Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

CATANIA – A pensarci bene, i delitti italiani del Dopoguerra sono sempre collegabili ad una macchina, un'automobile, un'autovettura. Ecco che ci viene in soccorso la R4 rossa dove fu ritrovato il corpo di Aldo Moro, l'Alfa Romeo Giulia di Pasolini con la quale fu ucciso ad Ostia, il furgone bianco dell'attentato ai Geogofili, la 127 bianca dove furono rinvenute Donatella e Rosaria dopo il massacro del Circeo, i delitti dei fratelli Savi della Uno Bianca, la Mehari verde di Giancarlo Siani ucciso al Vomero dalla camorra, le auto fatte saltare nell'attentato di Capaci, fino alla Fiat 126 imbottita con 90 candelotti di tritolo per l'omicidio del giudice Borsellino in via D'Amelio. E' quest'ultimo caso il nodo letterario, scritto da Claudio Fava e Ezio Abbate, che si dipana in “CentoventiseiCicirello_Coco_Centoventisei©-rosellina-garbo.jpg(prod. Teatro Biondo di Palermo e Teatro Stabile di Catania) per la regia di Livia Gionfrida, “scaldatiana” convinta, premio ANCT, portata alla corte catanese dall'ex direttrice Laura Sicignano, lavoro poi felicemente confermato dall'attuale direttore Luca De Fusco.

Tre Naike Anna Silipo_Centoventisei© rosellina garbo 2023 _GRG4633.jpgpersonaggi, (un bel cast che si muove all'unisono) moglie incinta, il marito sicario e un giovane scagnozzo, e sullo sfondo un'auto da rubare per farcirla dell'esplosivo che l'indomani sarebbe servito per uccidere Paolo Borsellino sotto casa della madre nel luglio '92, 57 giorni dopo la devastante strage allo svincolo per Isola delle Femmine dove persero la vita il giudice Falcone, la moglie e tre uomini della scorta. Del racconto di Fava la Gionfrida, con la sua classica opera metaforica di scavo e scandaglio, ne ha tratto una pièce evocativa, dall'immaginario “emmadantesco” per molti versi, dove sulle parole della storia, comunque presenti, è stato fatto un lavoro di ricerca, di compressione e di “crasi” emotiva cesellata in gesti sincopati e ripetuti e ritmati e mimati, adesso in piccole corse, in continui giri attorno ad un fulcro, come a prendersi senza trovarsi, come a fuggire da se stessi, scarnificando all'osso, arrivando a cogliere l'essenza non tanto della prosa quanto dell'intimità feroce e cruda della vicenda. Anche la scena vuota, e proprio perché sgombra ha potuto essere riempita da nuovi significati, è stata impreziosita da una portiera di una autovettura che penzola a dei ganci (come quarti di manzo dentro una macelleria...) in alto come mannaia, come accetta minatoria, come ghigliottina che si sarebbe da lì a poco abbattuta sulla Storia italiana, o come quei fotogrammi delle esplosioni nelle quali, en ralentì, si vedono vivisezionati pezzi metallici scoppiare e lanciarsi in ogni direzione, fermi nell'attimo della catapulta che porta con sé morte, strazio e dolore senza compassione.

E sono tre le storie, come i ruoli in campo che lottano si avvicinano e si respingono, che si affastellano e si arrampicano al fusto principale dell'auto rubata nella notte per preparareDavid Coco_Centoventisei© rosellina garbo (1).jpg l'attentato: il marito sicario (in blu) di un mandamento di Cosa Nostra, David Coco volto anche televisivo, che ha portato sostanza e quei chiaroscuri introspettivi essenziali e necessari, il “garzone di bottega” ragazzo che sta imparando l'arte criminale, Gabriele Cicirello (abiti colorati), in equilibrio leggero tra la scanzonatura e la delinquenza, che è nipote dell'ultimo eliminato per mano del killer, e la moglie del primo, Naike Anna Silipo (in rosa tenue) ago della bilancia carica di pathos tra i due uomini che si districa tra la rigidità del coniuge e la freschezza del giovane, che non riesce ad aver figli come contrappasso del “lavoro” del marito che toglie la vita ai “cristiani”. Anche i dettagli cromatici, nella loro semplicità, hanno la loro importanza, donando pennellate affrescate e nuovi spunti empatici. Vita e Morte come nella migliore tradizione del Mito in questa crudezza, visceralità di sentimenti, distonia e afasia dissacranti. Thanatos al quale hanno sottratto da molto tempo l'Eros (che forse la donna recupera nella liberazione del ballo), il fiore che non riesce a sbocciare nella placenta della donna, una pancia che perde figli invece di portarli alla luce, punita dagli Dei proprio perché il marito si sostituisce a loro tagliando il filo dell'esistenza prima che il tempo si sia compiuto.

Tommaso Chimenti 30/04/2023

foto: Rosellina Garbo

 

BOLOGNA – E' complicato e allo stesso tempo semplice spiegare la genesi di “Lazarus”, una sorta di operetta rock-musical che David Bowie aveva in testa da cinquant'anni e che realizzerà proprio nel momento della sua scomparsa (con Enda Walsh) sovrapponendo il protagonista alla sua vita in un viaggio esistenziale, carico di pathos e inevitabilmente di musica. Dal romanzo di Walter TevisL'uomo che cadde sulla terra” del '63 passando per la pellicola del '76 con Bowie protagonista si arriva ad oggi a questo grande circo-carrozzone, fatto di danza, musica dal vivo, video e interpretazione, che, dopo la versione inglese e quella tedesca, Valter Malosti ha portato in Italia (con idee registiche tutte proprie e personali) affidando il ruolo centrale al frontman degli Afterhours Manuel Agnelli. E questo “Lazarus” (prod. Emilia Romagna Teatro ERT; Teatro Stabile Torino; Teatro di Napoli; Teatro di Roma; LAC) sarà ricordato come un vero e proprio teatro europeo che esce dalle categorie e dalle etichette (Eugenio Barba è uscito dal teatro entusiasta), un prodotto pop totale, denso e pieno, che non disdegna l'operazione commerciale, ma che ha in sé una grande anima, un sentimento, quei brividi dati dall'estrema cura innescata sul palcoscenico con sette musicisti e attori e Michela Lucenti alle coreografie e Casadilego al canto (sono diciotto in tutto): un progetto che rimarrà negli annali per la completezza, la compiutezza, l'afflato, l'omogeneità, la pasta, il magma, la tesi e la sintesi di un ragionamento d'ambientazione cupa, disincantata, cinica e dolorosa.it_lazarus-new-4-3_original.jpg

Lazzaro è quel personaggio dei Vangeli che Gesù resuscitò. Quindi Lazzaro non muore perché non può morire ed è questa la sua “condanna”. Come il personaggio che sta sotto la pelle di Agnelli incastonato in una vita che non è più tale, imprigionato in una esistenza senza gioia dalla quale non può fuggire. Inarrestabile Manuel Agnelli, teatrale anche nelle sue performance live, a suo agio anche in questa nuova veste: ha l'allure elegante del guru, ha il calore del Maestro, emana e spande il carisma di un King, è il Capo dei Capi; è Mosè che apre le acque con il suo bastone, nella sua vestaglia è un pugile spavaldo che sta per salire sul ring, è un demone sfacciato, è un Dracula arrogante e sconfitto allo stesso tempo, è il Prometeo Incatenato, potrebbe essere il Dottor Scott del “Rocky Horror Picture Show”, è un vampiro decadente, perdente e perduto, è il Don Giovanni disfatto e grottesco, è il Capitano Achab che ha finalmente capito che la balena bianca è dentro di lui, è un animale da palcoscenico che esprime potenza, energia e felinità soave, è Bruce Wayne misantropo prima della trasformazione in Batman, è un cardinale diLazarus©Laila-Pozzo03-scaled-e1679908046398.jpg un rito dionisiaco e baccanale, è Nosferatu, è il Mackie Messer brechtiano ma più sofferente, consapevole e malinconico, è un Mefistofele ormai debole e stanco, malato e barricato, schiacciato, annichilito, atterrito, abbattuto, finalmente empatico. E' Amleto che ci dice: “Potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e tuttavia ritenermi Re di uno spazio infinito”, potrebbe ricordare il Gustav von Aschenbach di “Morte a Venezia”.

