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"Nessuno può appropriarsi in maniera esclusiva di ciò che è di Dominio Pubblico, piuttosto ciascuno può prendere quel bene e goderne".

Dominio Pubblico – La città agli Under 25” è il primo festival italiano completamente dedicato alla creatività under 25, un format originale giunto alla sua quinta edizione e che vede la collaborazione col Teatro Nazionale di Roma. Gli eventi sono ospitati dal Teatro Valle e dal Teatro India, dove dal 29 maggio sono in corso esposizioni, sessioni di musica live, spettacoli di teatro e non solo: spazio anche alla danza.

Due sono i corti presentati sabato 2 giugno: “Atmos” di Vera Sticchi e Claudia Gesmundo e “Ritornello – Disintegration Loop” di Greta Francolini.

Il lavoro portato in scena dalla due danzatrici e coreografe baresi è stato mostrato in anteprima durante la rassegna “AbelianoDanza” ottenendo anche la selezione per il festival di danzaAtmos contemporanea e performing art “Idaco (Italian DAnce COnnection)” di New York, dove si sono esibite lo scorso maggio. I corpi sono fluidi e morbidi, quando inizia la musica (originale di Fabio Gesmundo) la danzatrice in primo piano occupa tutto il quadrato di spazio illuminato a sua disposizione, prolungando all’estremo il suo corpo, come fosse un liquido che occupa un recipiente. Lo stesso fa la seconda danzatrice, nell’angolo a destra, più in penombra, mentre avanza. Spesso fuori asse, i corpi si allungano, si estendono, facendo largo utilizzo di braccia e gambe, grazie anche alla rotazione delle spalle, al movimento dei fianchi, all’uso delle ginocchia. Nella seconda parte le due si muovono non solo insieme, ma entrano fisicamente in contatto tra loro, si toccano, i loro corpi diventano complementari, come fossero particelle liquide compenetranti. La terza parte si svolge avanti e dietro ad un ampio e leggero velo posto in fondo alla scena che, mosso dalle mani e illuminato (light designer Michelangelo Volpe), ricrea l’effetto di bolle d’aria e increspature d’acqua. È quel velo a dividerle, per poi inglobarle entrambe. Il concetto sociologico a cui le performer si sono ispirate è quello di ‘società liquida’, di Zygmunt Bauman, cioè la condizione moderna in cui l’individuo e le sue relazioni sociali sono soggetti a mutazioni, composizioni e scomposizioni continue, che rendono tutto labile, fluido e volatile. È come se la società moderna si sciogliesse e l’uomo faticasse a rimanere a galla, costretto in una bolla liquida e informe incapace a solidificarsi e a farsi materia. Questa instabilità perenne è in continua trasformazione, ma non c’è possibilità di emergere: è un lento essere sopraffatti, è un annegare piano, un affondare progressivo. Infatti, dopo aver iniziato l’esibizione singolarmente e dopo aver danzato insieme ed essersi toccate, le due danzatrici si trovano nuovamente divise e poi, ineluttabilmente, estraniate. 

RitornelloRitornello – Disintegration Loop” è una produzione completamente diversa, progetto finalista per "DNAppunti Coreografici 2017": in scena la giovane Greta Francolini, performer e coreografa classe 1993 attiva da circa tre anni sulla scena contemporanea. L’artista toscana ha come punto di partenza “The disintegration Loop” del compositore statunitense William Basinski, strutturato sulla replica di un campione sonoro che si disfa e si scompone fino a che non resta solo una parvenza sonora, frutto di una progressiva disintegrazione. La Francolini punta proprio sul concetto di ‘ripetizione’, non solo musicale, ma anche di uno stato d’animo. La vediamo entrare in scena annoiata, svogliata, così per tutta la durata del pezzo. La coreografia si sviluppa sulla stessa traiettoria spaziale: avanti e indietro su una immaginaria linea orizzontale parallela alla lunghezza del palco. Una volta, due volte, tre volte, quattro, cinque, sei e ancora così fino alla fine, salvo alcuni momenti che si sviluppano in modo circolare a centro scena. La musica è assolutamente fondamentale, non solo dal punto di vista ‘ideologico’: il loop che la performer porta avanti è l’esasperazione di un sentimento, di una emotività, che non resta chiusa entro i confini della musica, ma che da questa scaturisce e si autoalimenta.

