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ROMA – “C’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo” (Fabrizio De André).

Dopo la pioggia si dice che torni sempre il sereno. E ancora: “non può piovere per sempre”, corvescamente parlando. L'acqua lacrimevole che scende dal cielo (torna in mente anche “X agosto” di Pascoli) in questo “Dopo la pioggia” (prod. Aria Teatro, Fattore K; visto all'interno della bella stagione del Teatro Basilica) porta in sé una cappa lugubre, di stallo, un affossamento che attanaglia, stringe come cappio, teatro-262.jpgnon permette slanci o voli, blocca a terra, tarpa le ali, una campana di vetro che da un lato protegge dall'altro incatena. In una situazione claustrofobica, con una finta allegria che aleggia e si spande e si disperde ammantando le quattro pareti domestiche dove tutto pare ammuffire e stagnare senza respiro in apnea, due sorelle (Chiara Benedetti e Aida Talliente), problematiche, patologicamente inseparabili e indivisibili, irrisolte, forse incestuose, vivono in simbiosi immerse in un amore formale e tedioso tra vecchie canzoni nostalgiche, gesti sempre uguali e tanta retorica sparsa sui buoni sentimenti. Lucio Dalla avrebbe affrescato così il momento: “Quale allegria se ti ho cercato per una vita senza trovarti senza nemmeno avere la soddisfazione di averti per vederti andare via”. Interessante il fondale che presenta un bianco sporco come mani e passi infangati sopra una fresca nevicata. Il senso d'abbandono e di perdita è il contraltare, e il contrappasso, di stucchevoli canzoncine di inizio Novecento che effettivamente si sostituiscono alla drammaturgia senza parole.

Le due sorelle silenti, in un play muto, si parlano attraverso lettere (che ascoltiamo in audio), forse mai spedite, pensieri carichi di enfasi, pesanti, arcaici senza però raggiungere mai la cifra poetica. L'acqua, che qui non pulisce ma acceca e insozza, contamina e imbratta, una pioggia che pare dopo la pioggia.jpgnon permetta alle due consanguinee neanche di uscire di casa e quindi le costringe come cani alla catena e impedisce loro di vedere il mondo là fuori, è una muraglia impenetrabile, frontiera e cascata che non lascia spiragli di visione, stralci, spazi di manovra, crepe dove ammirare quel che si muove al di là della barriera. Una pioggia punitiva come filo spinato che incarcera creando un perimetro asfittico sempre uguale a se stesso dentro queste mura che le soffoca in una tranquillità finta di movimenti sincopati identici ai giorni precedenti. I due personaggi alternano la loro anzianità (troppo forzati, irreali, non credibili e accentuati i movimenti delle anche dondolando vistosamente) con ricordi della loro gioventù tra capitoli che scandagliano e scansionano e frammentano la narrazione, quadri. C'è una frase: “Volete stare nel passato per proteggervi”; ma questo passato non fa altro che acuire, accentuare, pungere maggiormente calli e zoppie monocorde, senza cambi di marcia. “Alcuni dicono che la pioggia è brutta, ma non sanno che permette di girare a testa alta con il viso coperto dalle lacrime” (Charlie Chaplin).

Troppa, davvero troppa, musica, dischi ascoltati fino all'ultima nota e diapositive a incastonare un lavoro fragile, a tratti sopra le righe, altre pioggia_imagefullwide.jpgsommesso, timido, stanco. Una serie di movimenti e situazioni, scene, che non riescono ad andare in profondità e a raccontarci l'amore, la morte, il passaggio del tempo, il rimpianto, la malinconia. Rimaniamo invece sempre un po' in superficie con la musica, leggera e trasognante a puntellare di illusioni questo universo che le due si sono create, non vivendo la vita vera, rimanendo ancorate ad una infelicità solida e tangibile. Anzi, sono l'una l'infelicità dell'altra, l'una la salvezza dell'altra. Come se, in maniera depressa e sottomessa, avessero aspettato fin dall'inizio la loro fine per sentirsi libere e liberate l'una dall'altra. Infatti, appena una delle due lascia questo mondo terreno sembra che si spezzi la catena, l'incantesimo che le teneva in simbiosi (forse contro la loro volontà e non per amore ma per p(a)ura dipendenza); la pioggia smette di cadere, il sole torna a splendere ma ormai la vita è perduta, sciupata, buttata. Una pièce che si articola e dimena tra la parodia e il dramma, delicata ma che non riesce a proporre spunti e riflessioni, rimanendo sulla crosta del magma, senza sporcarsi le mani, senza andare a fondo, immergendosi in questa impossibilità, in questo “vorrei ma non posso” accennato e lasciato in mano alle canzoni più che alla scena. “Amo la pioggia, lava via le memorie dai marciapiedi della vita” (Woody Allen).

Tommaso Chimenti 21/01/2023

PERUGIA – “Occhio per occhio e il mondo diventa cieco” (Gandhi). Quello che differenzia l'animale dall'uomo è la parola, l'argomentazione, la retorica, il saper ragionare attorno ai temi sviscerandone i vari aspetti, prendendo il focus da molti punti di vista. Tutti gli uomini parlano, o hanno facoltà di farlo, ma pochi illuminati escono dal binario dicotomiale di vero o falso, buono o cattivo, brutto o bello. E' la guerra infinita tra la semplificazione, che va dritto per dritto, e la complessità che comprende in sé la multisfaccettata realtà che si dipana nel nostro contemporaneo. Di questo secondo paniere certamente uno dei capostipiti di questo tipo di pensiero aperto di vedute e pronto al rilancio intellettivo e discorsivo era senza ombra di dubbio Aldo Capitini, umbro, autodidatta, fautore della non violenza, pacifista, gandhiano, vegano, ideatore della Marcia della Pace Perugia – Assisi. Un uomo venuto dal basso ma divenuto, per sete di conoscenza filosofo e insegnante, punto di riferimento di una cultura che voleva fronteggiare l'odio con la parola, l'aggressività con la ragione, la brutalità delle armi con l'arma della logica, la crudeltà e la ferocia delle bombe con l'ascolto. Il periodo storico, con l'aggressione vigliacca della Russia nei confronti dell'Ucraina, rende il pensiero capitiniano ancora più attuale. “L'uomo è l'unico capace di uccidere un suo simile non per fame ma per rabbia o avidità” (Erasmo da Rotterdam).