Il suo personaggio si chiama Newton il che ci porta nel mondo della scienza (l'immagine con la flebo non può non farci pensare alla malattia di Bowie e alla sua fase finale), attorno a lui gravitano tre Fate Turchine, una sorta di Einstein, un quasi Andy Warhol, una geisha: bisogna lasciarsi trasportare dal flusso. Il tutto (quasi due ore godibilissime ed eccitanti; le traduzioni delle canzoni di Bowie hanno una magia immarcescibile) è una divagazione sulla nostra vita, sull'energia che abbiamo a disposizione e che molti tengono oscurata e celata, che non mettono in circolo rimanendo ripiegati nelle pieghe e nelle rughe delle futilità, sul limbo teatro.it-lazarus-david-bowie-Manuel-AgnellidiMatteoCeschi.jpgnel quale siamo impantanati, bloccati a terra, meschini e miserevoli. Una pièce che ci parla dell'ignoto e del coraggio che è necessario per vivere e per resistere al buio, l'affrontare le nostre paure senza cedere alle scorciatoie o cadere nella facile indifferenza verso l'intorno che ci circonda. E poi ascoltare dal vivo, con questo carico di umanità tormentata, angosciata e misteriosa, “The man who sold the world” o “Changes”, “Absolute Beginners”, “Life on Mars?” e “Heroes”, come si dice in questi casi, vale il prezzo del biglietto, e ci ha fatto ricordare perché viviamo, per quel guizzo di emozione, “per quello che non c'è” come ci hanno insegnato gli Afterhours.

Lazarus” si mischia inevitabilmente alla vita di David Bowie (che in copertina ci guarda sornione e ci intima gentilmente il silenzio) ma, se ascoltiamo bene, ci racconta molto anche delle nostre. Bowie, ma lo potremmo applicare a qualsiasi vita passata su queste Terra, si sarebbe trovato d'accordo con l'iconica frase d'addio di Cesare Pavese: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi”. Un'esperienza assoluta, debordante, che ci ha toccato i cinque sensi. Anche il sesto.

Tommaso Chimenti 27/04/2023

PRATO - "Questa mano può essere ferro o può essere piuma" dice Mario Brega in "Bianco, Rosso e Verdone". "Ferro e Piuma" è la storia di Massimiliano Galligani, nome lunghissimo per un corpo affusolato che sembra una fiammella che cerca il cielo. O meglio, un cerino, un fiammifero slanciato e sottile che tende al sole. Il Ferro come il materiale che ogni giorno tratta nella sua professione di fabbro, la Piuma invece è la leggerezza, la comicità, il teatro, l'arte. In lui convivono questi due aspetti che sembrano antitetici, la durezza e la battuta, il martello e l'incudine e la risata. Il Ferro che ti tiene pesantemente a terra e la Piuma che ti fa volare. Sul finire delle scuole elementari la professoressa faceva sempre la classica domanda: "Ma pesa di più un chilo di ferro o un chilo di piume?". E lì si capiva chi rispondeva con la pancia e l'istinto e chi con il cervello. Poi, alle scuole superiori, ci spiegarono anche il concetto di peso specifico, ma questo è un altro discorso. Il fabbro come quel quid che ti fa stare con i piedi per terra e non con la testa tra le nuvole. Il peso che ti tarpa le ali e ti tiene ancorato al suolo e la Piuma come elio dentro la mongolfiera per vedere il mondo dall'alto, scovare nuove forme, prendere tutto con più relatività e distacco. Si batte il ferro finché è caldo (non battere Tiziano però) mentre la risata è in levare. Ecco battere e levare è la vita di MG detto Il Gallino. Pratese, cinquanta candeline spente da poco, generoso sul palco e nella vita, galligani3.jpgocchi curiosi interessati che guizzano. Un fabbro te lo immagini come Thor, vichingo energumeno pieno di muscoli, di poche parole, accigliato e severo che brandisce minaccioso il martello perennemente in mano, un maniscalco che gorgoglia, brontola, grugnisce incomprensibile e rumina gutturalmente.

Un suo personaggio è il “Comico fragile” che, dall'aggettivo, sembra in contrasto e in antitesi con la rudezza dei polpastrelli, la ruvidità dei movimenti del fabbro. Se però scaviamo il fabbro è colui che modella e plasma la materia, crea, fa nascere; la Treccani ci dice anche “artefice, autore, creatore, ideatore, maestro”. Non di sola forza si nutre il nostro operaio specializzato. Forse sta qui il punto di contatto profondo con la risata, far sbocciare qualcosa che poco prima pareva impensabile, dare vita ad un nuovo oggetto come far emergere un sorriso dove prima stavano soltanto l'imbronciatura, il nervosismo della quotidianità, le piccole insoddisfazioni di fine giornata. Che poi se ci pensi il “negozio” del fabbro si chiama bottega come le scuole di recitazione più rinomate, come ad esempio quella celebre fiorentina di Gassman. Potremmo dire, giocando con le assonanze, che Galligani è un “fabbro ebbro”, quando è sul palcoscenico, nel senso di “eccitato, esaltato, in preda a una passione incontenibile, bramoso”. Che Ferro Battuto era un album di Franco Battiato.

Il dinoccolato Massimiliano-Galligani-bett-ONE-3-e1615225189942.jpgGalligani ha la grazia dello sconfitto (ricorda la comicità di Alessandro Paci e Andrea Muzzi per restare in terra toscana), l'eleganza del perdente senza lamentosità, il garbo del vinto senza piagnistei, l'antieroe per definizione. Galligani e le sue figure sono assolutamente underdog, sfavoriti in partenza, senza chance, ma, si sa, a volte Davide batte Golia. Quello che sì ti fa ridere ma anche esorcizzare l'amarezza, l'insofferenza, quell'essere sempre inadatto, l'inquietudine, il disagio provato da tutti noi in mille situazioni analoghe. Negli anni i suoi personaggi più riusciti hanno tutti avuto il comune denominatore della marginalità, “Supermax” un paladino delle cause perse, per prima la sua, il bambino sopra le righe “Michelino”, i Campioni del mondo di discipline inesistenti e improbabili, e poi “L'attore più tagliato di Hollywood” e ancora il dolcissimo “Comico Fragile” (che ci ricorda una ballata di De Andrè). Ed ecco il “Ventriloquo” che ovviamente non lo sa fare, “L'Uomo disperso di Chi l'ha visto” e il delizioso, e a tratti commovente, “Maestro Camarri”, un venditore di opere d'arte, o semplicemente croste senza valore, intendo a voler piazzare le sue chincaglierie, una sorta di Wanna Marchi al maschile. Ha lavorato per Sky e Italia Uno, per Rete 37, a Zelig, “Mai dire Lunedì”. Ha partecipato a pellicole di Ceccherini, “Lucignolo”, di Benigni, “Pinocchio”, o Virzì, “N, Io e Napoleone” e “Baci e Abbracci”. Ne ha fatta di strada il ciclista dello spot dell'Agip: “Tanto ti ripiglio. Ti ripiglio, ti ripiglio”, battuta che è diventata tormentone. Ne ha inseguiti e raggiunti di sogni. Il ciclismo la sua grande passione. Le salite non gli hanno fatto mai paura. E non ha avuto paura di sudare e sporcarsi le mani con questo “Ferro e Piuma” dove mette le mani in pasta della sua più recondita coscienza.

