Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

MILANO – Esiste il “fine pena mai”, l'ergastolo per i più irriducibili e intransigenti criminali, e poi questo “Fine Pena Ora” che il regista sensibile Simone Schinocca ha messo in scena dopo una lunga gestazione. Incuriosito e coinvolto, affascinato e innamorato della storia epistolare tra il magistrato che aveva firmato la condanna e il carcerato (storia reale con i due protagonisti ancora in vita) che si sono scritti per trentotto anni prima di incontrarsi. Dal libro omonimo (ed. Sellerio) scritto dal giudice Elvio Fassone prima ne fu tratta una piece, per la regia di Mauro Avogadro, con Paolo Pierobon nelle vesti del detenuto (prod. Piccolo di Milano), poi Luca Zingaretti provò a trarne senza risultato un lungometraggio e infine il regista torinese della compagnia Tedacà è riuscito a riportare questo strano incontro tra due uomini dai valori agli antipodi al centro di un palcoscenico. Recentemente, a tema carcerario, per il grande schermo è stato girato “Aria ferma” e la serie “Il Re”. Da un lato un uomo condannato per oltre quindici omicidi, dall'altra un uomo probo, proprio colui che ha deciso la sentenza (non certo un “giudice” come lo descrisse De Andrè), che un giorno comincia a scrivere al detenuto aprendo il Vaso di Pandora, scoperchiando un rapporto che va avanti tuttora. Salvatore, questo il nome reale dell'ergastolano, non ha mai chiesto sconti di pena, non si è mai pentito, non si è mai dichiarato innocente, non ha chiesto perdono alle famiglie degli uccisi, non ha mai rinnegato Cosa Nostra, anzi è orgoglioso del suo silenzio, della sua omertà, di non aver mai parlato con7699_2.png la giustizia né aver fatto nomi, di non aver fatto la spia o, come si dice in gergo, “l'infame”.

E' proprio in questo solco tra due mondi distanti e impossibili da far coesistere nella stessa stanza che è avvenuto il miracolo dell'unione fatta di fogli di carta scritti rigorosamente a mano dove due persone di estrazione, formazione, vita vissuta così diametralmente opposta, si sono ritrovati in un terreno comune, il foglio bianco da riempire per raccontarsi, aprirsi, trovare nuove strade di comunicazione, di empatia. In una cella fatta da sbarre di corde con nodi come fossero tanti rosari appesi alle carrucole, corde che sembrano ragnatele o pentagrammi verticali (e i nodi le note) a creare un'opacità che non permette una visuale libera all'interno, un uomo (Salvatore D'Onofrio è pugnace e d'impatto, muscolare e di presenza solida nell'accogliere su di sé questa figura così “estrema”) rantola su una panchina. Intorno a lui si affolleranno visioni e fantasmi, apparizioni della compagna come dell'uomo di legge, epifanie che verranno a trovarlo, affacciandosi a quel mondo claustrofobico e minimale. Un sogno a tratti d'incubo. Un uomo dei clan, condannato in un maxi processo insieme ad altri 250 imputati, che si scrive di nascosto (se si sapesse all'interno dei corridoi del carcere sarebbe come firmarsi una condanna a morte) come ad un'amante segreta. Non si sa se per tenerezza o per senso06_Fine-pena-ora_ph-Emanuele-Basile-scaled.jpg di colpa, sarà proprio il magistrato (in scena Giuseppe Nitti in toga, attento e rigoroso, si muove fuori dalla frontiera di funi e cavi) che lo aiuterà con consigli pratici su come compilare le richieste per i permessi. Un senso di colpa non in quanto mano che ha deciso gli anni di punizione da scontare ma per la fortuna che alcuni hanno di nascere in alcune città e luoghi e in alcune condizioni familiari ed economiche, potendo studiare, rispetto ad altre fasce della popolazione che sono più soggette a cadere in mano, per povertà, analfabetismo e scarsa informazione, alla criminalità. La frase è “Se io nascevo dove è nato lui” che è un mettersi nei panni dell'altro, senza giustificare in maniera buonista le azioni ma considerando le attenuanti e anche che nessun uomo nasce cattivo o sbagliato o delinquente ma è un mix di habitat, famiglia, società e privazioni che lo portano sulla cattiva strada.

