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FIRENZE – “Dicono che c'è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare, Io dico che c'era un tempo sognato che bisognava sognare” (Ivano Fossati, “C'è tempo”).

Nel doppio binario di un tempo interiore e di un altro oggettivo si svolge la vicenda portata alla luce da Saverio la Ruina che, con la grazia e l'eleganza di sempre, ci fa entrare dentro la propria vita, il proprio vissuto, la propria città e famiglia. E lo fa aprendoci la porta su uno dei dolori più grandi per ogni essere umano: la perdita di un genitore, la scomparsa del padre, pilastro saggio, uomo di poche parole ma di grande tempra, senza fronzoli, senza grilli per la testa. “Via del Popolo” è una camminata che facciamo insieme a lui nella quale ci accompagna e ci mostra quel che era e quel che è della sua cittadina, quella Castrovillari famosa teatralmente per il festival “Primavera dei Teatri” organizzato dalla compagnia Scena Verticale che ha fatto conoscere a tutta Italia questo comune sotto al Monte Pollino e a trenta chilometri dal Mar Tirreno come dallo Ionio. Una strada come pretesto per raccontare una città, e una società e una socialità, cambiata, mutata nel tempo, forse peggiorata, sicuramente modificata e diversa. Attraverso questa passeggiata conosciamo la perdita e questo tempo (il vero protagonista della pièce, simboleggiato dalla scena con la riproduzione DSC_2566.jpegdell'orologio fuso e sciolto di Dalì) che passa e trasforma e travolge le persone come le cose e cancella mondi costruendone di nuovi. C'è nostalgia e ricordo ma è un racconto non chiuso nella sua Calabria ma aperto e universale perché ognuno di noi potrebbe apporvi le proprie origini, strade e piazze e provare quel senso di inadeguatezza rispetto ai tempi moderni e un biascicare tra i denti un “ai miei tempi” oppure “quando ero piccolo”.

Il padre e la città, il padre è la città, il padre è la solidità delle pietre, dei muri, delle case, la protezione, il lavoro, quell'intorno costruito e difeso con i denti e le unghie con il sudore e la fatica, la dignità dello sgobbare, la pulizia e l'onestà di farcela con le proprie forze nel rispetto degli altri. Il padre Vincenzo è venuto a mancare qualche anno fa ad 84 anni e c'è commozione nelle parole di Saverio che lo ricorda con il giusto distacco del teatro ma tra le righe l'emozione è, giustamente, forte e con questa lieve fragilità ci rende e dona tutta la sua incredibile umanità, quel suo tocco leggero sulle cose che racconta, quella carezza affabile della sera, quella vicinanza, quell'abbraccio. La città è il padre, è la sua protezione, è il sentirsi al riparo sotto la sua ala di regole salde e principi solidi. La Ruina, con la giacca bianca da cameriere visto che i suoi avevano un bar, ci fa immaginare volti e piazze, incontri e sorrisi, caratteri e vicende con una autobiografia tenace e robusta ma al tempo stesso commovente e toccante nei trascorsi della sua famiglia che è cresciuta, si è consolidata fino alla vecchiaia, fino a quel passaggio naturale delle generazioni, il testimone che scivola di mano in mano con rettitudine, gratitudine, giustizia. Ci si immerge in questo romanzo di formazione e ci si immagina il grande attore DSC_2578 (1).jpege drammaturgo piccolo, poi a giocare a calcio nei campetti polverosi di periferia, a scuola o intento a dare il primo bacio che è ancora stampato nella sua memoria.