E' una seduta collettiva di psicoterapia (visto ad Officina Giovani a Prato; regia di Giacomo Bogani, prod. Inquanto Teatro) dove MG si mette a nudo, anzi si fa una vera e propria radiografia dell'anima e dei suoi dolori, un'autopsia a cuore aperto. E' una terapia questo sfogo bilanciato e in equilibrio tra il comico e il drammatico (può osare ancora di più, andare più a fondo, scavare ulteriormente), è traumatico e taumaturgico così come risulta catartico. E' la guerra atavica tra i padri e i figli, è uno scontro di ricerca d'accettazione, di costruzione della propria identità purtroppo minata da colui che avrebbe dovuto essere una guida e che invece, per mancanza di strumenti, si è rivelato un abisso impossibile da scalare, un muro di gomma dal quale essere costantemente respinto. Il figlio cercava disperatamente un abbraccio, un sorriso mentre dall'altra parte arrivavano soltanto rimproveri e sottolineature di mancanze. Al centro un grande ciocco di legno (di almeno trecento anni, appartenuto al padre come ogni oggetto in scena) con sopra un'incudine; Galligani ha in mano un martello, grembiule e guanti da saldatore e, con il fumo che esce dal fondo sembra proprio il Dio Efesto che forgiava le armi nella pancia del vulcano. Ci incamminiamo verso i suoi antri bui, della memoria, del ricordo, del trauma.

La narrazione (scritta insieme ad Andrea Falcone) è suddivisa inmaxresdefault.jpg cinque capitoli, come i giorni lavorativi della settimana: il lunedì dedicato all'infanzia, il martedì agli anni '90, il mercoledì al 2000, il giovedì al '10 e il venerdì ai giorni nostri, i cinque decenni dell'esistenza del monologhista. E nel suo incedere (accompagnato dalla chitarra dell'abilissimo Frank Cusumano) sentiamo, attraverso le sue parole, il nero pesto, l'olio bruciato e questo termine che ricorre infinite volte per sottolineare e rafforzare il concetto: sporco, che ritorna, che sembra lordarci senza salvezza, renderci lerci senza scampo e sembra di sentirne l'olezzo del ferro tra i denti, sul palato, o la polvere addosso che non accenna ad andarsene. Un mestiere imposto, che non ha mai digerito, che ha “ereditato come una malattia, come un virus”. E' un racconto onomatopeico, questo “battere, ribattere e ribadire” che scandisce, che borbotta, che dà i tempi. E' tenera la sua storia (“Ho sempre fatto una vita di serie b”) di bambino che ancora non sa cosa vorrà fare da grande ma che ha ben presente quel che non vorrà mai fare: “Io il fabbro non lo voglio fare” dice con fermezza. E più lo dice più finisce nel gorgo del senso di colpa per aiutare il padre dal quale non riceve mai un grazie ma soltanto insulti, lamentele, insoddisfazioni per i debiti di famiglia, e il ragazzo diventa sempre più invischiato nel dover fare qualcosa che lo fa star male, che non lo rende felice, anzi che lo svuota, lo snatura, lo priva di se stesso, lo inaridisce. E più vorrebbe allontanare da sé e dalla propria vita il ferro battuto e cercare la croccantezza delle battute comiche e più quell'odio si trasforma in professione che lo porta lontano dalla sua vera intima vocazione: far ridere.

Ci stringe il cuore questo bambino cresciuto in un piccolo comune (Usella, sopra Prato) nella Val di Bisenzio, un minuscolo paese di provincia rimasto immobile nei secoli con l'unico punto di riferimento di questo padre che gli inveiva contro, sempre di cattivo umore, burbero, arrabbiato e soprattutto “con i pantaloni sporchi”. Galligani vorrebbe cercare il sorriso e stemperare e sdrammatizzare ma l'emozione che crea e infonde è di rara potenza, il suo messaggio si fa universale. Un ragazzo che crescendo si rende conto di essere sempre più simile al padre, quello stesso genitore che gli ha tarpato le ali, che gli ha strappato i sogni, che ad ogni tentativo di emancipazione lo redarguisce dicendogli: “E invece tu farai il fabbro”, monito tra certezza e minaccia tenendo sempre ben teso il guinzaglio e il cappio. L'attore si sente braccato, in carcere, in prigione, un fine pena mai, recluso dentro un mondo che non ha scelto e dal quale è stato masticato, digerito, fagocitato, inghiottito: “Mi sentivo sempre più in croce e sempre più all'inferno”. E' Telemaco senza il ritorno riparatore e ristoratore di Ulisse, è Edipo senza il conforto di Laio. L'unica soluzione per liberarsi dal giogo è la morte del padre, una liberazione che lo farà stare ancora peggio perché si sentirà tremendamente in colpa perché adesso sta bene finalmente. Un padre che, tra l'altro, non gli ha mai pagato i contributi. Sembra di sentire la storia di Oliver Twist o del Charlie Chaplin di “Tempi moderni”. “Ferro e Piuma” è un Odi et amo perché si percepisce tanta abnegazione e senso del dovere per non deludere il padre, nel suo costante ricercare un segno d'approvazione, quel “bravo” che non arriverà mai, quella pacca sulla spalla sentendosi dire “andrà tutto bene” o “non ti preoccupare”, quella solidarietà e vicinanza e supporto che gli sono sempre mancati. Ci deve essere molto amore per riuscire a comporre questa lettera al padre che è una sorta di perdono, di ricongiungimento postumo, di pacificazione serena.

Tommaso Chimenti 01/04/2023

GENOVA – Il capitolo storico, dopo cento anni, riesumato dalla penna certosina di Maurizio Patella e messo in scena dal regista Emanuele Conte, è un momento poco conosciuto e frequentato dagli studiosi che è curioso portare alla comprensione di un ampio pubblico. Un teatro didattico e didascalico questo “Il fenomeno Laplante” (testo finalista Premio Riccione '21, prima nazionale, durata 1h10'; prod. Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse) senza dare ai due aggettivi connotazioni negative, ovvero il primo sinonimo di “insegnamento”, il secondo di “spiegazione”. Si racconta della strana storia di questo capotribù, indiano d'America, che per cinque anni ha scorrazzato in Europa, pagato per i suoi vizi ed eccessi da signore e aristocratici come da gerarchi in camicia nera. I fascisti vedevano nel nativo un esempio di coraggio, di forza, di un popolo che aveva combattuto per i propri ideali, per la propria libertà oltre, ovviamente, alla comune avversione per i nemici cowboy, gli odiati Yankee, gli avversari americani. Ora, la tesi di fondo potrebbe essere faziosa se il paragone, in alcuni passaggi abbastanza lampante e chiaro, dovesse laplante-800x600-1.jpgessere tra i tempi del Duce, gli inizi della dittatura (dove in molti dicevano “tra tre mesi sarà finita questa pagliacciata” e che poi invece durò vent'anni) e gli inizi di questo governo nostrano di centrodestra. Il testo però è del 2021. Dipanato il primo dubbio.