 

Giuseppina Dente
03/05/2018

Nell’epoca in cui siamo drasticamente uniti dalla distanza, il World Wide Web (alias www) è divenuto parte integrante delle nostre realtà, anche più di quanto siamo disposti ad ammettere. 

Alessandro Blasioli di soli 23 anni porta in scena DPR: Web Sommerso (da lui scritto, diretto e interpretato) al Teatro India per il festival di Dominio Pubblico quest’anno interamente dedicato ai giovani #Under25.
E con questo affronta con ingegno e astuzia una delle più grandi trasformazioni che abbia vissuto la popolazione terrestre.
Con l’avvento della rete più o meno venti anni fa si è dato inizio a una nuova fase della storia, quella digitalizzata che sebbene sembri stia raggiungendo i massimi livelli di evoluzione, occorre ammettere che siamo solo all’inizio del web 1giro di giostra.
Abituati ad interfacciarci con il nostro “fedele” smartphone non possiamo non ammettere che talvolta il rapporto sembra sfuggirci lievemente di mano; ma quello che ha da dirci il giovane abruzzese è ben più terrificante.
E inizia così salendo sul palco nel turbinio di fumo e luci al neon indossando una maschera dai led intermittenti che ne contornano un sorriso indimenticabile per la nostra generazione: quello di V, il vendicatore, terrorista e giustiziere creato da Alan Moore nel lontano 1982.
Un volto di pietra che parla da sé con un sorriso beffardo ed è dietro la sua potente immagine che Blasioli ci introduce allo show per presentare con una serratissima e fittissima rassegna di date, nomi e eventi, la storia di quel Web denominato Sommerso: quella parte cui nessuno può accedere neanche se riuscisse a trovarne le coordinate, quella parte che esiste esattamente quanto non esiste.
Il calderone bollente entro cui gorgoglia quel gruppo di persone che silenziosamente e in forma anonima (i più noti “anonymous”), progettano di smascherare politici, forze nazionali e molto altro ancora. È un viaggio interminabile tra casi che hanno fatto la storia mondiale (come il caso Snowden e tanti altri), che riesce a sensibilizzare l’uditorio pietrificato e catturato.
E a condurre il gioco è una voce fuori campo denominata Dorothy rievocando simbolicamente la giovane dalle lunghe trecce costretta a indossare occhiali scuri per non essere accecata in presenza del grande Mago di Oz.
Quindi neanche al nostro protagonista è concesso troppo spazio, anche lui è controllato mentre si destreggia tra le fitte reti della realtà dannatamente non virtuale e cerca di porci un quesito fondamentale: di fronte a crimini efferrati e violazioni di ogni genere degli spazi vitali, è possibile essere dalla parte di chi cerca di combatterli se pur con i mezzi sbagliati?
La libertà d’espressione è davvero totale e possibile solo nel momento in cui si può usurfruire dell’anonimato? Di questo parlava proprio il più famoso film "V per vendetta" sopra citato.
web 3Sono questioni assolutamente attuali e di stimolo che arrivano taglienti come lame e ci ricordano come stiamo diventando sempre più cavie osservate e studiate da dietro un piccolo e “innocuo” schermo retroilluminato.
Dunque uno spettacolo sui generis di cui non è la performance il fine ultimo, seppur Blasioli abbia fatto un lavoro immenso, ma la necessità di comunicare tutto quel mondo che giace nascosto e di cui spesso dimentichiamo di far parte.

Daria Falconi
01/06/18

«It's a very very mad world» cantava Gary Jules e non è un caso che sulle note di questo brano si chiuda “Cenerentola”, spettacolo diretto da Fabrizio Arcuri, al Teatro India fino al 29 aprile. Lo stesso regista ha dichiarato che «le parole del testo sembrano proprio corrette per la chiosa del lavoro affrontato e accompagnano bene alla fine di questa vicenda».

La storia portata in scena non è l’originale fiaba popolare che tutti conosciamo, ma la riscrittura del drammaturgo francese Joël Pommerat. È una versione che scardina quella dei fratelli Grimm e ne sposta il focus sul rapporto coi sensi di colpa, con la morte, con le belle storie (false) che ci raccontiamo ogni giorno per aiutarci a vivere. «Se viviamo in un sogno dormiamo, non agiamo» sentenzia fredda e disincantata la matrigna.