 

In questo clima l'autore Nicola Mariuccini ha omaggiato il suo Maestro con la pièce “La Pace al Tramonto” (prod. La MaMa di Spoleto; titolo pessimista) all'interno della Galleria Nazionale perugina proprio nella sala dedicata a Capitini, la stanza dove studiava e dove campeggia il grande orologio della torre. La messinscena strizza l'occhio ai tanto in voga format televisivi, parodiandoli, i talk show dove più si urla e si interrompe l'avversario e più si è ascoltati da casa, dove l'arroganza è la miglior arma per essere richiamati davanti alla telecamera per confutare con il caos e il fango le opposte fazioni di opinioni. Siamo dentro la Sala dell'Orologio e la platea dello spettacolo diventa quella di uno studio televisivo pronto a godersi lo scannarsi urlante di voci bercianti e isteriche; davanti a noi il rosone del gigantesco quadrante e sembra immediatamente e magicamente di stare dentro la pellicola “Hugo Cabret” con le lancette e gli ingranaggi che si muovono in questo Sol dell'Avvenire meccanico. “In pace i figli seppelliscono i padri, mentre in guerra sono i padri a seppellire i figli” (Erodoto).

mariuccinin_DSC_58891674076861465.jpgCome ogni talk (questo si chiama “Time Insider”; sono spassosi e profondi anche gli spot) che si rispetti ci sono gli ospiti in studio che abbracciano potenzialmente le posizioni disparate di più pubblico da casa possibile, un prete (Maurizio Modesti dona sostanza), un'esperta destrorsa di studi militari (Caterina Fiocchetti puntuale e tagliente), la conduttrice granitica dal nome Italia (Olga Rossi si muove tra i diversi registri), gli interventi in video di altre figure che entrano in gioco, dicono la loro, lanciano nell'agorà altra carne da mettere al fuoco, escono dal collegamento in una giostra che non concede pause. Perché anche i più piccoli momenti di stasi o riflessione vengono soppesati e bollati da chi fa tv e da chi sta sul proprio divano casalingo come noia, tedio e voglia di fare zapping ossessivo-compulsivo-patologico. Quello che però scatena questa frizione spazio-temporale e che fa aprire una porta, una crepa d'immaginazione è il custode del museo (Francesco Bolo Rossini, qui anche regista, attore solido e di esperienza) che trova a terra gli occhiali simbolo di Capitini (oggetto-feticcio caduto nella polvere e nel dimenticatoio e nell'oblio): il guardiano mettendoseli sente un'improvvisa forza che lo governa, che lo abita, che lo possiede (come in “The Mask” con Jim Carrey), facendolo pensare, parlare ed esporre come il filosofo umbro che, come in un sogno, s'apre al miraggio facendo nascere quest'oasi argomentativa in un tutti contro tutti frizzante, elettrico d'argento vivo. “Combattere per la pace è come fare l'amore per la verginità” (John Lennon).

Gli stereotipi IMG-20230118-WA0011.jpgmessi in campo fanno parte del gioco teatrale ed esaltano i contraddittori che qualcuno accetta ribattendo e qualcun altro (fino alla chiusa finale inaspettata e sorprendente che non spoileriamo) invece subisce come attacchi alzando i toni e perdendo la dovuta e necessaria calma. Altro interessante snodo drammaturgico da parte di Mariuccini (una scrittura alta e comprensibile insieme, affatto letteraria e al tempo stesso scorrevole, lucida a tratti anche di leggera e divertente parodia) è stato quello di riuscire a trasporre la guerra di Troia ai nostri tempi moderni, ad incastrare le vicende di Elena, Agamennone, Achille, Ulisse con i nostri giorni di missili e droni, di trincee e mig, in un mix intelligente e carico di suggestioni, come a dire che la guerra è sempre la stessa, da millenni e forse sarà sempre così perché l'aggressività testosteronica è uno dei tratti distintivi dell'Essere Umano. “La Pace al Tramonto” dona molti spunti interessanti e mai banali, tanti rimbalzi, un ping pong svelto e felice tra le diverse voci in studio ai quali si aggiungono due perle, due chicche, due cammeo che danno nuovo e genuino lustro all'intera operazione: si collegano infatti un generale crudo e spietato direttamente dal campo di battaglia (la voce e lo sguardo inconfondibile di Paolo Pierobon) e un filosofo, vagamente cacciariano (il regista Nanni Moretti), che sono veramente due sorprese, di senso ed estetico e che danno brio e sono molla. Non si può essere d'accordo con uno o con un altro degli esponenti che starnazzano azzannandosi nei microfoni tentando di spiegare le loro ragioni e visioni del mondo: tutto diventa una pappa indistinta di pancia e testa che confliggono e non collimano. La Pace non è al Tramonto, si sta solo riposando in sosta aspettando attimi più fecondi e generosi per poter nuovamente uscire allo scoperto, senza cecchini pronti a spararle, senza bombe a grappolo, senza mine antiuomo lasciate a terra per confonderle con giocattoli. “La pace è un sogno ma può divenire realtà. Ma per costruirla bisogna essere capaci di sognare” (Nelson Mandela).

Tommaso Chimenti 20/01/2023

FIRENZE – In questo mondo di estetica, fatto d'immagine, dove conta più la quantità che la qualità viene considerato e ricordato chi lascia il segno, chi appone la sua firma, e che sia riconoscibile appunto come Zorro. Il nostro spadaccino contemporaneo però passa inosservato, senza nome, se ne sta agli angoli, ai margini, nell'ombra, conta i treni, gira nei suoi pensieri, per giorni non apre neanche bocca, nessun suono esce dal suo corpo. Ma “Zorro” (prod. Prima International Company, visto al Teatro Puccini) non è nemmeno una persona, è un cane, anzi due, o identifica proprio una vita da randagio, zingaro, mendicante d'amore. Dopo vent'anni ritorna in scena il monologo che Margaret Mazzantini scrisse per il suo compagno di vita, Sergio Castellitto che dimostra padronanza, prontezza, centratura nel delineare un carattere nelle sue sbandature scomposte dell'esistenza, un antieroe sporco e tenero, una discesa fino al budello delle fogne dell'anima. C_Marco_Caselli_Nirmal_Teatro_Comunale_Ferrara_YC017_2348-1500x1214.jpgIn scena fumo, nebbia e una panchina, il suo letto, giaciglio, casa e un oggetto-feticcio con il quale dialogherà e toccherà e cercherà un contatto per tutta la piece (1h15'): una coperta isotermica (un po' come quella di Linus), di quelle che quando le tocchi friggono, che paradossalmente ha un lato dorato e il rovescio argentato per una vita che al contrario il podio e le medaglie non le ha mai viste.

Il racconto è cadenzato dalla musica che chiude i quadri in questo blu di fondo che tutto ammanta e dove Castellitto sparisce, un blu che rappresenta il sogno-incubo, quel torpore che ha contorni d'irrealtà, che sfugge alla logiche, quel tangibile che si sfa, che si annacqua, che si scioglie tra annebbiamenti, mostri, paure, desideri ormai fuori controllo e fuori portata. “Starry Night” di Don McLean, ballata dedicata alla parabola di Vincent Van Gogh, apre e chiude questa parentesi, questo occhio di bue su uno sconfitto dei nostri giorni, un reietto della società, un rifiuto, un perdente, un fallito, epiteti visti dalla prospettiva di quelli che lui chiama “cormorani” cioè tutti noi, borghesi in platea, con i nostri vestiti buoni e le nostre certezze che altro non sono che castelli di sabbia che un dolore qualsiasi può spazzare via in un attimo perché non siamo temprati alla sofferenza ma soltanto ai consumi, alle comodità, agli agi, al voglio, pago, pretendo. Il cormorano è molto pigro ma è anche un buon volatore e nuotatore ma per questo tipo di uccello è il decollo dall'acqua la parte più difficoltosa e dove appare impacciato. Quindi il borghese sta e armeggia al meglio con i suoi strumenti nel suo habitat ma il complicato arriva quando deve spiccare il volo.