Seconda riflessione, sempre testuale: la narrazione procede a doppio binario tra le gesta folcloristiche e ridicole, ilari e incredibili del falso indiano (in realtà era un attore e truffatore canadese) e la morte di Giacomo Matteotti. Ecco che qui sorgono alcune domande; la messinscena è un'operetta elettro-macchiettistica con tre caratteri in scena (i sempre frizzantini Enrico Pittaluga, Luca Mammoli e Graziano Sirressi, il collettivo Generazione Disagio entrati da alcuni anni nelle produzioni del Teatro della Tosse), vestiti ognuno con uno dei colori della bandiera italiana e con costumi futuristico nostalgici, quasi tait da astronave intergalattica (di Daniele Sulewic). Tutto ha l'aria della rivista sopra le righe, del varietà leggero vagamente derisorio, del cabaret brillante ridanciano canzonatorio come se fossimo in un frullato tra i filmati dell'Istituto Luce, sprazzi di “Fascisti su Marte” di Corrado Guzzanti, un tocco di Superquark e delle inchieste di Andrea Purgatori, pennellate di Petrolini. Se quest'impostazione può essere consona per ricordare l'impostore e mistificatore che si prese gioco degli uomini del regime (ignoranti) per fini utilitaristici personali, è meno adatto però a rievocare i momenti drammatici precedenti il rapimento e la scomparsa di Matteotti e quelli successivi con la sparizione del cadavere prima e il rinvenimento poi dello scheletro. Stridono i due momenti messi a confronto, fanno davvero le scintille, grattano come gesso sulla lavagna. La recitazione frontale sul pubblico dà sempre quell'atmosfera di delucidazione e chiarimento, quella patina di teatro ragazzi (con l'adulto che imbocca la platea), di accompagnamento all'argomento per mano, con gli attori (sempre brillanti e spumeggianti) che si dividono il monologo in tre parti, intervallandosi, giocando, sempre, forzando situazioni e scene con il loro marchio di fabbrica e cifra consolidata della battuta ad effetto, della sottolineatura.

La storia, laplante-800x600-2.jpgdicevamo, è molto interessante e merita un approfondimento e bene ha fatto Patella a scoprirla dall'oblio, riportarla alla luce e a darcela in pasto: l'affabulatore millantatore, megalomane e bugiardo Laplante (traduzione “la pianta”, inteso però come quelle parassite) HD-020-_NZ65854.JPGsi spaccia per un valoroso capo di una tribù “pellerossa” (chiamati così all'epoca) che si faceva appellare “Cervo bianco” cercando soltanto un posto al sole, la bella vita, gli inviti ai party, i ricevimenti, alcool, cocaina, incontri nell'alta società, una sorta di accreditamento nei palazzi che contano. Quello che qui si evidenzia è la stupidità degli italiani al governo o di quelli abbienti nel (voler) credere a questo gigantesco bluff che faceva acqua da tutte le parti. Il bisogno insito nella natura umana (e non soltanto nell'italiano medio, leggenda questa) di cercare a tutti i costi l'Uomo forte al comando (che solleva ed è deresponsabilizzante) per risolvere tutti i problemi (anche Gesù in definitiva era questo; Bertold Brecht diceva al riguardo: “Beato un popolo che non ha bisogno di eroi”, forse quel popolo deve ancora nascere) qui viene visto, bollato ed etichettato come mancanza e deficit storico destrorso (anche se ci furono anche i vari Lenin, Stalin e Fidel tra gli altri) quasi a voler fare osservare una netta demarcazione culturale, e forse anche intellettiva, tra le due grandi fazioni politiche, a destra gli istupiditi, a sinistra gli illuminati. Le due società, del 1922 e del 2022, sono lontanissime, impossibile trovare un punto di contatto, è cambiato radicalmente l'intorno e il panorama circostante.

Se invece vogliamo vedere il tutto come una riflessione sulle fake news e sulla propaganda allora potremmo proporre una comparazione tra quell'Italia che fu, povera, analfabeta, poco scolarizzata, credulona, vittima dei governanti e di quel tempo, e la Russia attuale dove, con un bombardamento mediatico da decenni e con la soppressione delle libertà di stampa, pensiero e d'espressione, hanno fatto credere ai cittadini che vivono sotto Mosca e dintorni che l'Occidente li abbia aggrediti, che la Cecenia li abbia attaccati, che prima la Georgia li abbia assaliti e che recentemente l'Ucraina li abbia invasi.

Tommaso Chimenti 28/03/2023

ROMA – Il vento non sembra violento, il vento pare innocuo, dolce brezza che ristora, tra tutti gli agenti atmosferici sembra il più docile e controllabile. Eppure ci sono i tifoni e le trombe d'aria, la bora, eppure le scogliere sono erose da centinaia di anni di rivoli di vento che le hanno scalfite, scolpite, segnate come profonde righe sugli zigomi. Il vento, come costante, come goccia cinese, può far male, può ferire in profondità dove è difficile, se non impossibile, rimarginare il dolore. Ha aspetti psicoanalitici questo “Le ferite del vento” (1h 20', dell'autore madrileno Juan Carlos Rubio; prod. Società per Attori, Teatro Civico La Spezia; visto alla Sala Umberto di Roma) portato in Italia dalla regia fervida e intelligente di Alessio Pizzech: due uomini che si affrontano e scontrano e confrontano (fino a confortarsi) con un terzo che aleggia misterioso e indecifrabile, un fantasma dai contorni labili e inconsistenti, un ectoplasma del quale rimane soltanto il ricordo anch'esso fugace, immateriale, incorporeo. Una morte li divide, una morte li unisce.Ferite-del-vento.jpg

Dopo la scomparsa del padre anaffettivo, frugando tra le carte del padre, Raffaele, per sistemare gli aspetti burocratici dell'eredità, il figlio, Davide (Matteo Taranto riesce bene a destreggiarsi dentro l'inquietudine, la forza che si fa debolezza per poi ritrovarsi nudo davanti al bisogno d'aiuto, possente e fragile) scopre delle lettere, lettere d'amore, lettere spedite da un altro uomo proprio al genitore. L'idea granitica e solida del padre tutto d'un pezzo, che non amava nemmeno sua moglie, si sgretola in un attimo, va in frantumi come uno specchio colpito con violenza. E' questo padre mancante e assente (lo fotografa benissimo e in maniera lapidaria la canzone di MinaBugiardo e incosciente”), come lo è stato peraltro anche in vita, l'anello di congiunzione tra i due uomini, un uomo incapace d'amare, di provare sentimenti o quantomeno di riuscire ad esternarli, dimostrare gesti d'affetto, una carezza, una parola, un abbraccio, un bacio, una tenerezza, soltanto freddezza e gelo. Le lettere le ha spedite appunto un altro uomo, Giovanni, un Cochi Ponzoni duttile e versatile, lucidissimo interprete, riesce a coniugare l'amore in svariate riflessioni, un piacere vederlo così in forma. Questo padre (se Davide è il figlio, lui è sicuramente un Golia o un colosso dai piedi d'argilla) ha condannato entrambi in vita a ricercare la sua approvazione e stima senza essere minimamente ricambiati, ed entrambi Cochi ponzoni 1.jpegsono rimasti ancorati all'idea che quest'uomo potesse cambiare, potesse un giorno voler bene loro, aprirsi, farli sentire ben accetti, benvoluti, amati nel senso più ampio del termine.