Il giudice muove il primo passo sulla scacchiera delle mosse tra i due regalando al carcerato “Siddharta” di Hermann Hesse 04_Fine-Pena-Ora_ph-Mauro-Biondillo.jpgche prima di allora non aveva mai letto un libro e nessuno gli aveva mai donato niente. Scatta qui il rispetto e l'onore tra i due, senza che mai comunque il detenuto scenda a compromessi con l'autorità. Il sempre appassionato, competente e concreto Schinocca (in questa produzione targata Tedacà, Stabile di Torino con Festival delle Colline Torinesi) non fa un elogio del detenuto, non ne fa un'agiografia ma punta la messinscena sugli uomini e i loro sentimenti, su questo incrocio fatto di lettere tra una persona colta e un semianalfabeta che in definitiva sono due facce della stessa medaglia. La gioventù che se ne va, le attese continue, gli spostamenti da una struttura ad un'altra, i rinvii o le cancellazioni dei permessi per fatalità o contingenze, il 41 bis, le visite della compagna (Costanza Maria Frola, in un doppio ruolo, carica di verità scevra da pathos ed enfasi). Quella stessa “moglie” che gli arriva in sogno con l'abito da sposa e che, nella scena più toccante e intima, il tulle soffocherà l'uomo come stretto, asfissiato in un bozzolo ormai inerme, sconfitto. La pena non finisce neanche adesso per Salvatore ma gli uomini cambiano e si può essere “uomini d'onore” anche soltanto scrivendosi lettere.

Tommaso Chimenti 10/05/2023

Foto: Emanuele Basile

MILANO – Per gli amanti del teatro Milano è il Paradiso; dove ti giri rimbalzano cartelloni colorati con date e nomi, titoli e registi. Impossibile non essere bulimico, impossibile poterli vedere tutti anche facendo i salti mortali e gli incastri da tetris. Se Milano è il Bengodi, è il Paese dei Balocchi per chi si ciba di pane e palco, l'Elfo è una delle sue massime espressioni. Qui, in qualsiasi periodo dell'anno, ti puoi affacciare nel suo foyer, sempre affollato, e scegliere tra le tre sale o farti anche delle piccole maratone giornaliere entrando e uscendo da differenti visioni: qualunque cosa si scelga, si cade bene, la qualità è garantita. E così abbiamo fatto, siamo entrati ed uscite prima ci siamo tuffati tra registri di classe e cattedre con “La lingua langue” e successivamente ci siamo buttati tra la terra rossa e le palline gialle di “Open”.lalingualangue-phLailaPozzo-690x460.jpg

Partiamo dal testo di Francesco Frongia con in scena il vulcanico ed eclettico, pirotecnico e sulfureo Nicola Stravalaci, un vero portento di dialettica, una mitragliatrice micidiale, arguto professore adesso generale alla “Full Metal Jacket” adesso maestra di danza di “Fame” tra ingiurie e sproloqui per vivacizzare la sua platea (i suoi alunni) di asini pinocchieschi. Una vera e propria interrogazione interattiva e partecipata (e molto impaurita: i traumi scolastici non ci abbandonano mai). Niente a che vedere con “La Classe morta” di Kantor. La sua, soprattutto il pungente ed intelligente testo di Frongia, ci porta nella deriva dei nostri tempi, nel declino iniziato con gli sms e concluso miserabilmente con whatsapp. Non sappiamo più scrivere ma qual che è peggio è che gli errori più madornali non sono più visti e percepiti come tali perché “tanto basta capirsi” e se non hai messo l'acca oppure hai scritto “qual è” con l'apostrofo non è importante. Se pensiamo male, scriviamo male e soprattutto viviamo male, diceva Nanni Moretti.Ntfi_13062019_Open_lamiastoria_foto_di_SalvatorePastore_L0A5340.jpg Oggi pare un'offesa, soprattutto tra i ragazzi, coniugare decentemente un verbo intransitivo o usare correttamente un condizionale o addirittura una consecutio temporum; sei visto come un sobillatore, un collaborazionista. E poi gli inglesismi a storpiare la nostra bella lingua secolare sostituendola con termini più efficaci certamente ma freddi e senza linfa. Nei suoi stivali da cavallerizzo, con il suo scudiscio segnala errori, con la sua grande matita appuntita (minaccia di farne un clistere per gli asini), Stravalaci è colorato e virtuoso, è il poliziotto cattivo, il professore arcigno fissato con i participi passati, l'uso degli articoli, un po' scienziato un po' Superquark. E poi ancora l'uso delle virgole o l'abuso dei punti esclamativi, o quello improprio dei superlativi, le doppie zeta. In video appare l'onorevole Razzi e abbinare il suo cognome a quell'aggettivo, lo so, fa accapponare la pelle. Come contraltare ecco Modugno e Pasolini. L'italiano è in continuo movimento e mutazione, non uccidiamolo prima del tempo, non gli pratichiamo l'eutanasia, non diamogli il colpo di grazia: la lingua langue dove il congiuntivo duole.