Ma Sergio_Castellito-004.jpgil nostro Zorro è un cane nella metafora e nel parallelismo tra randagismo e vagabondaggio; un cane è l'impossibilità delle carezze e della tenerezza, un cane che è il quid e la molla che scatta, il filo della presa che improvvisamente stacca la corrente, il crack che “incrina il vetro” anche se ancora non si è spezzato. Senza orologio, “la mia testa galleggia in un ricordo di anni fa” e quel cane trovato per strada del quale la madre, seppur amata, se ne era liberato. Una crepa che non farà altro che allargarsi, un tarlo che si mangerà dall'interno il ramo, la corteccia e l'albero intero. Che la mazzata non arriva all'improvviso, tutta insieme, è invece una goccia cinese di accadimenti ed eventi che si sommano, si accatastano ai quali non fai neanche caso fin quando non ti accorgi del muro che è issato attorno a te, della terra bruciata, dei solchi tra te e gli altri. In questo mondo C_Marco_Caselli_Nirmal_Teatro_Comunale_Ferrara_YC017_2348-1500x1214.jpgse sei goffo perdi terreno, inciampi nella dislessia dei sentimenti, travolto da un sistema tanto fragile quanto cattivo.

E allora il nostro (potrebbe capitare a tutti di scivolare nel gorgo della depressione) dopo essere stato privato da adolescente dell'unico essere che lo ascoltava, il cane, dopo la scomparsa della madre, un incidente che gli cambierà la vita (omicidio colposo stradale, può davvero capitare ad ognuno di noi; vengono in mente tragedie accidentali simili legate a volti noti), smette di andare a lavoro e inevitabilmente si separa dalla moglie: la frittata è irreparabile e non rimane che la strada fredda e buia ad accoglierti, la notte sdentata e senza sorrisi a morderti. Ha disceso tutti i gradini, adesso c'è soltanto il granito, la risalita è troppo faticosa, le energie scarseggiano, l'autostima è sotto il livello del mare, non rimane che tenere, stare, resistere e abituarsi ad una nuova condizione di cittadino di scarto, di scorta, di serie C. Ormai la sostituzione tra il cane Zorro e lui è completata, lui è diventato il “cane alluvionato”. Zorro era contro il potere e contro le ingiustizie, alcune vite però sfuggono nel fango e slittano nella miseria, senza reti, senza protezioni, senza salvagenti, senza pelle.

Tommaso Chimenti 18/01/2023

BOLOGNA – Cosa rimane di Ibsen in questa non tanto rivisitazione ma spunto del duo riminese Quotidiana.com? Forse niente ma proprio perché nulla doveva rimanere. Non è nemmeno un'essenza, meglio è quello che è riuscito a trasalire, a sospendersi, per usare il gergo chimico. E forse tutto sta dentro la traslitterazione che da “Casa di bambola” che in questa interpretazione diventa “A casa, bambola” (prod. Quotidiana, Ert Teatro Nazionale; 45' un soffio leggero), con quella virgola che si fa carne e sostanza, momento di passaggio e svolta, stop e rilancio. Nel titolo si sente ancora la verve e la vis del duo che qui carica meno, tratto distintivo delle loro drammaturgie, su quei punti comico-polemici-profetici-provocatori profondi che li avevano caratterizzati. Come se ormai non ci fosse più niente da ridere. Il discorso si farebbe serio: le donne, la questione del gender, molto attuale nel dibattito dei nostri tempi dove, giustamente, le certezze di un vecchio maschilismo sono state messe in discussione.A-casa-bambola-quotidianacom-ph-Giancarlo-Ceccon-1.jpg

Se il titolo è di rottura, perché amplia facendo una panoramica e scarta compiendo una parabolica rispetto all'originale, è la scena iniziale, un nudo maschile insieme retrò e d'avanguardia, con Roberto Scappin, l'uomo e il maschio, senza vesti, a darci il benvenuto con il suo fondoschiena in primo piano, come a dirci “Il Re è nudo” ma non solo, all'ex re non è rimasto che sbirciare da dietro le tende quello che succede in sua assenza, che lui lo voglia o meno, può soltanto stare a constatare i tempi che sono mutati, cambiati, maturati, può stare sulla riva a vedere passare il nuovo che avanza sotto di sé. Poi Scappin e Paola Vannoni si mettono al tavolo e di profilo, la loro cifra classica, e sussurrano frasi e qui sembrano proprio A.C.B.-quotidianacom-ph-Giancarlo-Ceccon-4-min-scaled.jpgi Marina Abramovic e Ulay del nostro teatro. Intanto le tende-separé alle loro spalle, che dividono la loro riflessione dal caos delle conseguenze dei sommovimenti dei generi a confronto e contrasto di questi ultimi decenni, si tingono di rosa senza che però il tutto scada in slanci femministi o in dichiarazioni guerrafondaie o ancora esaltazioni della donna contro il maschio, malcapitato di turno. Da parte dell'uomo c'è rassegnazione e, forse, una nuova accettazione di un ruolo non tanto ridimensionato ma da ripensare ed è evidente che adesso sia confuso, (ob)nubilato, indeciso, incerto. La donna però non lo mette in imbarazzo, ha pietà di lui, potrebbe infierire ma lo salva, carezzevole ma non più cedevole o sottomissibile. Nel terzo atto del testo dell'autore norvegese Nora decide di lasciare il marito, cosa allora disdicevole e considerata impossibile, scandalosamente offensiva, fuori da ogni logica del benpensantismo e perbenismo.A.C.B.-quotidianacom-ph-Giancarlo-Ceccon-7-min-scaled.jpg

Le frasi che si sputano e riversano addosso con dolcezza tenue e senza allegria, piena di sottintesi, sono sempre caustiche e bruciano, il maschio sente la pressione dell'abbandono, schiacciato dall'emancipazione dell'altra metà della coppia, ma non si ribella nemmeno più, non si arrabbia ma ha accettato la situazione chinando il capo a questa nuova forma di condivisione: “I tuoi no sono sempre molto politici” biascica lui senza convinzione. Il fatto che l'uomo sia in nero e la donna in bianco è però la stereotipizzazione del luttuoso da una parte e del candore dall'altra: “Ogni tanto la donna fa fuori il marito. Dovrebbe accadere più spesso”. La donna rintuzza, ma senza aggressività forse quello che ci vorrebbe sempre per non scadere in strali di lotte armate che portano a nuove forme di dolore e potere: “Perché gli uomini non si accorgono?”, pare incredula quando pone questo interrogativo al suo dirimpettaio. E in effetti sta tutto qui il nodo da sciogliere, il sentire, la sensibilità, il vedere l'altro, l'accorgersi appunto, l'avere accortezze, l'accorciare le distanze invece che allontanarsi. “Le donne vivono delle tragedie sotto gli occhi degli uomini”. La donna non accondiscende più, non asseconda ma neanche in questo caso, saggiamente, è in antitesi cercando comunque una mediazione, un punto di contatto civile. Lui prova l'ultimo disperato tentativo, l'ultima carta, l'ultima chance: “Il contatto fisico abbatte il cortisolo, l'ormone dello stress”. Ormai la barca ha lasciato il porto e naviga con le proprie vele spiegate.

Tommaso Chimenti 14/01/2022

Foto: Giancarlo Ceccon

FIRENZE – “Dicono che c'è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare, Io dico che c'era un tempo sognato che bisognava sognare” (Ivano Fossati, “C'è tempo”).

Nel doppio binario di un tempo interiore e di un altro oggettivo si svolge la vicenda portata alla luce da Saverio la Ruina che, con la grazia e l'eleganza di sempre, ci fa entrare dentro la propria vita, il proprio vissuto, la propria città e famiglia. E lo fa aprendoci la porta su uno dei dolori più grandi per ogni essere umano: la perdita di un genitore, la scomparsa del padre, pilastro saggio, uomo di poche parole ma di grande tempra, senza fronzoli, senza grilli per la testa. “Via del Popolo” è una camminata che facciamo insieme a lui nella quale ci accompagna e ci mostra quel che era e quel che è della sua cittadina, quella Castrovillari famosa teatralmente per il festival “Primavera dei Teatri” organizzato dalla compagnia Scena Verticale che ha fatto conoscere a tutta Italia questo comune sotto al Monte Pollino e a trenta chilometri dal Mar Tirreno come dallo Ionio. Una strada come pretesto per raccontare una città, e una società e una socialità, cambiata, mutata nel tempo, forse peggiorata, sicuramente modificata e diversa. Attraverso questa passeggiata conosciamo la perdita e questo tempo (il vero protagonista della pièce, simboleggiato dalla scena con la riproduzione DSC_2566.jpegdell'orologio fuso e sciolto di Dalì) che passa e trasforma e travolge le persone come le cose e cancella mondi costruendone di nuovi. C'è nostalgia e ricordo ma è un racconto non chiuso nella sua Calabria ma aperto e universale perché ognuno di noi potrebbe apporvi le proprie origini, strade e piazze e provare quel senso di inadeguatezza rispetto ai tempi moderni e un biascicare tra i denti un “ai miei tempi” oppure “quando ero piccolo”.

Il padre e la città, il padre è la città, il padre è la solidità delle pietre, dei muri, delle case, la protezione, il lavoro, quell'intorno costruito e difeso con i denti e le unghie con il sudore e la fatica, la dignità dello sgobbare, la pulizia e l'onestà di farcela con le proprie forze nel rispetto degli altri. Il padre Vincenzo è venuto a mancare qualche anno fa ad 84 anni e c'è commozione nelle parole di Saverio che lo ricorda con il giusto distacco del teatro ma tra le righe l'emozione è, giustamente, forte e con questa lieve fragilità ci rende e dona tutta la sua incredibile umanità, quel suo tocco leggero sulle cose che racconta, quella carezza affabile della sera, quella vicinanza, quell'abbraccio. La città è il padre, è la sua protezione, è il sentirsi al riparo sotto la sua ala di regole salde e principi solidi. La Ruina, con la giacca bianca da cameriere visto che i suoi avevano un bar, ci fa immaginare volti e piazze, incontri e sorrisi, caratteri e vicende con una autobiografia tenace e robusta ma al tempo stesso commovente e toccante nei trascorsi della sua famiglia che è cresciuta, si è consolidata fino alla vecchiaia, fino a quel passaggio naturale delle generazioni, il testimone che scivola di mano in mano con rettitudine, gratitudine, giustizia. Ci si immerge in questo romanzo di formazione e ci si immagina il grande attore DSC_2578 (1).jpege drammaturgo piccolo, poi a giocare a calcio nei campetti polverosi di periferia, a scuola o intento a dare il primo bacio che è ancora stampato nella sua memoria.

Ma il tempo non lo puoi fermare né governare, certo si può dilatare o restringere come l'universo e i buchi neri: “Il tempo non si può misurare: non vorrai dirmi che un'ora di piacere, un'ora di dolore, una di gioia, una di paura, hanno tutte sessanta minuti?”, diceva il filosofo Raimon Panikkar. Il tempo è strettamente personale e qui La Ruina ci fa partecipi e condivide il suo intimo con tutta la platea, donandosi generoso, aprendo i cassetti della sua esistenza, mettendosi a nudo, senza paure, regalandoci i sorrisi elargiti come il dolore sofferto e patito. Ma è la tenerezza che lo abbandona mai, verso la sua infanzia e adolescenza, verso il suo comune di residenza, verso i genitori, verso il padre tratteggiato mai come padrone ma come caposaldo, colonna, fondamenta alle quali appoggiarsi. E' un viaggio dagli anni '60 ad oggi e che in questi decenni vede parallelamente cambiare la sua famiglia, prima crescere poi invecchiare, e cambiare la sua città, prima modernizzarsi e poi perdere per strada un po' di magia e folclore globalizzandosi come ogni angolo del mondo. Impossibile non riconoscersi non tanto nei luoghi quanto nelle sensazioni e nelle atmosfere degli aneddoti, dei mestieri spariti, i soprannomi, gli amori dimenticati fino a toccare la politica e la malavita della zona. E' un quadro, un affresco dipinto con i colori tenui dell'anima, questa pasta inconsistente che non riesci a stringere ma della quale cogli benissimo l'essenza, come dice da testo “la collina di Spoon River”. Brividi sparsi.

Mi basta il tempo di morire fra le tue braccia così” (Lucio Battisti, “Il tempo di morire”).

Tommaso Chimenti 23/12/2022

NAPOLI – Un fondale che si espande a metà tra il Bosco Verticale milanese, con vie di fuga che saettano in alto, e il Calendario dell'Avvento, con le sue finestrelle tridimensionali, quasi squarci di Lucio Fontana nella tela a prendere luce e respiro, e le sorprese che si affacciano e si affollano di presenze, questo particolarissimo fedelissimo eduardiano “Natale in Casa Cupiello” cum figuris (per la regia di Lello Serao che si è messo in gioco, sperimentando un nuovo linguaggio) è forgiato tra luci e ombre, da apparizioni caustiche ed epifanie carsiche in una continua meraviglia che abbaglia pur nella penombra (le luci catartiche sono di Luigi Biondi e Giuseppe Di Lorenzo), che si infittisce di mistero, dove il testo si nasconde nelle pieghe dei movimenti dei burattini. Tre atti, con conseguenti cambi di scena, per questa perla (prod. Teatri Associati di Napoli, Interno 5) che rifulge di luce propria e riesce a rimettere in circolo, come sangue che pompa nelle vene, il dramma di De Filippo donandogli una veste nuova e suggestiva, curiosa e allettante. E' un presepe (proprio il termine che più ritorna come mantra) perpendicolare e gigantesco (praticamente una seduta spiritica) che 2d9c65e1c1ca05db2bbee017d29509b4_XL.jpgci mostra tutta l'artigianalità del teatro, le sue assi, i suoi riflessi lignei, le sue carrucole, la sua delicatezza d'ingranaggio, questa manualità infantile di stelle appese e comete apposte, di angelo volante e asinello appoggiato. Sarà il “caso teatrale” di questa stagione, ne siamo certi, per intelligenza e tecnica.

Si sente un ribollire di tensione emotiva e magma tattile (il Teatro Bellini ha fatto bene ad impostare una lunga tenitura, tre settimane, per questo piccolo capolavoro che verrà ricordato e che tutti gli amanti del teatro dovrebbero avere la possibilità, e la fortuna, di poter vedere) che tutto trasforma in questa sorta di laboratorio di falegnameria. E il parallelo nasce spontaneo con Geppetto (Lucariello) e Pinocchio (Tommasiello) tra trucioli, marionette e ciocchi di legno da intagliare, perfezionare, limare per questo grande presepe che è l'esistenza. E, se vogliamo forzare l'assonanza con Collodi, qui possiamo vedere, al contrario, come dalla carne, il capofamiglia Luca si faccia di legno perdendo la sua fisionomia terrena Ph Anna Camerlingo.jpge trasfigurandosi in una delle sue statuette tanto amate. Lucariello è un enorme Luca Saccoia davvero toccato dalla grazia del palcoscenico che, generosissimo e sempre in movimento, dà voce ai vari personaggi che si affacciano governati dai neri movimentat(t)tori (tre ragazzi, provenienti da un laboratorio di Scampia, e tre ragazze), cambiando il tono e l'inflessione. Se nel primo atto (le scene sono di Tiziano Fario) è appunto l'attore napoletano a prestare le corde vocali agli altri ruoli, nel secondo, attorno a questa tavola bassa da fiaba, trova il dialogo proprio con i manovratori per infine, nel terzo, scindersi dal suo personaggio e a specchio e farsi doppio, come l'anima che lascia il corpo, e aggirarsi attorno a quel defunto impersonando i personaggi-satelliti che gli hanno ruotato intorno fin dall'inizio senza capirne l'importanza, dandolo per scontato, non considerandolo abbastanza, certamente non amandolo.

E' sia una guerra generazionale NCC (ancora attualissima e contemporanea) tra un padre che non riesce a passare al figlio le proprie passioni né le regole di vita e di comportamento e soccombe davanti alla prole scapestrata (appunto pinocchiesca) che non riconosce la sua autorità e che di lui si fa beffe snobbandolo, deridendolo; mentre il padre vorrebbe soltanto un po' di vicinanza e solidarietà, chiede amore e domanda insistentemente di essere stimato attraverso la costruzione del presepe, e vorrebbe soltanto far vedere quanto vale ma per i suoi congiunti non conta né merita niente, e da parte del suo ragazzo riceve soltanto rifiuti e anzi pesanti negazioni e contrasti che lo fanno sentire inutile, vecchio, sorpassato, incompreso quando avrebbe voluto solamente essere capito e accolto e ascoltato, abbracciato e non allontanato con una freddezza tagliente che incassa anche se Ph Anna Camerlingo2.jpggli fa malissimo. Il presepe è il suo recinto e cortile, il suo hobby e fiore all'occhiello, il suo orgoglio (la cosa che gli è riuscita meglio) e la sua fuga dalla realtà, un posto Ph Anna Camerlingo4 (1).jpgdove tutti i pezzi vanno al loro posto e dove ogni staticità è fissa e decisa dal suo deus ex machina, dove i punti di riferimento sono comprensibili e standardizzati, dove ogni mossa è controllabile non come la sua vita (dileggiata, per gli altri componenti della famiglia è irrimediabilmente un perdente) sempre tra l'incudine e il martello di un figlio scansafatiche, di una moglie perennemente in contrasto e insoddisfatta, di un fratello brontolone, di una figlia frustrata. La felicità non abita in casa Cupiello che già nella sua radice contiene il cupo, il fioco, il fosco, il livido, il buio. Se qualcuno nel corso della vita vi chiederà più volte con perseveranza “Te piace o' presepe?” (in definitiva è una richiesta d'amore; qualunque oggetto ci sia al posto della capannuccia e dei re Magi) forse ci tiene così tanto che aspetta soltanto un cenno per sentirsi finalmente accettato per quello che è invece che per quello che avrebbe potuto o dovuto essere. “Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre”.

Tommaso Chimenti 21/12/2022

Foto: Anna Camerlingo

PERUGIA – Con un gioco di prestigio tra forma, scintillante e di paillettes sbrilluccicose, e sostanza, tenera e commovente, Arturo Cirillo si fa mago e prestigiatore facendoci entrare dentro il suo castello delle meraviglie, wunderkammer e tunnel degli specchi dove niente è come sembra e dove tutto può assumere altre parvenze cangianti, altri significati talmente reconditi da apparire palesi, luminosi. Il suo è un avanspettacolo tutto ruotato su una piattaforma che fa sembrare i protagonisti omini del carillon della vita di marzapane a girare su se stessi nell'infinita girandola del possibile del reale, del verosimile dell'esistenza. E in un continuo palleggiarsi tra ciò che vediamo, anche le rime di Rostand tendono a forzare questo processo, che è leggero, appunto da canzonetta o varietà, che è brioso e charmant, luccicante, esuberante, effervescente e frizzante e coloratissimo (il che dispone l'animo al sorriso, alla spensieratezza, alla rilassatezza), e quello che sentiamo che va in profondità, che punge, che commuove, che sposta, che scardina. A dei contorni volatili fa da contraltare una materia incandescente e composita e granitica. E se è originale, a teatro, il mix tra il Cyrano e il Pinocchio, il naso era lì da sempre a suggerire l'incastro perché “l'essenziale è invisibile agli occhi”.DSC_0991-Cyrano-de-Bergerac_Arturo-Cirillo-e-Valentina-Picello-foto-di-Tommado-Le-Pera.jpg

Ma non solo: Cyrano è accomunato al personaggio collodiano perché entrambi sono freak, sono mostri agli occhi degli altri, sono strani, “deformi” come dice lo stesso Cirillo nel ruolo che dà il titolo all'opera. Sono di questo mondo ma presentano caratteristiche che incutono timore e distacco negli altri e al contempo cercano mille modi per farsi accettare, per essere uguali agli altri, meritevoli di ricevere amore. Ecco il “Cyrano de Bergerac” di Cirillo ci parla di accettazione psicoanalitica del sé, di identità in una miscela tra il lezioso e lo struggente e toccante che ci ha riportato alla fiaba de “Bella e la Bestia” o alla pellicola de “La Forma dell'acqua”. Il diverso che tenta di rompere la crosta e di farsi vedere per quello che è dentro facendo superare, agli occhi degli altri, la sua scorza vituperata, devastata, respingente, allontanante. E' un musical, con tanto di ballerine carioca da Carnevale di Rio, che ci alliscia e dice alla platea di godersi il play che tutto sarà soft e allegro per poi colpire dove fa più male, scena dopo scena, duello dopo duetto, stilettate che vanno fino in fondo ma dolcemente come a dire: “Verrà la morte e avràDSC_1881Cyrano-de-Bergerac_Arturo-Cirillo-Valentina-Picello-foto-Tommaso-Le-Pera.jpg i tuoi occhi”. Il capocomico Cirillo è in equilibrio tra Petrolini e Rascel, senza scordare la lezione di Proietti (quasi due ore godibilissime) in questo show che a tratti assume un'atmosfera da Festival dei fiori sanremese, di teatro nel teatro con i costumi (di Gianluca Falaschi) cambiati a vista e le canzonette spiritose. Ma è anche un gigantesco inno al teatro e all'amore per questa arte-disciplina che assorbe e trasforma, che ci può far apparire, attraverso trucchi e costumi, proprio come intimamente e profondamente più siamo perché è proprio nella realtà che ci mettiamo addosso le maschere più accomodanti per sembrare accettabili.

Lo specchiarsi dei riferimenti tra Cyrano e Pinocchio non termina con il naso che fa da collante tra i due underdog: Rossana, la cugina amata da Cyrano (Valentina Picello canta divinamente minescamente), è la Fata Turchina, la sua cameriera e dama è la Lumachina, il pasticcere è il Grillo Parlante, nel finale Cyrano si trasforma in Geppetto, entrambi i testi sono attraversati dalla bugia come cardine portante di queste due esistenze di sconfitti, e ogni tanto appare in sottofondo la sigla, riarrangiata e ammodernata, della sigla DSC_2456Cyrano-de-Bergerac-Arturo-Cirillo-Giacomo-Vigentini-foto-Tommaso-Le-Pera.jpgdella serie (all'epoca si chiamava sceneggiato) de “Le avventure di Pinocchio” di Comencini con Nino Manfredi. Ma è tutto un rimando, un gioco intellettuale a trovare l'incollatura, il passaggio, l'osmosi, i punti di contatto, un divertissement a scovare gli agganci, le soluzioni, le trovate, un nascondino dove, rovistando, a Cyrano e al burattino di legno si aggiunge anche Frankenstein, anch'egli personaggio disadatto al mondo, diverso dai canoni, che ci spinge a pensare alla chirurgia plastica dei nostri tempi moderni, o si assomma la frase iconica, ma ribaltata, dei “I Promessi Sposi”, “Questo matrimonio s'ha da fare”.

Un pastiche eclettico, vibrante, per esaltare l'amore profondo, il farsi amare per quello che siamo e non per l'aspetto esteriore; Rossana dice a Cristiano quando questo non è supportato dalle parole al di là della siepe di Cyrano: “Sei banale, è come se diventassi brutto”. Un Cyrano che esprime una grande sotterranea forza intrinseca unita al talento dei singoli e ad una generosità di ogni sua componente a creare uno squilibrio emotivo dardeggiante tra ciò che appare in scena e quello che arriva sotto lo sterno, in mezzo alle costole.

Visto al Teatro Morlacchi di Perugia il 16 dicembre 2022.

Tommaso Chimenti 18/12/2022

Foto: Tommaso Le Pera

BARI – I dati sulla ludopatia in Italia sono sconfortanti, allarmanti. Uno studio ha calcolato che oltre un milione e trecentomila siano i malati patologici affetti da dipendenza dal gioco d'azzardo, ma la cosa più inquietante è che soltanto 12.000 siano in cura, tutti gli altri “a piede libero” pronti a scommettere, giocare, grattare (il fondo del barile). Lo Stato ci guadagna sulla salute dei propri cittadini. Il volume di denaro giocato, legalmente, supera abbondantemente i 100 miliardi di euro. Figuriamoci aggiungendoci il giro, comunque corposo, del sottobosco illegale. Dopo il lockdown poi la percentuale dei giocatori è aumentata, così come sono saliti i numeri del gioco online. Una vera e propria piaga che promette soldi facili e che alla fine ripulisce, depreda e delude tutti tranne il banco. Il Giuocatore_Compagnia del Sole_ph_Giuseppe_Distefano39.JPGEd è per questo che testi, e messinscene, come quella de “Il giuocatore” (prod. Compagnia del Sole, visto in un Teatro Piccinni gremito in ogni replica; se c'è la “u” nel titolo è Goldoni, senza è Dostoevskij) sono sempre contemporanee e hanno sempre una lezione da insegnare e impartire. L'azione, trasportata negli anni '50 nostrani (le scene cangianti e dai colori tenui sono di Pino Pipoli), è tutta giocata all'interno di una bisca dove i vari personaggi, nella leggerezza e nell'allegria, dissipano fortune, scialacquano dolori, toccano il fondo ma sempre con la convinzione di essere più furbi degli altri, di poter ingannare il prossimo, di poter riemergere senza alcuna perdita né perdono né condanna.

Un ricettacolo di malaffare che è un luogo non luogo, uno spazio indefinito e fumoso quasi un posto, intimo e infimo, dell'anima, recondito, nascosto ma sempre presente e pressante e pulsante. Un luogo consolidato dove si ritorna per cercare affermazione e consapevolezza, identità e comfort, appunto si chiamano dipendenze. La regista Marinella Anaclerio sistema, inframezzandoli alle scene, intermezzi musicali sul boccascena, chitarra elettrica e voce, quasi a creare uno spartiacque con le vicende sul palco, un fare un passo fuori dalla storia per guardarla meglio da lontano, vivisezionandola e creando quello spazio necessario ad una maggiore comprensione, un passo dentro la realtà, dentro la concretezza dell'oggi per capire che quello che stiamo vivendo non è soltanto fiction o letteratura ma si muove e cresce ogni giorno dentro le nostre famiglie e società e città. Una sorta di presa di coscienza, uno zoom, un focus. Goldoni è messo in scena con fedeltà del testo e addirittura in veneziano (la Compagnia del Sole è barese e da sempre abbina il teatro popolare ad un senso più alto, civile e sociale del teatro) ma la cosa non stona affatto per la morbidezza degli attori, per la capacità camaleontica, per il saper stare sulla scena, dentro una situazione e vivere quell'atmosfera trasognante a cavallo tra un momento storico lontano e una realtà che nessuno di noi vuole in maniera esatta vedere. Come a dire che conosciamo il fenomeno ma non ci tangerà, esiste la ludopatia Il Giuocatore_Compagnia del Sole_ph_Giuseppe_Distefano82.JPGma noi ne siamo immuni, abbiamo gli anticorpi, riguarda gli altri, ne siamo esenti, abbiamo la corazza, il vaccino.

Il barista è Brighella, il servitore è Arlecchino, maschere di una Commedia dell'Arte che si ripercuote anche sul nostro tempo. L'amata è Rosaura (sprint Antonella Carone ci ha rammentato come tipo di recitazione Chiara Francini) che crede che il suo sposo non giochi più perché glielo ha promesso mille volte, Colombina è la saggia governante, Pantalone (l'esperto Flavio Albanese sempre in parte) è il padre della sposa, mentre Florindo è il nostro “Giuocatore” (ci è venuto alla mente un personaggio dedito alle carte del romanzo “Colibrì” di Sandro Veronesi, ma anche “Regalo di Natale” di Pupi Avati) incallito che sperpera, si riduce sul lastrico e nel frattempo continua a sperare che la fortuna giri a suo favore, che le stelle e gli astri gli diano una mano, tra scaramanzie e amuleti. L'abisso ogni volta, ad ogni puntata, ad ogni sconfitta, si fa sempre più grande e profondo e dalla platea si sente la voragine di sofferenza che scende palpabile; Florindo (ficcante Tony Marzolla, ci ha ricordato Simon Le Bon) fa stare male nel suo incedere verso la dissoluzione, sua e di tutti quelli che gli gravitano attorno, non si rende conto della disfatta imminente, incipiente, consigliato di volta in volta da vari Gatto e la Volpe e Lucignoli che lo sfruttano e gli fanno credere all'Albero degli Zecchini. La caduta è incessante, inarrestabile, irrefrenabile. Chiunque metta un po' di saggezza sul piatto della discussione per far rinsavire il nostro antieroe cade nella trappola melliflua, nella rete appiccicosa dell'essere tacciato da Grillo Parlante e come tale verrà allontanato. Il drogato non cerca la soddisfazione ma, credendo di essere incompreso, insegue la fine. I tradimenti (l'amante Beatrice con gli occhiali sembra Jackie Onassis) si sommano alle bugie che si aggiungono alle menzogne. Arrivano gli usurai; la discesa non ha conclusione, sIl Giuocatore_Compagnia del Sole_ph_Giuseppe_Distefano102.JPGi può sempre scavare sotto la coltre del perbenismo, è un tunnel al quale hanno spento la luce in fondo. Rimane solo il buio che, ad ogni passo, diventa sempre più pece. Goldoni è ancora fortemente contemporaneo sviscerando debolezze, limiti e vizi dell'uomo che nel frattempo sarà andato anche sulla Luna ma è rimasto un animale debole, pigro, sognatore, bambino. Florindo ormai non mangia più né dorme, ha soltanto ansia da vendere e debiti da contrarre. E continua a perdere, soldi e reputazione, ducati e affetti. In ogni città italiana accanto ad un centro scommesse sono apparsi magicamente i Compraoro, due usci, una bottega sola per poter continuare a giocare impiegando anche le dentiere o le catenine della prima comunione dei figli