Il compito di Arcuri è stato proprio quello di accostarsi ad un testo noto a tutti, che ci accompagna dall’infanzia, ma trovando sfaccettature che ne consentissero una chiave di lettura moderna e una riflessione psicologica adatte anche agli adulti. Un allontanamento, dunque, dalle versioni edulcorate a cui certi filoni di scrittura fiabesca e rappresentazione teatrale/cinematografica ci hanno abituato. Le vicende di oggi vengono sovrapposte alla fiaba di ieri, operazione che Arcuri ha portato avanti anche con “Pinocchio”, sempre sulla riscrittura di Pommerat, dunque un testo più aperto e politico rispetto all’originale, in cui si approfondisce il rapporto individuo-società, tema attuale che riguarda tutti da vicino.

Protagonisti di “Cenerentola” sono gli attori dell’Accademia degli Artefatti, fondata e diretta dallo stesso regista romano. Sandra/Cenerentola (una delicata ma convincente Irene Canali) èCenerentola Arcuri una bellissima giovane ragazza che non riesce ad accettare la precoce scomparsa della madre. I lunghi capelli rossi, lo sguardo trasognato, il vestitino azzurro cobalto e soprattutto il grande orologio che porta appeso al collo, ne fanno il perfetto ibrido fra Alice nel Paese delle Meraviglie e Pippi Calzelunghe. Il dolore per questa perdita insanabile verrà acuito dall’ingresso forzato in una nuova e indesiderata famiglia che il padre (Valerio Amoruso) le impone. Quest’ultimo intrattiene una relazione con una dispotica signora (la travolgente e determinante Rita Maffei) a sua volta vedova e con due figlie (Aida Talliente e Elena Callegari) a carico. I soprusi perpetrati dalla matrigna e le sevizie psicologiche delle sorellastre non scalfiscono il carattere forte ed orgoglioso di Sandra che svolge senza mai lamentarsi anche i più umilianti lavori domestici che le vengono imposti. 

Il giorno che cambia il suo destino arriva sotto le vesti di un’anomala fata benefattrice (un esilarante Gabriele Benedetti) - dai poteri magici decisamente discutibili - che la trascina a forza al ballo del Re (Luca Altavilla). Per pura casualità e dopo aver superato un infinito groviglio di equivoci, Cenerentola troverà nell’amore del Principe azzurro (Matteo Angius) - anche lui inconsolabile orfano di madre - la forza di lasciarsi alle spalle il dramma del lutto. L’ingombrante presenza della morte e l’incapacità dei personaggi di conviverci sono i due elementi che caratterizzano l’adattamento di Pommerat nonché il fil rouge che lega i due protagonisti: Cenerentola ed il Principe azzurro. Nel primo caso il dolore della perdita viene affrontato con spirito autopunitivo: l’orologio appeso al collo suona ossessivamente ogni cinque minuti, proprio per non concedersi una pausa da questo pensiero ossessivo. Nel secondo invece viene messo in atto un meccanismo di rimozione forzata: il giovane si autoimpone di continuare a credere che la madre non ritorni da lui unicamente a causa dello sciopero dei mezzi di trasporto.

Fra i due personaggi intercorre un ribaltamento dei ruoli classici che si materializza efficacemente nel gesto dell’intraprendente Sandra di farsi regalare la scarpa dal principe, e non il contrario, per assicurarsi la possibilità di ricondurlo a sé dopo il primo fortuito incontro. Arcuri sceglie di illuminare le figure maschili di una luce non proprio benevola: emergono come inetti perennemente in balia dei volubili umori femminili.

Essenziale e dirompente la doppia, anzi tripla, funzione di Elena Callegari: sorellastra, voce narrante - con l’ausilio di un microfono - ed anche regista, viste le continue indicazioni su luci e musiche cha lancia nel corso dello spettacolo in cabina di regia. La continua penetrazione nella quarta parete scenica contribuisce a restituire la totale estemporaneità di questo adattamento postmoderno - parola abusata ma che calza qui a pennello per restituire l’immagine di frammentarietà che caratterizza lo spettacolo - di uno dei più grandi classici del patrimonio popolare fiabesco.