Proprio nei giorni nei quali il diciottenne Sinner, cognome altoatesino ma italiano, vinceva proprio a Milano il Next Gen, il torneo più importante a livello mondiale per le future generazioni di campioni con la racchetta, sempre all'Elfo andava in scena la vita del campione Andrè Agassi riassunta nella bellissima autobiografia “Open”. Testo meraviglioso, scritto da un Premio Pulitzer che ha affiancato il tennista, nel quale, più del tennis, emergono le dinamiche familiari soprattutto con il padre immigrato iraniano e portiere in un albergo a Las Vegas innamorato pazzo di set ed ace tanto da forgiare in prima persona con allenamenti massacranti fin dalla tenerissima età i suoi figli per dargli un futuro migliore, più ricco e più agiato di quello che aveva potuto garantire lui. La storia è emozionante, commovente, toccante, Ntfi_13062019_Open_lamiastoria_foto_di_SalvatorePastore_L0A5399.jpgla resa della compagnia Invisibile Kollettivo ha avuto alti e bassi. Intanto il muoversi sulla scena con il libro in mano allontanava la platea e non permetteva di lasciarsi andare pienamente al flusso delle vicende. In seconda battuta, la bella trovata di mettere al posto del volto dei cinque attori in scena un cartone con la faccia del tennista americano all'inizio è sembrava un escamotage azzeccato, quando però lo stesso effetto si è ripetuto per tutto l'arco della performance allora è sopraggiunta l'assuefazione e una certa stanchezza nei confronti del mezzo scenico. Passiamo ai costumi: se mi racconti la vita di un tennista puoi anche indossare abiti quotidiani, se invece nel mezzo del racconto vuoi cimentarti in battute da fondo campo, in top spin o discese a rete o serve and volley allora forse i tacchi non sono la cosa più indicata. Così come i movimenti: se hai l'ardire di mimare i gesti di un campione di net e lungo linea, di rovesci a due mani e smash forse quei movimenti devi saperli riprodurre invece di saltare come se dovessi schiacciare a pallavolo o danzare a corpo libero come libellule. Infine il telo centrale, quel velo spiegazzato che, se da una parte ha risolto scenicamente molte situazioni, dall'altra è stato abusato ed il sapore finale che ne è scaturito è stato leggermente amatoriale: il velatino per le proiezioni delle partite, il velo per le ombre, per i sogni contorti e gli incubi, il telo sempre troppo azionato, invasivo. Belle le scelte musicali da “Purple rain” di Prince, “My way” e “That's life” di The Voice. Sottotono rispetto alla materia incandescente che avevano tra le mani.