Ma il tempo non lo puoi fermare né governare, certo si può dilatare o restringere come l'universo e i buchi neri: “Il tempo non si può misurare: non vorrai dirmi che un'ora di piacere, un'ora di dolore, una di gioia, una di paura, hanno tutte sessanta minuti?”, diceva il filosofo Raimon Panikkar. Il tempo è strettamente personale e qui La Ruina ci fa partecipi e condivide il suo intimo con tutta la platea, donandosi generoso, aprendo i cassetti della sua esistenza, mettendosi a nudo, senza paure, regalandoci i sorrisi elargiti come il dolore sofferto e patito. Ma è la tenerezza che lo abbandona mai, verso la sua infanzia e adolescenza, verso il suo comune di residenza, verso i genitori, verso il padre tratteggiato mai come padrone ma come caposaldo, colonna, fondamenta alle quali appoggiarsi. E' un viaggio dagli anni '60 ad oggi e che in questi decenni vede parallelamente cambiare la sua famiglia, prima crescere poi invecchiare, e cambiare la sua città, prima modernizzarsi e poi perdere per strada un po' di magia e folclore globalizzandosi come ogni angolo del mondo. Impossibile non riconoscersi non tanto nei luoghi quanto nelle sensazioni e nelle atmosfere degli aneddoti, dei mestieri spariti, i soprannomi, gli amori dimenticati fino a toccare la politica e la malavita della zona. E' un quadro, un affresco dipinto con i colori tenui dell'anima, questa pasta inconsistente che non riesci a stringere ma della quale cogli benissimo l'essenza, come dice da testo “la collina di Spoon River”. Brividi sparsi.

Mi basta il tempo di morire fra le tue braccia così” (Lucio Battisti, “Il tempo di morire”).

Tommaso Chimenti 23/12/2022

CALENZANO – Riuscire a tratteggiare il massacro del Circeo, come comunemente e mediaticamente è stato codificato, senza la narrazione della violenza, senza entrare in facili e raccapriccianti particolari realistici, senza scegliere la semplice tentazione di mettere sul piatto dettagli macabri e sanguinolenti, voyeristici da giornale di gossip, era un'impresa ardua. Il Circeo, 1975, è il caso che aprirà il procedimento per modificare lo stupro da reato contro la morale a reato contro la persona. Ma qui in “Circeo, il massacro” (prod. Teatro delle Donne, Idiot Savant) nel testo di Filippo Renda, anche regista, e Elisa Casseri, i salti drammaturgici sono molteplici fin dal creare una storia parallela, perfettamente autonoma, miscelandola con inserti delle dichiarazioni di Donatella Colasanti, la sopravvissuta delle due ragazze torturate e seviziate dal trio Izzo-Ghira-Guido. Quella scritta ex novo potrebbe essere una storia alla Charles Manson o alla Funny Games o ancora simile ad Arancia Meccanica, la messinscena con una coppia di ragazzi che, nella casa al mare di famiglia, ricevono un'altra coppia che sembra sapere molto della ragazza.Circeo-il-massacro-2.jpg

Non vi è un parallelismo preciso tra il Circeo (il titolo però resta fuorviante) e la scena ma non era questo l'intento degli autori; sarebbe stato troppo didascalico. Qui, hanno voluto descrivere non tanto i fatti, noti, quanto le condizioni, l'humus e l'habitat dove certe idee e pulsioni nascono e si alimentano, dove trovano terreno fertile, lasciando ampia scelta allo spettatore se immergersi nella storia descritta o se trovare agganci al massacro. Emerge potente un mix di inquietudine e violenza, prettamente psicologica, di mistero e sospensione che tiene legati, che avvolge e coinvolge. Una storia nella Storia che esalta la vicenda cronachistica arrivando all'essenza, spolpandola di macabro e riempiendola di tessuto sociale, di guerra tra i sessi, più che altro cruda e arida misoginia, di battaglia tra gli strati sociali e le classi, come all'epoca dei fatti processuali con il trio sadico d'estrazione alta e le due ragazze popolare. Tanti scarti, tante briciole disseminate in questa scrittura che appena ti ha convinto della lontananza dalla storia del titolo ti ci fa ripiombare con ancora più forza in un elastico di attrazione e repulsione che tocca lo spettatore con la cronaca ma ancora di più lo punge con la ritualistica attualità, con la plausibilità del ripetersi, con la banalità scontata dei nostri giorni.