L'atmosfera trasognante (in questa versione nostrana importantissime le musiche di Paolo Coletta e le luci di Michele Lavagna) ha un riverbero nascosto che ci porta ad un mix sensoriale tra “Tutto su mia madre” quando la telecamera si alza dal campo di prostitute e inquadra Barcellona (“Tajabone”), e “Un tè nel deserto” (Ryuichi Sakamoto) quando John Malkovich corre tra le dune per raggiungere l'oasi. Fuggire da qualcuno e andare disperatamente alla sua ricerca forsennata come nodo da sciogliere, come percorso da camminare, come assioma da spiegare. La scena (orchestrata e architettata da Alessandro Chiti) prevede due grandi parallelepipedi, uno verticale l'altro orizzontale (entrambi rigidi, fermi nelle proprie posizioni e convinzioni) che si iLe-ferite-del-vento.jpgntersecano creando un incavo, un insieme, un rettangolo frutto dell'unione dei due, dell'osmosi e dell'incastonarsi, con i due interni borghesi delle abitazioni, del padre e del presunto amante, comunicanti e drappeggiati da teli leggeri di plastica quasi a sottolineare l'aria da obitorio e autopsia delle emozioni e delle passioni. Un uomo misterioso, il padre, che non si è fatto conoscere e che, involontariamente, ha unito questi altri due uomini, prima in conflitto e competizione, adesso vicini, ognuno alla ricerca di quello che l'uomo deceduto non aveva mai concesso loro.

Dentro il baratro della scomparsa i due si salvano a vicenda (trovando un figlio? trovando un padre?) sublimando un amore, esorcizzandolo; prima si erano visti rovinare la vita dalla sua insensibilità e adesso, con la sua mancanza, stavolta fisica e reale e tangibile e materiale, hanno ritrovato un centro, hanno rimesso in ordine gli appunti sparsi (c'è un coup de theatre fondamentale che tutto ribalta), hanno dato un senso ad esistenze tenute in sospeso, appese ad un filo, ossessivi e tentennanti e adoranti come pulcini tremolanti con il becco aperto in agognante ansia del nutrimento dei genitori. Un padre, immensamente amato e profondamente odiato, che con i suoi silenzi li ha perseguitati in vita, che ha minato le certezze del figlio e dell'amante (inteso come colui che lo amava, non ricambiato), che li ha resi duri e disillusi, dubbiosi, incerti, paurosi e soprattutto soli. Un testo che ci parla di dipendenza, di responsabilità, di identità, di genitorialità, di perdono.

Tommaso Chimenti 19/03/2023

PRATO – Sarebbe bello se tutte le vite avessero l'opportunità e l'occasione di poter essere raccontate. Che ognuno di noi avesse la fortuna di poter spiegare le nostre debolezze e cadute, le nostre lacrime e tutti quei momenti intimi che ci sono rimasti dentro negli anni e hanno costruito il nostro personale album delle fotografie. “La mia vita raccontata male” innanzitutto non è affatto raccontata male, anzi; la scrittura di Francesco Piccolo è sempre toccante, ironica, commovente, entra nelle pieghe del personale per diventare universale e arrivare a tutti i cuori, a tutte le nostre memorie, ai ricordi condivisi del primo amore, delle partenze, dei cambiamenti, dei momenti di passaggio. Ricordare: riportare al cuore. Ecco la forza di queste parole, calde, seppiate, nostalgiche ma senza amarezza né rabbia, nemmeno disillusione o disincanto (il fanciullino qui è vivo e vegeto) leggere e profonde, serene, dolci, riappacificanti con il nostro io. Perché bisogna perdonarci i fallimenti Bisio-1078x720.jpge le debacle. “Perché a vent'anni si è stupidi davvero”, stornellava Guccini, ma anche a trenta, a quaranta e oltre. Quando ci guardiamo indietro verrebbe sempre da farci una carezza tenera e amorevole al noi che eravamo qualche anno o decennio prima, sorridendoci, abbracciandoci, dandoci quella pacca sulla spalla o parola di conforto che in quel momento nessuno ci ha donato.

In scena Claudio Bisio ha quella naturalezza del vecchio amico che ti mette a tuo agio e ti dice accomodati, stiamo un po' insieme stasera, senza schemi, senza tempo, raccontami, ti racconterò. Con Bisio viene sempre in mente Daniel Pennac e il suo Signor Malaussene oppure la voce di Sid, il bradipo dell'“Era Glaciale”. E, pensando a Pennac, la costruzione di questo “La mia vita” (prod. Teatro Nazionale di Genova; 1h 30' scorrevolissima; visto al Teatro Politeama Pratese) può far pensare, come impianto diaristico e cronologico, a “Storia di un corpo”, proprio del Gallione_cast_LMRM_9732-phMarinaAlessi-934x720.jpgromanziere francese. La regia di Giorgio Gallione ha quattro elementi di forza: le decise di sedie sparse sulla scena, imponente di finestre e porte e mattoni, dove è stato ricreato un interno casalingo, sedute che il conduttore di Zelig utilizza spostandosi per introdurci nelle sue diverse età, le innumerevoli vecchie televisioni con tubo catodico disseminate per tutto il palco che ci danno il sapore del gracchiante, del bianco e nero, di quell'imperfetto che in fondo ci piaceva, i gruppi di tanti oggetti appesi che a più riprese scendono dall'alto ad innescare e affrescare un nuovo quadro temporale del protagonista, altre sedie o libri o ancora piante. Per ultimo ma non ultima, anzi fondamentale, la musica (i due chitarristi Marco Bianchi e Pietro Guarracino) per sottolineare e drappeggiare i crack di questo romanzo di formazione, arpeggiando note nazional-popolari che pungono le biografie di tutti, da Ivano FossatiE di nuovo cambio casa” e “Dedicato”, fino a “Ufo Robot”, o “Non amarmi” di Aleandro Baldi.

“La mia vita” è un respiro soffice, è una sdrammatizzazione delle nostre esistenze, è il tentativo di relativizzare le sconfitte e i “fallimenti La-mia-vita-raccontata-male-def.jpgche per tua natura normalmente attirerai”. Di impatto anche le luci (di Aldo Mantovani) che spaziano da un blu elettrico ad un rosa shocking a un verde psichedelico ad esaltare attimi, circostanze, azioni. L'antidivo/antieroe Bisio ci porta per mano dentro questa biografia (la sua? quella di Piccolo? un mix delle due? un'ipotetica romanzata e letteraria? non ha importanza) che tutti tange: i primi fidanzamenti alle scuole medie con i primi annessi dolori che sembrano insuperabili, la mamma che ci asciuga i capelli in bagno e ci mette il borotalco e quegli odori e mani ci rimarranno per sempre stampati tra il naso, il cuore e il cervello, le prime scelte politiche anche se nate per pretesti occasionali, gli amori liceali sentendosi sempre fuori fase, in fuorigioco, fuori tempo massimo, e poi il lavoro che ingrana e le prospettive che mutano radicalmente, i figli e la vita che prende pieghe inaspettate e del tutto non programmate.