Al Franco Parenti invece vanno in scena gli Oyes con il loro nuovo "Schianto". Stefano Cordella sa scrivere per il teatro, la sua scrittura è un machete nella foresta, creando questi mondi paralleli, visionari, altri, debordanti, infarciti da dialoghi serrati, crudi di slang, sanguinosi di borgata che colano rabbia, cinismo, quell'acido gelo che nasconde la voglia di una carezza. Potremmo paragonare le sue drammaturgie, per lucidità e sprint, assonanze e slanci, a Carrozzeria SCHIANTO_Compagnia-Oyes.jpgOrfeo o a Bruno Fornasari dei Filodrammatici milanesi. Parliamo a ragion veduta dopo aver visto, nel tempo, “Vania” e “Io non sono un gabbiano”. Su “Schianto” (che vedemmo in fase di studio due estati fa a “Inequilibrio” a Castiglioncello) il quadro leggermente s'incrina, il vetro (come quello che riempie la scena e il fondale, pare un castello di ghiaccio come questi cuori resi duri e glaciali dal corso delle loro esistenze di solitudini) si frammenta e si crepa. Da una parte respira un'idea forte, dall'altra si ha la sensazione di aggiunte, di una eccedenza di particolari e storie che s'intersecano; se alcune parti sono troppo colme di elementi, altre avrebbero avuto bisogno di una maggiore analisi. Il gruppo degli Oyes (sempre intensi e in parte Dario Merlini, Francesca Gemma, Umberto Terruso e Fabio Zulli) comunque, dal punto di vista attoriale, regge l'urto ed ha la garra necessaria ad affrontare con grinta e tenacia questi testi dirompenti che fioriscono sul conflitto. Sta tutto nel titolo: “Schianto” appunto: un uomo solo per scelta e cinico manager ha appena saputo di avere un tumore sale su un taxi con un autista logorroico ignorante, sessista e razzista che sta per avere un figlio. schianto-cover-768x432.jpgLa frizione tra i due è naturale e logica e l'incidente con una figura mitologica e ibrida come uno strano essere che potrebbe somigliare ad un canguro (i rimandi a Lynch o Cronenberg si palesano). Forse sono già morti nel botto e si trovano in una sorta di limbo delle anime. Fin qui tutto scorre sul filo delicato di una poetica che taglia e di un'agguerrita dialettica aspra che cozzano creando una bolla di sospeso, irriverente e sorprendente che spiazza e affascina. Poi però, e qui sta l'assommarsi, l'accatastarsi di personaggi ed eventi, arriva un ragazzo travestito da Robin, che vuole salvare il mondo anche senza Batman, e una cantante mistress in latex disinibita e uno strano squallido bar nel bel mezzo del niente. Se prima ci poteva essere un equilibrio tra il credibile e l'incredibile, tra il plausibile e l'onirico, adesso, dopo le aggiunte, si ha la sensazione che la barra del discorso si sia un po' perduta alla ricerca del colpo ad effetto, della stravaganza allucinata, del tocco spiazzante che susciti un altro, ennesimo wow. E' quando la cantante prende la parola dal palco del locale che qualcosa si spezza e s'infrange e il patto tra platea e scena s'inceppa rendendo la visione non incredibile ma poco credibile, al netto della nostra mai richiesta di realismo e naturalismo.

Tommaso Chimenti 15/11/2019

MILANO – “Il padre di oggi non sa dire qual è il senso ultimo della vita ma è capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso”. (Massimo Recalcati)

La famiglia è allo sfascio, le derive del femminismo hanno creato danni irreparabili ad un'istituzione già agonizzante ma della quale adesso se ne sente la mancanza, battuta fin dalle fondamenta e adesso colata a picco come un colosso dai piedi d'argilla. Ad essere messo in discussione è tutto l'impianto sul quale si basa la nostra società occidentale. Se mater certa est, non si può dire per il padre, l'uomo. Anzi adesso per venire al mondo, o per creare un nucleo familiare, la figura maschile non serve neanche. Prendiamo la maternità surrogata. Il padre diventa così, sempre più, mero strumento00xy sorpassato però dalla tecnologia e dagli studi scientifici. Il padre è stato retrocesso a spermatozoo prima, a fornitore di alimenti poi. Il padre si sente così, dopo la nascita del figlio, di troppo, di peso a questa nuova coppia formatasi, madre-figlio, in un triangolo pericoloso dove lui raffigura il lato debole, l'angolo minoritario. Si va a perdere la carica e la spinta paternalista, quella cioè del rifiuto, dei no (da contravvenire), dell'autorità con la quale confrontarsi e scontrarsi. Il padre diventa così un soprammobile, da sostituire, con poca voce in capitolo, estromissibile, emarginabile, fa arredamento finché può. Se però il padre non dà regole ai figli per non contraddirli (i genitori danno ragione ai figli anche nei casi di scontro con altri tipi di autorità, vedi i professori) quando sono in famiglia, e successivamente, se la coppia si sfascia, vengono rimpiazzati da un altro uomo che non potrà dare regole ferme e salde a figli non suoi.