Una coppia di giovani (Arianna Primavera e Luca Mammoli) vuole passare nella villa al mare, degli abbienti genitori di lei, qualche giorno d'estate. Dovrebbero essere soli, dovevano essere soli. Non stavano aspettando nessuno. Si palesano, la prima notte del loro soggiorno, due strani individui (Michele Di Giacomo, ha lo Shining e il fuoco dentro, e Alice Spisa, equilibra dolcezza compassata e succube a momenti nei quali ci ha ricordato Rosa del delitto di Erba), ora collaborativi e accondiscendenti, adesso complici, irosi, scattosi e nervosi, soprattutto abili manipolatori. L'uomo dice che conosce la famiglia della ragazza (in epoca di social network è ancora più facile ricreare e studiare le vite degli altri e apprendere particolari e date da foto, post, scuole frequentate, lavori svolti, persone conosciuti, eventi ai quali si è partecipato nel tempo) e che sono stati proprio i genitori di lei ad invitarli nella loro casa al mare per le vacanze. I due sono abili a descriversi come quello che non sono o realmente i sospetti e la cappa di mistero attorno a loro sono eccessivi? Fingono bene, sono impostori imbonitori o dicono la verità? Ormai il nemico è in casa e ora si fanno benvolere adesso attaccano, ora entrano in relazione intima e confidenziale adesso Circeo.-Il-massacro-pic.jpgincalzano e giudicano in maniera invadente, si impongono entranti, prima si alleano con l'uno o con l'altro per poi cambiare squadra e fazione.

Ma è il gioco da tavolo che i due portano in casa, vero Cavallo di Troia per far saltare il banco, per far esplodere la tensione, per accendere la miccia e surriscaldare gli animi in un tutti contro tutti, un perfetto “gioco al massacro” dove qualcuno conosce le regole e qualcun altro non ne è all'oscuro, dove ci si diverte vessando gli altri, offendendoli, umiliandoli, portandoli al limite: un frullatore di ordini, strategie, urla, dinamiche di guerriglia, punizioni, regolamenti di conti, sadismo. E dire che c'è già tutto dentro quella parola Circeo tra maga Circe e quel Circo mediatico che ne è conseguito. Gli stacchi, quando si sentono le parole e le dichiarazioni della Colasanti, ci fanno ripiombare dentro il delitto che non fu soltanto un omicidio e che non fu solo uno stupro: domande irricevibili e senza sensibilità (sconvolgente l'intervista di Enzo Biagi, deontologicamente fuori luogo e imbarazzante), un corpo dato in pasto a giudici, tv e giornali, sempre le stesse domande ad una donna svuotata divenuta simbolo senza che nessuno si preoccupasse della sua persona, trattata come merce da documentario, materia da casistica per sociologi, teorici e antropologi.massacro-circeo.jpg

Ma, ed è questo l'aspetto che più di altri fa rilucere il testo, alla fine si ha la sensazione che tutto l'inscenato, la fiction sul palco, non sia altro che il tentativo ingenuo, giornaliero, della Colasanti, di rivivere, certamente in altro modo e con altre modalità, quello che le era capitato, quello che aveva dovuto subire. Sostituendo con ricordi falsi e insistendo su questi negli anni ed avendo così la sensazione di esorcizzare l'accaduto. Se ti dici spesso una stessa menzogna questa alla fine diventa verità. Ma nel suo caso, il suo martirio non è mai terminato, come Prometeo e l'aquila che gli mangia ogni giorno il fegato, e anche i ricordi inventati finiscono tutti allo stesso identico drammatico modo, senza salvezza, in una Via Crucis di spine, un iter di inutile sacrificio.

Tommaso Chimenti 13/03/2019

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