“La mia vita raccontata male” di Piccolo/Bisio sono dei morsi, è un assaggiare, un toccare, un mettere i polpastrelli dentro un'autopsia del tempo di un uomo medio (mai mediocre) tra sentimenti alti e questioni più basse, perché nessuno di noi è Superman, siamo tutti Clark Kent, nessuno è Batman, al limite possiamo essere Robin, nessuno è Gastone siamo tutti Paperino, sfortunati di lusso, siamo dei buoni gregari che a volte si tolgono delle piccole soddisfazioni cercando di guardare quello che si ha invece che quello che non abbiamo avuto né quello che non avremo mai, puntando più sull'essere che sull'avere, senza invidia né gelosia perché la vita è un soffio.

Tommaso Chimenti 15/03/2023

BOLOGNA – Sarebbe troppo semplicistico bollare “Le cinque rose di Jennifer”, manifesto di Annibale Ruccello, come un thriller, un noir, un giallo. Certo, c'è un'inquietudine di fondo, un disagio che si taglia a fette, una cappa claustrofobica che opprime e soffoca, del sangue, un assassino. Ed è importante la messinscena a cura del Teatro Bellini, con i fratelli Russo (Gabriele in regia e Daniele in scena; 1h 20' di teatro altissimo) binomio e incastro prolifico che dà sempre buoni frutti. Una scena (di Lucia Imperato) che ci immerge in un ricettacolo - boudoir dove il rosso campeggia, violento e aggressivo, colante di pizzi e tulle e un buio dell'anima che si mangia tutto (luci di Salvatore Palladino), che avanza, ingloba, aumenta, annerisce, fagocita le esistenze dentro questo cerchio le rose di jennifer_1736 ph Mario Spada-3.jpgdisegnato a terra, questo perimetro dentro il quale essere maschera, finzione, altro da sé. De “Le cinque rose” vedemmo, qualche stagione scorsa, una versione diretta e interpretata da Arturo Cirillo. Jennifer, un travestito dei Quartieri o un femminiello della via Toledo raccontata da Patroni Griffi, rimane tutto il giorno chiuso in questa casa-museo postribolo (e qui ci è venuto in mente il lockdown), murato vivo (hikikomori ante litteram) attendendo la telefonata di Franco (“Aspettando Godot”), col quale ha avuto una fugace avventura di una notte, chiamata che ovviamente mai arriverà.

I drappi,le-cinque-rose-di-jennifer_0770_Ph-Mario-Spada-1024x681.jpg il baule, il divano hanno uno strano sapore a metà tra le luci rosse da peep show olandese e il testosterone ansimante, l'appiccicaticcio spermatico e il marcio di fiori putrefatti andati a male cimiteriali, il sudore rancido e i bicipiti troppo gonfiati, la puntura dei tacchi a spillo (costumi di Chiara Aversano) e un sentore soffice di un'accoglienza sporca, di un affetto colloso di strass, di un amore di plastica che non consola. Le interferenze telefoniche (che ci raccontano di una Napoli che sta crescendo ed espandendosi nell'edilizia anni '80) sono il crack ironico dentro un dramma esistenziale, dentro un'identità dolorosa e socialmente non accettata, dentro desideri che non si possono dire ad alta voce, dentro miserie madide, accucciandosi e rifocillandosi soltanto delle emozioni che provengono dalle frequenze della radio (anche questa gracchiante, perché non funziona niente in questo basso, reale e metaforico) da Mina a Patty Pravo, da Romina Power alla Vanoni fino a Gabriella Ferri, donne combattive e agguerrite e arrabbiate che hanno cantato la solitudine di chi ama non ricambiato. Il telefono e la radio sono due veri e propri personaggi in questo ricettacolo con i quali instaurare un dialogo dal quale sgorgano frustrazioni e sfoghi, rabbie e malesseri. Ma non sono gli unici “attori” in scena con i quali creare rimandi e fare da specchio a Jennifer-Daniele Russo (di raro impatto e prestanza, sicurezza senza alcuna sicumera); si aggira quest'ombra scura (Sergio Del Prete, figura marginale ma centrale che illumina di senso il focus del racconto, creando un doppio, un rimbalzo psicoanalitico, alter ego d'abisso e voragine) che pare una beghina, un monaciello, la Befana, ricorda Quasimodo, il gobbo di Notre Dame, una prefica, le donne che piangevano a pagamento ai funerali, dalla faccia bianca cadaverica e zombie allarmante, un'oscurità che grava e aleggia e s'abbatte e ruota attorno come avvoltoio in cerca di carcasse, come presenza di pece che vorticosamente attende la sua (prossima) vittima.le-cinque-rose-di-Jennifer-Bellini-2-640x341.png

Dateatro.it-le-cinque-rose-di-jennifer-daniele-russo-01.jpg un lato Jennifer aspetta Franco (nome non casuale nell'accezione di sincero, schietto, cosa che l'uomo non è stato con il/la protagonista) nel suo tugurio agghindato e abbellito da profumi scadenti e paraventi di raso in questo habitat chiuso e piccolo e asfissiante, microcosmo opprimente, senza ossigeno né aria respirabile, dall'altro fuori c'è il mondo (ed è la figura che incombe pericolosa, misteriosa e mistica) che entra attraverso la radio che ci racconta di un intorno violento dove “quelli come lui”, rifiutati dai benpensanti, i travestiti, vengono trucidati ed eliminati da un maniaco come mosche (forse qui ci potrebbe essere un accenno all'Hiv che da lì a poco mieterà molte vittime nella comunità mondiale Lgbt) senza che la società civile prenda sul serio la faccenda, anzi sembra quasi un'agognata pulizia per ridare decoro all'ormai sgretolata scala valoriale e morale.

In questa frizione, il mondo di Jennifer è un tondo come fosse un'isola di sogno, un tappeto soffice di nuvola dove rimbalzano i passi come Uomo sulla Luna, in questa frontiera e frattura i colori sbafati da circo si impastano con la disperazione da bambola interrotta, da Barbie spezzata dove l'immaginazione crea mondi paralleli, psichedelici in un intorno dall'umanità assente, dai silenzi pieni e consistenti, dall'emarginazione che ingabbia, recinta, barrica facendo annegare nel fango dell'insoddisfazione, dell'infelicità, della depressione, dell'angoscia, senza una boa di salvataggio. “Le cinque rose” sono un urlo, un grido d'allarme inascoltato, un clown che ride piangendo.

Tommaso Chimenti 13/03/2023

 

CATANIA – E' un gioco sottile nel quale perdersi, scivolare come dentro le sabbie mobili, un meccanismo che sempre più, lentamente ti inchioda a passaggi, dettagli che mutano impercettibilmente, in un andamento tanto armonioso quanto feroce, adesso leggero ora scattoso dentro un marchingegno psicologico dove i personaggi (e gli attori), ma anche il pubblico, sono gli ingranaggi di un sistema che cambia le regole, che prende nuovi spiragli e luci, che assume nuove forme perché visto e inquadrato da diverse angolazioni. Potremmo essere dentro il tunnel degli specchi nell'affrontare questo sorprendente “L'Amante” di pinteriana scrittura al quale la regista Veronica Cruciani (prod. Teatro Brancati di Catania) non solo ha dato una veste nuova ma anche una percezione, un percorso misterioso e minimalista, che cangia i contorni, sposta, architetta come una partita a scacchi dove la strategia prende il sopravvento sull'azione. Un testo complesso, mai puramente lineare, pieno di non-detti, di sfaccettature ambigue. Una regia con solide idee.