Il tema è complesso perché negli ultimi anni si è sempre e solo guardato l'argomento dal punto di vista delle madri-mogli con il padre che, visto che “non partorisce con dolore”, ha meno appigli sui quali dibattere, meno punti a suo favore. Sembra che essere uomo e padre sia più una condanna, una condizione di serie b, rispetto alla madre che ti ha messo al mondo, nel sangue, che ti ha passato il cibo attraverso il cordone ombelicale, che ti ha fatto sentire, e per nove mesi, il respiro, la sua voce e il battito del cuore. L'uomo resterà sempre indietro di quei nove 000xymesi e la forbice si allargherà con il tempo, dall'allattamento in avanti, soprattutto nell'età infantile. Però non gli si può fare una colpa a questo pover'uomo, dimesso e dimenticato, di non poter procreare con il proprio utero mancante. Dopo Dio, è morto anche il Padre.

Detto questo, formulate le nostre ipotesi e ragionamenti ci viene in soccorso una bella e intensa operazione, meglio progetto, coordinato dal regista e attore monologante in scena Emiliano Brioschi, che ha ideato questo “XY” commissionando a tre talenti della nostra scrittura drammaturgica tre brevi testi, componendoli sul palco con potenza, sulla figura del padre e sulla paternità. XY sono appunto i cromosomi del maschio, mentre XX quelli della madre. I tre nomi sono Renata Ciaravino (milanese, della Bovisa ci tiene a specificare, abbiamo assistito qualche anno fa al suo edificante “Potevo essere io” con Arianna Scommegna), Giuseppe Massa (palermitano, corroboranti “Sutta scupa”, “Chi ha paura delle badanti?”) e Cristian Ceresoli (autore del noto “La Merda” che spopola da anni). Tre scritture differenti, tre pigli, tre affondi, tre angolature, tre visioni per un mosaico disperato e poco speranzoso, drammatico e ironico a tratti, dove si tocca con mano il terreno scivoloso e lo sconsolato tentativo di questi uomini di un riconoscimento sociale, di un ruolo, schiacciati all'ombra delle madri, in un angolo, quasi in castigo, come se dovessero scontare secoli o millenni di patriarcato. Brioschi dà voce e corpo alle tre istanze, è trasformista e densamente rock, un vero e proprio leader, front man viscerale e profondo, un uomo sdrucito messo alle strette, spalle al muro senza tanto orizzonte davanti da poter osservare. Tre testi autonomi ma cuciti osmoticamente tra ombrelli da set fotografico e manichini (e con uno straordinario uso delle luci a cementare, di Claudine Castay) con abilità ed empatia in un affresco che dipinge l'uomo, il maschio alfa, il padre come naufrago in un sistema che cambia troppo velocemente e con il quale, contro il quale non sa prendere le giuste contromisure lasciandosi travolgere. Ulisse non esiste più ma in giro ci sono tanti Telemaco alla ricerca disperata di questa figura che si è voluto, scientificamente e politicamente, abbattere, eliminare, mettere in cantina e data per superata, obsoleta.002