Cenerentola Arcuri 3

Arcuri opta per una scenografia minimalista: sul palcoscenico infatti lo spettatore viene abituato al cambio dei diversi ambienti esclusivamente dallo spostamento di alcune installazioni in legno di colore bianco, ciascuna di diverse dimensioni. Sono gli stessi attori a muoverle e rappresentano vari oggetti: il letto della madre di Sandra o quello di Cenerentola, le pareti in vetro della casa, la lavatrice sulla quale si siedono le due sorelle. I personaggi si nascondono all’interno di essi, mentre altre volte vengono usati come supporto su cui aggrapparsi e lanciarsi nel vuoto. È proprio in questo semplice impianto scenico che si snoda l’intero spettacolo. Sullo sfondo brilla una tendina dai colori argento e oro, decisione sicuramente eccentrica ma che simboleggia perfettamente la spettacolarizzazione della classica fiaba. È un vero e proprio show quello che il pubblico guarda, accentuato ancor di più dalle personalità stravaganti dei personaggi.

Su questa stessa linea verte la scelta dei costumi, caratterizzati da uno stile decisamente alternativo. Così le due sorellastre di Cenerentola indossano colori sgargianti e che non si uniformano tra di loro, la matrigna veste abiti che sottolineano la sua forte ossessione di apparire giovane e l’abbigliamento del principe di nobile non ha quasi nulla.

A completare il moderno mosaico dello spettacolo è la musica, in cui pop e rock si mescolano: da “God save the Queen” dei Sex Pistols a “Like a Virgin” di Madonna, da “Father and son” di Cat Stevens a “Mad world” di Gary Jules, fino alla tipica musica da discoteca durante la festa da ballo.

Giuseppina Dente, Luisa Djabali, Eugenia Giannone 28/04/2018

Intervista a Fabrizio Arcuri: https://www.recensito.net/rubriche/interviste/intervista-fabrizio-arcuri-cenerentola-pinocchio.html

Focus su Pommerat: https://www.recensito.net/teatro/cenerentola-perrault-disney-pommerat-arcuri.html