DSC_8795.JPGIn quest'ambiguità la Cruciani ha voluto mettere, in questa palude dei sentimenti, Graziano Piazza e Viola Graziosi (convincenti, pieni di tinte e colori e tonalità, grande affinità e disponibilità nell'ascolto dell'altro in scena) nelle parti di Richard e Sarah, marito e moglie sulla scena, marito e moglie nella vita. Un altro, l'ennesimo salto mortale di questa messinscena. Come Tom Cruise e Nicole Kidman che però dopo la lavorazione di “Eyes wide shut” di Kubrick si lasciarono. Non è un dettaglio da poco che la vita entri prepotentemente dentro il teatro, dentro questa drammaturgia, che ha sessant'anni, che riserva sempre sorprese, nuovi bagliori, infiniti nodi gordiani e dubbi insoluti. Un puzzle con tessere mancanti, da inventare, elementi tra sogno e realtà, tra immaginazione ed enigmi che, anche a fine replica, non si saranno dipanati. Sta al pubblico fare “fatica”. Se forziamo un po' la mano al ragionamento potremmo avvicinare, o almeno trovare un parallelismo, tra “L'amante” e “Nella solitudine dei campi di cotone” di Koltes; in quest'ultimo un qualcuno voleva vendere qualcosa a qualcun altro che non sapeva di volere questa mercanzia. La merce che viene messa in vendita dentro questo testo di Harold Pinter (potrebbe essere l'anticamera o il prequel di “Tradimenti”, sempre a firma dello stesso autore londinese) non è tanto la fiducia ma quanto siamo disposti a recitare, a trovare nuove strade, a immedesimarci in altre vite per digerire meglio le nostre esistenze, quanto possiamo essere qualcun altro per essere pienamente noi stessi, quanta infelicità ci può regalare la monotonia.

Gli attori (che effettivamente stanno insieme dagli stessi anni della relazione dei personaggi che interpretano) cominciano senza costumi, con il copione in mano, con le luci in platea, presentandosi con i loro veri nomi, leggendo le didascalie del testo e le note di regia, parlano con il pubblico in un continuo scambio di battute e opinioni. Ed è questa la trappola (complice anche le sonorità di John Cascone e le luci di Andrea Chiavaro) che la regista romana tesse alla platea: piano piano le luci cambiano, la scena prende corpo, si mettono i costumi, tutto rigorosamente a vista. E' una materia pulsante, un magma che ribolleDSC_8890.JPG e che evolve da un attimo all'altro creando nuovi mondi, parentesi, bolle di pensiero. Il marito è consapevole dell'amante della moglie ma, si scoprirà, anche l'uomo ha una sua tresca con una prostituta. Coppia aperta quasi spalancata, si penserà. Sono complici ma ogni tanto accenni di violenza e colpi di gelosia scuotono la borghesitudine che li accompagna dolcemente, ora giocando adesso accusandosi e litigando, o ancora confessandosi sinceri senza filtri e perdonandosi. Che il letto sia di legno francescano duro e scomodo non è un dettaglio secondario, un talamo nuziale non confortevole. Gli abiti, il pigiama, la vestaglia, la poltrona, il divano, la tovaglia, tutto è di un verde spinto quasi psichedelico come un sogno acido, una deformazione della realtà mistica e allucinata.

Ripetono delle stesse scene come dovessero seguire, ed eseguire, un copione, come fossero dentro un “Truman Show”, fino a scambiarsi i ruoli, fino a diventare l'altro, fino a prendere le sembianze del coniuge (in una sorta di “Psycho”), fino al completo ribaltamento dei ruoli. E non è un particolare da poco nemmeno il fatto che realmente ci sia una distanza anagrafica tra la Graziosi e Piazza nella vita e quindi questo si riverbera anche sul palco: la scrittura maschile di Pinter ci mostra una donna più giovane, volitiva, aggressiva, testosteronica, consapevole, decisa, sicura di sé che obbliga il compagno più maturo, vittima e succube, più calmo e pacato, ad acconsentire a certe dinamiche imposte per il bene della relazione. E' in questa continua messa in scena che il matrimonio somiglierà sempre più al teatro con i ruoli da ricoprire, una trama da rispettare, un andamento da onorare.

Tommaso Chimenti 10/03/2023

CALENZANO – “In questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità” (Bertold Brecht). Se ci si sente smarriti è perché abbiamo la netta consapevolezza di aver perso la strada maestra, abbiamo perso l'orientamento e siamo finiti “in una selva oscura che la diritta via era perduta”. C'è un bianco abbacinante in questo interno borghese, candido manicomiale: scrivania, libreria, gli stessi libri, il divano, la poltrona, tutto è di quel colore non-colore che attende di essere sporcato di vernice vitale. L'abito stesso della protagonista, le sue scarpe. A provare “Smarrimento” (prod. Marche Teatro; visto al Teatro Manzoni di Calenzano) è questo personaggio metateatrale, costantemente con un piede dentro e uno fuori dalla scena, dal testo. Due Lucia, Calamaro l'autrice Mascino l'attrice, hanno creato un impianto che funziona alla perfezione, una drammaturgia al tempo stesso solida ma anche malleabile, comoda, dove la monologante spazia, improvvisa, si sente a proprio agio, la fa sua, ci gioca, se ne appropria, la digerisce, ne fa poltiglia, la riprende, la accartoccia, la rende luminosa con cambi umorali da psicanalisi, sdoppiamenti di personalità in un vorticoso perdersi di voci.Smarrimento_Lucia-Mascino_foto-Kimberley-RossDSC7050-1-scaled.jpg

La protagonista interpretata dalla Mascino è una scrittrice con la sindrome della pagina bianca, vagamente snob, aristocratica, trasognata che si appresta a mostrarsi al pubblico per un reading. Diventiamo la platea dell'happening e il botta e risposta tra personaggio e pubblico si fa intensa relazione. Smarrimento_Lucia-Mascino-foto-Kimberley-Ross-DSC7712-2-scaled.jpgLa Mascino, nel pieno della maturità recitativa, è qui magistrale in un mix tra l'indecisione cronica della miglior Buy, il sarcasmo pungente di Franca Valeri, l'aria rarefatta di Laura Morante, l'ironia di Monica Vitti. Negli spettacoli precedentemente visti a firma dell'autrice romana (“Tumore”, “L'origine del mondo”, “La vita ferma”) la caratteristica principale emersa era una densa verbosità, una corposa prolissità, parole che allora ci erano sembrate più letterarie che teatrali, scorrendo con fatica dal boccascena alla sala. Questo “Smarrimento” invece è stata una vera sorpresa, una bella scoperta: qui c'è ritmo, velocità, un'armonia, una musicalità tenuta e orchestrata con grazia esperta dalla Mascino che tiene le redini del testo come del pubblico, spostando l'attenzione a piacimento, divertendosi, aulica e popolare, in questo affresco meschino e cinico delle nostre misere esistenze.