Attorno Il Giuocatore_Compagnia del Sole_ph_Giuseppe_Distefano127.JPGperò al fulcro principale della dipendenza dal gioco, Goldoni e la Anaclerio accendono i fari su altre piccole storie secondarie che definiremo laterali che invece prendono risalto e forma; altre dipendenze e storture fanno capolino: c'è la dipendenza dal sentirsi sempre giovani anche quando non lo siamo più e non ci rendiamo conto che il tempo ha solcato le nostre rughe ma non lo vogliamo ammettere a noi stessi davanti allo specchio, come fa la Zia Gandolfa che già molto anziana si crede una ragazzina e vuole sposare (i ritocchini e il botulino di oggi), dietro compenso, il giovane Florindo, e c'è l'abuso di queste pillole, citate più volte, pastiglie che danno forza e ringiovaniscono, pasticche alle quali oggi potremmo dare il nome di viagra o antidepressivi o cocaina, la classica nocciolina che trasforma Pippo in SuperPippo, gli spinaci di Braccio di Ferro. Questo “Il giuocatore” è la prima parte della trilogia G.A.P., al quale seguirà il progetto delle “Tre sorelle”: Gioco d'Azzardo Patologico ma anche “gap” che in inglese significa distanza, divario. La Compagnia del Sole porta luce in una zona d'ombra che spesso non vogliamo vedere, una fetta di società che ci passa accanto e che facciamo finta che non esista fin quando un giorno, qualcuno, vicino o lontano alla nostra sfera affettiva, oppure proprio noi stessi, non ne restiamo impantanati in questo gorgo, in questa vertigine, in questo dirupo a picco, un domino che tutto travolge, boccheggiando nella melma senza paracadute.

Foto: Giuseppe Distefano

Tommaso Chimenti 09/12/2022

 

PRATO – Lo stato di grazia per Scimone e Sframeli non fa più notizia, è la normalità, è una condizione che trapassa e attraversa tutta la loro produzione. Ma c'è stato un crack negli ultimi anni che ha fatto esplodere le loro messinscene da “Pali” passando per “Giù”, toccando “Amore” fino a questo nuovo “Fratellina”. Una nuova e più vitale consapevolezza, una freschezza che abbina la loro cifra impastata di beckettismo claustrofobico nero e senza orizzonti ad una forma leggera, pennellata e pastellata, corroborata da una dolcezza sparsa che ammanta la durezza dei temi, la brutalità del vivere perennemente in stati d'emarginazione dei loro personaggi. Fratellina-ph-Gianni-Fiorito-imm.jpgA pieni polmoni si può sentire il respiro del teatro, quel benessere di fronte a qualcosa di unico, un equilibrio potente e delicato allo stesso tempo che ci risveglia, ci anima, ci scuote nel loro lento incedere dialettico, nelle loro ripetizioni rafforzative che ci fanno scivolare in un vortice di senso dove la parola si apre e diventa carne e si fa tattile, dove i semplici termini usati si illuminano e scardinano piani ordinari esistenziali. L'impianto è sempre un qualcosa di chiuso, di laterale, di marginale, di fuori dal Sistema, con una scenografia da abitare energica e possente carica di significati (di Lino Fiorito), non mero oggetto ma soggetto dialogante tout court con la drammaturgia.

In “Fratellina” (prod. Teatro Metastasio) due letti a castello, l'uno di fronte all'altro, si affacciano sulla solitudine, su un'angoscia senza lamentazioni e proprio per questo ancora più lancinante. Personaggi che non chiedono neanche più aiuto ma se ne stanno rintanati nelle loro case-loculo, schiacciati dall'esterno e dalla condanna e dal controllo sociale con la paura di non essere all'altezza, di non piacere, di non essere capaci, di non essere giusti per poter essere accettati per quello che sono. Nic e Nac (proprio Spiro Scimone e Francesco Sframeli nei loro intercalari pieni di purezza e sempre fautori di stupore; in siciliano l'espressione "Chi nicchi e nacchi" significa "Che cosa c'entra?"), nomi che ricordano soprannomi bambineschi o da favola e giocosi, si sono chiusi nei loro gusci, che sembrano teche da esposizione di rettili (le carrucole e le corde ricordano i cappi dell'impiccato), e vogliono solo dimenticarsi, essere dimenticati e dimenticare. Ma allo stesso tempo chiedono una seconda possibilità e una nuova opportunità per poter ricominciare, forse con regole diverse, e poter giocare nuovamente al tavolo della vita con regole più soft, più light, meno concorrenziali, che la guerriglia là fuori lì ha disorien318173575_8293248677413192_7091565921739215215_n.jpegtati, sviliti e spolpati, consunti e disinnescati.

Vogliono ritrovare i colori che il tempo ha sbiadito, che mondo in bianco e nero gli ha estorto e portato via, succhiato e sputato. Non hanno fiducia in se stessi, “facciamo schifo”, e la loro autostima è sotto i piedi, vorrebbero soltanto un po' di calore e di vicinanza, un abbraccio ristoratore. Hanno paura degli altri, “sento il bisogno di stare vicino a qualcuno ma poi mi viene l'ansia”. Il tono è talmente assurdo che prende pieghe reali e se ne può sentire il dolore e si sente palese la mancanza d'amore e d'affetto che i personaggi cercano inesorabilmente, che rincorrono, che vorrebbero come l'acqua un assetato. Tutto quello che sta là fuori li ha delusi e soprattutto li ha esclusi dal grande ballo e a loro non è rimasto che dormire, in posizione fetale (non hanno avuto amore né dalla madre né dal padre), per far trascorrere un giorno in più sulle loro rughe stanche. Aspettano non sanno che cosa, attendono la fine. Potrebbero essere richiedenti asilo stipati in container o in centro d'accoglienza “a trascinare le nostre suole da una terra che ci odia a un'altra che non ci vuole”, spiegava mirabilmente Ivano Fossati nella sua “Pane e Coraggio”.

Di fronte a loro 318441901_8293248694079857_5486683273321905786_n.jpegaltri due derelitti umani, rannicchiati nelle proprie brandine, Fratellino (Gianluca Cesale, voce baritonale e presenza robusta) e Sorellina (Giulia Weber d'altissima qualità) come a guardarsi in uno specchio e riconoscersi tra ironie involontarie e quella propensione a non riuscire a capire le dinamiche della vita. E con la naturalezza morbida e garbata e una grazia lieve e tenue con la quale sono caratterizzati i quattro sulla scena cercano i rimasugli del loro posto nel mondo, le briciole avanzate per capire chi sono, chi sono diventati. Sono stati troppo buoni (ci è venuto alla mente Mimmo Lucano ex sindaco di Riace) e la società competitiva, selettiva e agonistica che non ammette la gentilezza, scambiata sempre per sconfitta, ma apprezza l'arroganza e la prepotenza (diventate valori positivi) li ha espulsi, condannati, recintati, confinati. Sono scheletri nell'armadio nascosti ai nostri occhi, sospesi, appartati dentro una parentesi, trascurati, non considerati, fino alla scelta finale che ci ha ricordato il video dei Cure “Close to me”, tutti insieme appassionatamente chiusi in un armadio che viaggia verso un'altra dimensione, o ancora i quattro anziani della pièce “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni” di Deflorian/Tagliarini.

Foto: Gianni Fiorito

Tommaso Chimenti 07/12/2022

LECCE – I testi dei Mana Chuma Teatro hanno forti radici nel loro territorio di riferimento, in questo Sud allargato ed espanso ed esploso, quell'ultimo spicchio di terra ferma appuntita che guarda la grande isola. Due angoli acuti che si scrutano, che traballano, che tremano di onde e sommovimenti tellurici. Le parole di Massimo Barilla (la regia è condivisa con l'altra anima del gruppo Salvatore Arena) sono pasta da sporcarsi le mani, modellarle anche se fa male, imbevute di suoni e atmosfere lontane e così visceralmente interiori e digerite. Come se, dentro ognuno di noi, vi fosse presente quel germe, quell'inizio, quella forma che è perennemente sostanza, quelle sillabe agguerrite di un passato brutale ma concreto, diretto, fermo, lancinante quanto sincero e violento. I loro spazi scenici, metaforici e fisici, sono chiusi e circoscritti, al limite del claustrofobico, al limite Calmaria - Marco Costantino 5.jpgdel beckettiano se non fosse per quella verità e crudezza dei temi sociali palpabili che al metafisico lasciano poco spazio e scampo. Non c'è salvezza, queste parole ti mettono con le spalle al muro, ti chiedono da che parte stai senza essere accusatorie, ma sono scelte di campo, faziose senza essere pretestuose né strumentali né ideologiche. E' la natura umana quello che più interessa Barilla e Arena, sono le relazioni, le tensioni, la pericolosità dell'abisso di ogni incontro, l'altro come fioritura ma anche come inciampo, incastro complicato in terre dove amicizie e fazioni determinano alleanze e conflitti. La linea è sottile tra abbraccio e faida (altro loro titolo del recente passato) e districarsi in questa fitta nebbia di divieti e veti, di rovi e roghi è difficile quanto impraticabile tendente all'insoddisfacente, all'immobilismo. Quello stallo gattopardesco che è l'ultima piece targata Mana Chuma, quella “Calmaria” che ha nelle sue radici etimologiche sì la calma ma più con l'accezione di “cullare” o ancora di “bonaccia”, quella sospensione quasi irreale che preannuncia qualcosa in arrivo. Quel tempo solido e compatto che sembra non passare mai perché vorremo cambiare, mutare ma ancora le condizioni non lo permettono, quello strato di noia, quell'impianto di attese perché non tutto dipende dalle nostre forze, quel passare lento sperando in una rivoluzione, in una trasformazione.

“Calmaria” è più che altro una speranza, un'idea di futuro, il seme che è possibile avere giustizia (e che la giustizia funzioni in egual modo su tutto il territorio italiano e che ancora la giustizia sia uguale per tutti), che non bisogna necessariamente farsi martiri per far emergere un problema, un fenomeno Calmaria Marco Costantino 6.jpgmafioso, per estirpare il tumore non ci vuole il capro espiatorio. La prima nazionale è andata in scena all'interno del bellissimo spazio di archeologia industriale che sono le ex Distillerie Nicola De Giorgi alla periferia di Lecce (San Cesario) dove fino alla fine degli anni '80 si produceva Anisetta, Vermouth, Alchermes. In una scena iconica della fumosa pellicola “Casablanca”, Humphrey Bogart beve ad un bancone di un bar dove campeggia l'anice De Giorgi, simbolo di un'affermazione conclamata a livello internazionale. Le Distillerie da qualche anno sono state affidate alla compagnia salentina Astragali che le stanno facendo rivivere attraverso le arti performative con molti spazi, interni ed esterni, davvero evocativi in mezzo alle macchine che servivano per estrarre e far fermentare alcool e nettare.

E “Calmaria”, che in origine si chiamava “U' saluni” (il salone, sottinteso del barbiere), potrebbe essere il secondo step di “Spine”, penultimo lavoro della compagnia reggina-messinese. Anche lì un locale commerciale, in quel caso un bar-ristorante e una sospensione data da una sorta di spazio-tempo purgatoriale irreale e intangibile alla ricerca a ritroso delle radici del dolore. Tre personaggi si muovono tra queste quattro mura circoscritte in attesa dei clienti che non arrivano, in attesa di notizie che non giungono, in attesa di qualcosa che non sta accadendo. Recitano tra le immense botti che un giorno contenevano i liquori. Il triangolo è composto da Melo (Mariano Nieddu, potente e perno), il proprietario, Felice il suo aiutante (Lorenzo Praticò vivace, ago della bilancia), e Giusy (Stefania De Cola sempre intensa), sorella di quest'ultimo, da sempre innamorata ricambiata di Calmaria Marco Costantino 7.jpgMelo ma sposata con Michele, capoclan della mala della zona. La storia è semplice: la malavita locale, in complicità con l'amministrazione locale, ha messo gli occhi sul loro negozio per costruire un parcheggio e un centro commerciale e, con le buone o con le cattive, riuscirà a portarglielo via facendogli firmare con la forza delle minacce gli incartamenti per cedere l'attività.

E' un “tempo di spiriti” si dice nel testo: migliore perifrasi non ci potrebbe essere per delineare la struttura, il plot, i confini e il magma che ribolle all'interno di questo luogo-non luogo prettamente maschile e maschilista, ricettacolo di cameratismo e violenze sotterranee e represse, tenute taciute nel sottobosco dell'anima. Aleggiano, appesantiscono con la forza di gravità di un macigno che tutto blocca e soffoca e non permette di muoversi e volare. Calmaria Marco Costantino 8.jpgDue gli elementi distintivi, efficaci visivamente e drammaturgicamente, precisi e che ritornano come refrain: questo continuo pulire e lavare, questo voler sciacquare, annaffiare d'acqua per cercare quella pulizia immaginaria che il mondo esterno non può regalare ai tre personaggi, una pulizia furiosa, matta e disperatissima, e il cane Billy, randagio citato, che un giorno c'era e poi magicamente è scomparso. Un animale socievole che è l'ingenuità e la natura, che è l'istinto e la bontà e che, come è fuggito quando ha sentito l'olezzo della criminalità (“manca il coraggio di maledirla questa terra”) così tornerà quando nell'aria si spande finalmente il profumo della legalità. Questi due elementi cardine fanno da raccordo a questo tempo immobile e marcio e rancido dentro la barberia, un tempo lunghissimo e indeciso di rabbia e questo scirocco appiccicoso e sudato (è un altro personaggio che pare vivo la cappa) che limita i movimenti come avere una corda al collo, una catena, un guinzaglio a legarli allo steccato invalicabile, insuperabile. Ma, a volte, succedono cose imprevedibili, accadono le rinascite, le rotture con mondi consolidati dagli andamenti dati per scontato e “quando pensi che sia finita proprio allora comincia la salita”. Un testo contro l'ignavia, per smuovere la consapevolezza, contro l'omertà, contro chi pensa che le storie e i patimenti degli altri non gli appartengano.

Foto: Marco Costantino

Tommaso Chimenti 06/12/2022

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