In “Buddy Love” della Ciaravino, il figlio è visto come la zavorra ai sogni di quest'uomo, stanco, disilluso, sfibrato, insoddisfatto, il figlio come scudo e alibi da una parte, come problema, incaglio alla felicità dall'altro, limite invalicabile, muro che non permette di raggiungere i propri desideri, la propria affermazione. Buddy è un tastierista e il bambino (in tutti e tre il bimbo-figlio non ha voce, è silente ma è come se ogni suo respiro s'amplificasse assordante, despota nelle scelte di questi due adulti che “tiene in ostaggio” nella sua dittatura naturale che tutto vuole e tutto prosciuga) dorme dietro in macchina che, come in un road movie, nella grande avventura della vita, accompagna il padre, evidentemente contro la sua volontà, come bagaglio pesante che rallenta e fa inciampare. Non è colpa del figlio, non è colpa del padre. Si sentono, quasi si potrebbe mordere da quanto è spessa questa coltre, devastazione e abbattimento, depressione e sconforto, dell'essere triturati in un sistema senza più vie di fuga, senza più scappatoie o uscite: cane alla catena. Una volta che si è padri lo si è per sempre. E molti non sono pronti, e non è un fatto di essere responsabili o essere adolescenziali o essere afflitti dalla Sindrome di Peter Pan, e non lo saranno mai. Forse anche poco aiutati dalle donne al loro fianco o dalle avversità sociali, in primis la carenza di lavoro e il precariato, che certamente non aiutano la serenità. La Ciaravino ha il grande dono di un'ironia secca che ti culla fino al cambio di registro che ti coglie sempre impreparato e intontito, perché ridi e dopo averlo fatto ti trovi a vergognarti dell'aver sorriso in una sorta di continuo senso di colpa. Questo padre è, come tutti noi, un uomo medio, un gregario, uno sparring partner, certamente non un supereroe e come tale si muove tra mille difficoltà, sentendosi sempre in difetto, sempre in deficit e per questo si lacera dentro e muore sempre un po' di più perdendo autostima e quella del figlio che in lui non riesce a vedere un esempio da seguire ma solo un uomo che non ha avuto il coraggio di prendere la vita per le corna, un rammollito pieno di rimpianti che ha messo i sogni in una discarica, morendo ogni giorno di più tra la periferia frustrata dell'anima e il provincialismo del cuore.

003Nell'avvolgente “Valentina” di Massa è il gran snocciolamento di nomi (per il futuro nascituro) a farci cadere nella cantilena, in quella patina di allegria e spensieratezza pre-parto che coglie tutte le coppie in attesa. Man mano che si scivola nel testo ci si rende conto che c'è un'unica voce a dichiarare, a sentenziare nella sua finta felicità, a spiegare e articolare. E' la voce della madre; il padre, trattato alla stregua di un inseminatore, è un qualcosa che deve solo asserire e acconsentire, il suo silenzio è preso per assenso e non per perplessità o dubbio. A lui viene chiesto di fare la sua parte primordiale, quella primitiva e di essere, anche, contento e felice. Ma nessuno chiede mai ai padri se sia arrivato il loro momento biologico, se sia scattato il loro tic tac interiore. Quando questo padre mangia, divora letteralmente avidamente quasi fagocitandola animalescamente, un'arancia, con il succo che esplode e si spande, sembra di vedere una bocca di bestia che dilania una pancia di mamma, estinguendola. Ci sono donne che arrivano alla gravidanza per riempire dei vuoti esistenziali mentre l'uomo pare implodere come schiacciato da questa nuova vita che lo annienta, lo soffoca.

Altamente angosciante è il terzo (ma non ci sono stacchi violenti, è un continuum che scivola senza fratture), “La pratica del dolore” di Ceresoli, che vira (troppo) allo splatter e al crime, con un medico che ha perso il figlio e che, per rivalsa e vendetta, pratica e induce aborti non richiesti a pazienti in visita di controllo provocando lo stesso dolore da lui provato. “Se un figlio senza padre si chiama orfano, come si chiama un padre che non ha più il figlio”?004

Una donna non potrà mai assorbire in sé la figura femminile e quella maschile, la femmina e il maschio, la madre e il padre. La biologia e millenni di evoluzione stanno lì a certificarlo. Il padre è utile e fondamentale prima nel concepimento e durante tutta la crescita del nuovo individuo. Brioschi è un fuoco adrenalinico in un corpo a corpo con il pubblico, è completo, convinto e convincente nel tratteggiare quest'umanità colma di debolezze, incerta, indecisa, frammentata, senza aiuti, nel disegnare questi padri abbandonati a se stessi, alle loro miserie quotidiane. Una bella intenzione originale, tre penne attente, un attore solido per un tema tutto da scartavetrare. Senza paure, senza buonismi.

“La funzione simbolica del padre è appunto nell’unire il desiderio alla Legge attraverso un processo di conciliazione. Questa unione avviene non solamente attraverso la coercizione autoritaria, ma soprattutto offrendo una sponda al desiderio debordante. Il compito del padre è trasmettere il desiderio da una generazione all'altra, è permettere l'eredità”. (Massimo Recalcati)

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Digital COM