Woodyalleniana, incerta e titubante, salta da un argomento all'altro (nel rapporto con la platea per certi versi ci ha ricordato una sorta smarrimento-evi.jpgdi “Insulti sul pubblico” di Peter Handke in tono soft, mentre per l'ardimentoso oscillare delle parole senza una sua centralità ci è tornato alla memoria “Thom Paine. Basato sul niente” di Will Eno), si apre, si racconta instabile, si ritrae, si confessa, sproloquia in questo sfogo che ci porta sul bordo dell'abisso umano, trattato con leggerezza amarognola ansiogena, di squallori quotidiani che non hanno resa né soluzione. Lo smarrimento è quello della scrittrice, acidula, problematica, annoiata, infastidita, scocciata (si appunta idee e frasi che poi non svilupperà perché niente le sembra importante e tutto le pare una perdita di tempo), ma anche quello, in una triangolazione di specchi e riflessi, dei personaggi evocati dei suoi libri, Anna, il marito Paolo, i due figli, voci che si addensano e si affollano reali nella mente, nei dubbi, nelle pagine della protagonista che si sente braccata, in apnea da tutto questo coro che improvvisamente prende il sopravvento, la parola, lo spazio. Riempie con teatro.it-Smarrimento-Lucia-mascino-ph-Giulia-Di-Vitantonio-recensione.jpgi suoni delle parole un silenzio materico del quale, forse, ha paura, ha timore del vuoto, dell'eco dei propri pensieri, contempla la realtà più che viverla, non prova più piacere.

Se la forma è brillante, scorrevole, piacevole, un divertissement nel quale emergono e s'impongono le capacità attoriali della Mascino, l'intimità e l'interiorità del testo è caustico, profondo, aspro e doloroso di solitudini, di depressioni esacerbate. La sua esplosione dialettica rancorosa e delusa appartiene a tutti noi, ci fa sorridere per esasperata esorcizzazione, perché ben fotografa le piccole manie, le ripetute sconfitte di tutti i giorni, le incomprensioni, la mancanza di desiderio, la voglia di non aver più voglia. Sfrondato da questa sua forma brillante, “Smarrimento” si potrebbe sintetizzare con la battuta all'interno della piece: “Tu perché campi? Qual è il tuo buon motivo per vivere?”; la domanda risuona ancora calda, molesta, traumatizzante. Se ci pensi e non trovi risposte adeguate c'è di che smarrirsi.

Tommaso Chimenti 05/03/2023

Foto: Kimberly Ross, Giulia Di Vitantonio

FIRENZE – Un tempo c'erano i Supereroi, che fossero in fumetto o al cinema. Spiderman con le sue ragnatele, Thor con il maglio, Hulk per la sua forza incredibile e il colore verde pistacchio arrabbiato, Capitan America con lo scudo, Superman che veniva dallo spazio e poteva volare, Braccio di Ferro e gli spinaci e un pugno galattico, SuperPippo e la nocciolina, Iron Man, Wonder Woman, Flash Gordon, i Fantastici Quattro, Batman e altre decine ne stiamo dimenticando. Da oggi in poi esisterà soltanto “L'Uomo Calamita” (prod. Circo El Grito; visto all'interno dello chapiteau di InStabile Culture in Movimento in zona Varlungo a Firenze) di e con Giacomo Costantini saltimbanco affascinante, seducente nei suoi muscoli guizzanti “tutti di plastica e di metano”, faccia sbarazzina, sguardo canagliesco, equilibrista pirotecnico, magnetico, erotico, poderoso, azzardato, ammaliante, coinvolgente. La storia si svolge sul doppio binario dei numeri e delle gag di circo-teatro intersecate dalla narrazione, direttamente al leggio di Wu Ming 2, che incastonano le vicende del funambolo giocoliere in un quadro più serio, in un contesto più ampio di guerra, di Liberazione, di vite da rischiareUOMO-CALAMITA-e1535623966722.jpg per raggiungere l'emancipazione dal fascismo.

I numeri e le gag ci sono tutte per creare lo stupore nei bambini di ogni età mentre, anche questo elemento che esula dai tradizionali spettacoli circensi, un batterista fionda i suoi bicipiti sui piatti e con i tricipiti sferza la grancassa (gagliardo Fabrizio Baioni “Cirro”). E' quest'alchimia da wow che colpisce i pubblici di ogni generazione, le trovate iperboliche fisiche (grande preparazione, allenamento ed esercizio e meditazione alla base dell'esperienza di Costantini) si stampano sulle retine mentre le avventure narrate ci portano dentro la Seconda Guerra Mondiale (argomento caro e prediletto di Wu Ming 2, all'anagrafe Giovanni Cattabriga), la guerra civile nostrana tra i battaglioni partigiani e le squadracce fasciste e le brigate naziste. Da una parte il gioco scanzonato, quel sfidare la morte per gara (oggi si chiamerebbe “challenge”), per imprevisto, per sfrontatezza, per sfacciataggine spudorata, per arroganza, dall'altra quel sfidare la vita per salvarsi, per annientare il nemico, per un domani più giusto, per un'esistenza libera dal giogo della schiavitù. Caldo e freddo, due correnti che qui si sommano alla perfezione, si miscelano, si amalgamano, si mantecano creando una sostanza spirituale commovente, toccante, altamente partecipata.

Se le Uomo-calamita-slide.jpgevoluzioni dell'Uomo Calamita ci riportano al nostro fanciullo interiore, all'infanzia da naso all'insù, a quell'impossibile divenuto magicamente possibile, le storie di guerra e rappresaglie, di fucilazioni e tranelli, di imboscate e rastrellamenti (nebbia e foglie secche sparse a terra ci ricordano i paesaggi fenogliani) ci fanno stringere il cuore. E la musica, le grandi bordate ritmiche di batteria, sono un collante ritmico, una scansione temporale armonica e violenta per sostenere il peso pericoloso di quello che stiamo vedendo e per difendere l'altrettanto pericoloso fardello di ciò che stiamo ascoltando. Occhi spalancati, bocca aperta, orecchie allargate, che la storia ci entra dentro da tutti i pori. Costantini, fulcro e anima della pièce da lui stesso ideata e messa in scena, prima si appoggia cucchiai sul petto come sul volto e questi rimangono su senza scivolare a terra, per via di forza misteriose o doti naturali di campi elettromagnetici interiori, successivamente anche un pesante ferro da stiro rimane in verticale aggrappato ai pettorali del performer senza nessun cedimento strutturale, senza nessuna intenzione di cadere a picco.

Ma i numeri e le qualità dell'artista di strada sono soltanto all'inizio: balla una danza atletica tra flamenco e tip tap facendo UC_Paolo Cudini-2.jpegroteare vorticosamente a gran velocità, come un gaucho nella pampa argentina, le bolas facendole sbattere a terra a tempo di musica, esercizio prezioso e raro quanto complicato ma intonato e melodioso. Non è finita qui: rimane in equilibrio precario dondolandosi sulle due gambe posteriori di una sedia posta sopra una scala collocata a diversi metri da terra, sfidando le leggi della fisica e della gravità, fino alla performance delle performance, ovvero rimanere per oltre tre minuti in apnea in una vasca sigillata ermeticamente, con le gambe bloccate, a testa all'ingiù e con le mani legate da pesanti catene (il famoso numero di escapologia, ma anche escatologia, del grande Houdini, la “pagoda cinese dell'acqua”) e liberarsi tenendo tutti con il fiato sospeso, sudando freddo. Il messaggio finale sta tutto nelle parole di Wu Ming 2 e nel parallelismo tra le manette, le torture e le apnee messe in scena nel circo e quelle che il popolo italiano si sarebbe trovato ad affrontare nel Ventennio Fascista. Ma, come ci insegnano Houdini e l'Uomo Calamita, una soluzione e una via d'uscita per la libertà sono sempre possibili basta non rimanere passivi ma agire, muoversi, rischiare. Che il premio può essere la salvezza.

Tommaso Chimenti 04/03/2023

Pagina 2 di 29

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM