toccare con mano. Parallelamente il percorso drammaturgico devia in un nuovo binariouna-riga-nera-al-piano-di-sopra-ph-mario-zanaria-4_1000x0_1ee8dbe6c85c42d219d01dab2263cb86.jpg che fa da contraltare a quello del ricordo, una parte più autobiografica, che intervalla quella drammatica, in piena luce anche sul pubblico, nella quale l'attrice si lancia in un filone generazionale di case, affitti, amori andati a male, ritorni a casa, valige da fare e smontare, rifare e lasciare.

Certo la metafora della valigia è centrale e subito la mente va agli sfollati di tutto il mondo, ai migranti di ogni epoca, oggi inesorabilmente al popolo ucraino. Ma lo scarto, in un equilibrio fragile e precario (certamente voluto), tra le due componenti è abissale: da una parte la scena spettrale di fumo e nebbia della furia del fiume in piena (il progetto sonoro di Alessio Foglia ben coadiuva le parole che diventano armoniose quasi poesia futurista onomatopeica, parole che si inseguono e corrono come una valanga, una cadenza, una scansione tambureggiante da ruscello di montagna, una musicalità che sembra una percussione industriale) dall'altra la “leggerezza” dell'oggi tra sogni infranti (Bridget Jones?) e le incertezze dei trentenni sul futuro (già visto, già sentito) che spezza l'armonia, blocca il trasporto, ferma l'emozione e il sentimento. La Vigna è un grande patrimonio del nostro teatro, “Una riga nera” è un bel punto di partenza come drammaturga.

Tommaso Chimenti 24/03/2022

Foto: Mario Zanaria

BOLOGNA – “La cosa più pericolosa da fare è rimanere immobili” (William Burroughs).

“La vita è come andare in bicicletta. Per mantenere l'equilibrio devi muoverti” (Albert Einstein).

Il rumore delle ruote che scivolano sui cilindri, rimanendo in perfetto equilibrio dinamico, è il metronomo che fa rima con il battito del cuore, sono le virgole a questo flusso di coscienza che non conoscearrigazzi pause, è il misuratore di fatica e sudore che scansiona l'aria, che rimette in circolo endorfine, è la cadenza dei passi sempre più affrettati dentro il bosco della nostra esistenza, dentro la conoscenza di noi stessi. “Tempi maturi” (prod. Casa degli Alfieri, visto al Teatro delle Moline dell'Ert Fondazione a Bologna) ha una grande scrittura alle spalle e un grande interprete sul palco. Palcoscenico in questo caso è un eufemismo: Emanuele Arrigazzi, ottimo attore (qui performer per un'ora di pedalata sostenuta senza flessioni né cedimenti), è stato anche un buon ciclista dilettante, le sue gambe tradiscono questa sua prima passione, il quadricipite e il vasto mediale non mentono, gonfi, pompano, spingono senza sosta verso un traguardo che si sposta sempre un po' più in là, ad ogni passo.

E' una corsa contro se stessi quella di Arrigazzi (corpose e piene le ombre create sul muro che sembrano altri sé che corrono al suo fianco, superandosi; le luci sono di Fabrizio Visconti) nei panni di un attore-ciclista che ha affrontato la vita per vincerla, per batterla, per combatterla, ma in fondo, e lui lo sa, non ha spinto fino al limite, non ha raschiato il barile, poteva dare di più e l'insoddisfazione, la frustrazione, il malessere deriva anche da questo, da quel quasi, dai tanti forse, dalla mancanza di decisione nei momenti che contavano come uno sprinter in volata sul traguardo.

arrigazzi2Come ne “La Maratona di NY” di Edoardo Erba, dove lì i due protagonisti corrono su un tapis roulant, come ne “Le regola del giuoco del tennis” di Mario Gelardi lo sport è il sottofondo, è l'azione mantra che mordicchia senza essere protagonista, è contesto e pretesto, cornice dentro la quale muoversi in gesti ripetitivi che creano un tappeto dentro il quale accordarsi, accomodarsi scomodi, movimenti che ritornano, che incantano, che trattengono.

La bicicletta qui (grande lo sforzo fisico e la precisione, la dedizione e l'impegno di Arrigazzi) è sia compagno che aguzzino, sia confidente che avvoltoio, amico e sanguisuga che gli toglie le energie migliori. La bicicletta ha l'unica catena che ti rende libero. E' uno spettacolo non tanto sul ciclismo, nemmeno sullo sport, ma è un monologo sulla necessità di fare fatica, fatica come azione quotidiana per ripulirsi dai pensieri, fatica dosata per reggere meglio l'urto con l'oggi, fatica per essere più forti e più stanchi, più pronti e più tenaci. Ipnotizzano i raggi delle ruote che corrono come scorre il tempo sulle nostre rughe. Che poi i tempi non sono mai maturi oppure lo sono quando noi decidiamo di mettere un punto e cominciare a far sì che lo siano realmente invece di trascinarci tra mancate aspirazioni, cocenti delusioni, ambizioni fallite, chili di alibi, sensi di colpa senza prendersi le giuste responsabilità. Siamo noi stessi i primi grandi nostri nemici, ci freniamo, ci mettiamo i bastoni tra le ruote (appunto), ci fermiamo, ci facciamo paura.

“Tempi maturi” ci parla del cambiamento (dall'essere figlio a mettere al mondo un figlio, ad esempio), dei momenti di passaggio che vanno colti come papaveri di campo, di quegli attimi che è importantearrigazzi3 segnalare e selezionare, sottolineare e salvare nella nostra memoria, di tutti quegli scarti dove si percepisce chiaramente che gli ingranaggi hanno scattato all'unisono, di tutti quei crack che dentro di noi prima ci rompono per ricomporci più consapevoli. Ed il testo (scritto con abilità e cura, scelta delle parole e attenzione da Allegra de Mandato) è maschile e mascolino, muscolare e diretto che pare vergato da un uomo e allo stesso tempo presenta quella sensibilità delle cose perdute, dei margini sfuggiti, della non messa a fuoco, dell'impossibilità, della manchevolezza.

Mentre il protagonista corre, ininterrottamente in questo equilibrio precario, nel flusso del racconto di Arrigazzi (attore di razza, sempre concentrato e coriaceo ma anche permeabile alle emozioni che passano dalle parole sudate alle ruote e da queste al nostro ascolto sempre più partecipato: siamo tutti in bici con lui, tifiamo per lui, il nostro antieroe) si inseriscono dei piccoli sottocapitoli, capoversi illuminanti dove è percepibile il cambio di registro, la crescita dell'uomo anche grazie alle sconfitte, sempre mal digerite, alle cadute, mai accettate, ai lutti: si passa dai “Tempi Felici” di un passato recente, e ci sovvengono i giorni di Beckett, che diventano “Tempi Duri”, ci si impantana nei “Tempi Fermi” si arrigazzi4crede che i “Tempi stanno per cambiare”, si passa dagli agognati “Tempi di Guadagni” ai “Tempi Superficiali”, si incrociano i “Tempi d'attesa” pensando che siano ancora “Tempi Acerbi”, ed ancora i “Tempi Difficili” che lasciano il posto ai “Tempi di Confusione”, fin quando, finalmente, i “Tempi sono Maturi”. In questa grande galoppata, in questa cavalcata su quest'asfalto virtuale, passando dal lavoro dell'attore, gli amori leggeri, le piccole grandi prove che la vita ci pone davanti, la bicicletta (potremmo sostituirla con lo sport, la fatica, che è comunque prendersi cura, volersi bene, non lasciarsi scivolare nel torpore dell'oblio, dell'indifferenza) c'è sempre, come confronto con gli altri, termine di paragone, droga sana, palliativo, esigenza, tormento, necessità. Lo sport ti dice chi sei e a che punto sei, ti dice che se hai fatto molto non hai ancora fatto niente perché domani si ricomincia, ti dice che se molli non perdi contro gli altri ma perdi il rispetto di te stesso, ti dice che vincere o perdere vale ma vale di più dare tutto e sentirsi beatamente stanco e soddisfatto perché hai fatto il massimo. “Tempi maturi” è una dose di coraggio, è una spinta a non abbattersi, è un incentivo a pedalare anche quando non ce la fai più, anche quando, soprattutto, la salita si fa più ripida. I tempi sono maturi per vincersi, per battersi, per respirare: commovente.

Tommaso Chimenti 13/02/2019

BOLOGNA - “Per la ragione degli altri” fin dal titolo sembra posizionarsi e schierarsi e portarci sulla strada della morale accertata sociale che fa da muro e spartiacque verso gli atteggiamenti e le scelte personali. E ci fuorvia, ci manda fuori rotta. Perché, nella rivisitazione pirandelliana di Michele Di Giacomo e Riccardo Spagnulo, non si parla di rottura tra l'individuo e la società alla quale appartiene né, tanto meno, di famiglia, deriva e forzatura tra gli anacronismi del Nobel siciliano (ne è passata d'acqua sotto i ponti da quel 1895, anno di pubblicazione del testo) e i contemporanismi abbastanza discutibili. La trasposizione dei due autori (prod. Alchemico Tre e ATER, con il sostegno di ERT, visto in anteprima al Teatro delle Moline bolognese) ricrea un interno con tre televisori e altrettanti personaggi, asciugando il dramma familiare in un triangolo composto dal Marito (lo stesso Di Giacomo, sempre convincente, qui un filo remissivo) la Moglie e l'Amante.Per la ragioni degli altri foto 5.jpg

Molte infelicità messe sul piatto della bilancia, il Marito in grigio, la Moglie in bianco, l'Amante in rosso, rispettivamente l'appiattimento banale, la candidezza, il peccato. Tutto un po' stereotipato. Un matrimonio ormai finito o al limite fortemente compromesso per il tradimento dell'uomo, una Moglie sterile, il Marito che ha avuto, per debolezza più che per passione, per pietà più che per lussuria e appetiti sessuali, una figlia con una donna, l'Amante, che non ha mai amato. Il poveretto (lo salviamo, è travolto dagli eventi senza soluzione al rebus inestricabile) vorrebbe fare il romanziere ma la nascita della figlia, che sente più come una zavorra che come amore, lo costringe a riciclarsi come giornalista per un piccolo giornale di provincia. L'atmosfera è cupa e dannatamente pesante. Servono soldi per pagare casa e vitto all'Amante e alla figlia, la situazione con la Moglie è ai minimi storici.

PER LA RAGIONE DEGLI ALTRI.jpgPiù che altro è il dramma personale dell'Uomo contemporaneo, schiacciato, compresso tra più pulsioni e non in grado di soddisfare, soprattutto, le aspettative delle donne al suo fianco, non tanto per flebilità di polso e carattere, quanto per le condizioni che, al netto di insoddisfazione personale, precariato e post adolescenza diffusa e perpetrata, gli remano contro e lo naufragheggiano. Chiedersi, dopo questo spettacolo, che cos'è la famiglia, è fuori luogo. Non è la domanda giusta. Come portano su terreni impervi e scoscesi, soprattutto politicamente, le interviste (sembrano quelle pasoliniane sull'Amore) che ruotano attorno al concetto di Famiglia che sembrano essere state messe per confermare o consolidare la tesi conclusiva della piece (la deviazione Genitore 1 e Genitore 2?).

Se il testo ultracentenario pirandelliano non poteva, per i tempi nel quale è stato dato alla luce, tener conto della legge sull'aborto (alla quale poteva affidarsi l'Amante in altri momenti storici), sulla legge sul divorzio (della quale poteva approfittare la Moglie), dell'inseminazione artificiale (sempre la Moglie), dell'adozione (sempre la Moglie), del femminismo post anni '70 con un'altra consapevolezza e indipendenza, soprattutto economico-lavorativa, trovarcelo oggi come un emblema e un baluardo a favore delle coppie di fatto, delle unioni civili, dei matrimoni tra esponenti dello stesso sesso sembra quantomeno, come anticipato poc'anzi, forzato e tirato per i capelli. Non si avverte oggi tutto questo giudizio sociale “degli altri” in queste nostre attuali metropoli d'asfalto e indifferenza dove la morale, a volte purtroppo altre per fortuna, è una parola svuotata dai suoi significati. Qui forse, oltre al dramma del maschio contemporaneo, si sottolinea il potere, ovvero la possibilità di poter arrivare a soddisfare i propri bisogni attraverso il mercimonio: la Moglie infatti alla fine “comprerà” la bambina (che qui tutti trattano come una cosa da spostare e un oggetto sul quale far leva) che il marito ha avuto con l'Amante per ricreare quella Famiglia che non avevano potuto avere, causa la Natura matrigna.

Tutti e tre i personaggi sono perdonabili, sembrano con le spalle al muro, senza una reale scelta se non quella che alla fine prenderanno, senza vincitori né vinti. L'errore, la bambina, la pietra delloPer la ragione degli altri foto 1.jpg scandalo che non si può più nascondere, è l'ingranaggio che fa inceppare tutto il meccanismo borghese, il sistema di convenzioni (quale è inevitabilmente la Famiglia) ed è lo squilibrio che, paradossalmente, riaccende la miccia dell'unione, rinsaldando la Vera famiglia, i coniugi, e allontanando la scheggia impazzita, l'Amante, che aveva solo portato scompiglio e sconquasso nel loro menage. Interessante, ma non reale, Per la ragione degli altri foto 2.jpginvece la scelta registica di affidare il ruolo dell'Amante all'attrice meno avvenente e più matura delle due, uscendo così dallo stereotipo (ma confortato dalla pratica dell'oggi) dell'Amante che va a rimpiazzare la moglie anziana. Qui invece la Moglie sembra avere tutte le caratteristiche positive, bellezza, giovinezza, innamorata e soldi, mentre all'Amante non rimane che la miseria. Nello scontro-confronto il vincitore salta agli occhi dalla fase primordiale nell'impari lotta. Manca qualcosa, un gusto, un sapore, una ventata, una spolverata di realtà.

Tommaso Chimenti 27/12/2018

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