È operazione comune che narratori e drammaturghi decidano di raccontare un mito consolidato, pur con differenze notevoli di versione in versione, secondo punti di vista inediti, per disvelarne i sottintesi nodi psicologici o esplicitarne i tabù più nascosti. Questo il caso di Joel Pommerat, autore di teatro francese che, con “Cenerentola”, “Pinocchio e “Cappuccetto Rosso”, si pone proprio tali obiettivi. Nello specifico, la sua “Cendrillon” (francese per “Cenerentola”) si inserisce nel filone tracciato originariamente da Giambattista Basile e Charles Perrault nel diciassettesimo secolo, e dai fratelli Grimm nel diciannovesimo.
La versione più vicina a Pommerat nei toni, più che nel tempo, è quella del suo connazionale Perrault. Questi epurò i tratti più cupi e violenti del racconto di Basile, probabilmente per narrare la fiaba a corte a un pubblico aristocratico. In Basile, infatti, Cenerentola (anzi, “Zezolla”) uccide la sua prima matrigna per far sposare al padre la sua istitutrice, che si rivelerà, tuttavia, ancora più crudele. Colpa e espiazione vengono rimossi da Perrault, al loro posto trova rifugio una sofferenza generosa, cristiana, con cui Cenerentola affronta la vita di sacrificio che le è capitata, suo malgrado. L’accettazione del proprio destino, successivamente ribaltato, è alla base anche della versione Disney, ancora più edulcorata e allegorica. Cene1L’infelicità colpisce gli ingiusti mentre, chi è di cuore puro, viene premiato con agio e ricchezze. A legare i due mondi, più che una zucca trasfigurata, lo strumento simbolico della perraultiana scarpetta di cristallo, grazie al quale l’amore salvifico del Principe potrà ritrovare la sua destinazione naturale.
Sebbene da questa fonte prenda il via il dramma di Pommerat, vi si discosta anche con decisione antitetica. Pur astenendosi da crude violenze tipiche della fiaba originale, centrali nella versione dei Grimm, l’autore teatrale francese riscopre le delicatezze nervose di un dramma familiare e psicologico. Il buio, quindi, ritrova spazio sulla scena, si fa esso stesso scenografia, delimitata da pareti invisibili e luci fatiscenti. Pommerat non manca di donare al racconto sfumature moderne che impreziosiscono di inquietudine il trauma della protagonista: l’incomunicabilità diventa primo e ultimo antagonista, generato dall’incapacità di elaborare lutto e dolore. Cenerentola, all’anagrafe Sandra, non comprende (o non vuole comprendere) le ultime parole di sua madre, la cui sopravvivenza demanda al ricordo ossessivo, scandito letteralmente da cinque minuti di orologio. È il ritorno della colpa di Basile, per riparare alla quale la ragazza si sottoporrà volentieri a qualsivoglia tormento di matrigna e sorellastre, anzi, spesso superando per scelta la loro stessa immaginazione.
Lo stesso Principe, denudato di prestigio e autorevolezza che si è soliti associare al suo ruolo, è un ragazzo impacciato, goffo, frenato dallo stesso trauma e dalla stessa incapacità di accettare la morte della madre. Sarà Cenerentola, altra metà di una complementarietà predestinata, a mostrargli la strada, severa ma giusta, della realtà. La ragazza diviene medicina per sé e del Principe, la cui gratitudine sarà incarnata dal dono di una scarpa, regale sì, ma ben lontana dal cristallo. Affetto e gratitudine ben più comuni, quindi, sostituiscono l’amore fiabesco, in una storia che non conduce due giovani da un mondo di miseria e solitudine a uno di sentimenti e ricchezza, ma dall’infanzia all’età adulta.
Cene2Dalla riscrittura di Joel Pommerat, arriviamo infine ai giorni nostri, con la messa in scena di “Cenerentola”, seguita a breve distanza da “Pinocchio”, di Fabrizio Arcuri, con gli attori dell’Accademia degli Artefatti, al Teatro India di Roma (24-29 aprile). Arcuri si muove entro i limiti del testo francese, ne segue pedissequamente le suggestioni verbali e psicologiche. Quel che si trasforma ulteriormente, nella sua visione, è la scena: da cupa si fa più grottesca, colorata da incursioni pop, musicali (Bob Dylan, Madonna, Gary Jules) e non. La voce narrante, impersonale in Pommerat e accompagnata da un mimo, viene incarnata da un personaggio altrimenti partecipante, dotato di microfono. Il gioco di specchi si moltiplica, con frequenti spunti di meta-teatro. La ricerca dell’autore francese, la sua decostruzione psicologica della fiaba, ben si prestano a un approfondimento scenico sull’identità del racconto drammaturgico. Di contro, l’aspetto e l’azione godono di nuova leggerezza, ricercano all’interno della moderna complessità di contenuti un’allegria e una joie de vivre quantomeno post disneyane. Una contaminazione dal sapore vagamente burtiano, una Cenerentola nel paese delle non-meraviglie che a secoli dalla sua nascita si ostina, con merito dei propri interpreti, a ringiovanire.

Andrea Giovalè 28/04/2018

Recensione di "Cenerentola" di Fabrizio Arcuri: https://www.recensito.net/teatro/cenerentola-fabrizio-arcuri-teatro-india-fiaba-moderna.html

Al Teatro India, dal 19 al 29 aprile, va in scena “Echoes”, diretto da Massimo Di Michele e tratto dal testo del giornalista e drammaturgo inglese Henry Naylor. Lo spettacolo, in prima nazionale italiana, è incentrato su due storie di violenza contro le donne. Negli spazi dell’Accademia Silvio d’Amico il regista racconta agli allievi del Master in Critica Giornalistica l’iter di messa in scena del dialogo fra due echi: quello di Tillie (Federica Rosellini) e quello di Samira (Francesca Ciocchetti). Con fare amichevole e spirito performativo, Di Michele si esprime con passione ed entusiasmo.

Qual è il tema principale di “Echoes”?

“La femminilità come eco. Siamo in un’epoca senza tempo, in un limbo in cui due donne si incontrano e parlano sì sé. La prima cosa che ho immaginato sullo spettacolo era che le protagoniste fossero due donne dialoganti, non volevo mettere in scena due monologhi”.

Hai lavorato su un testo contemporaneo che in Italia non era mai stato messo in scena. Puoi raccontarci com’è nata la decisione di realizzare questo spettacolo?

“Prima di scegliere di lavorare su “Echoes”, vincitore del festival di Edimburgo, ho letto ben 77 testi in due mesi; questo mi è piaciuto particolarmente e ho cominciato subito a immaginare come avrei voluto metterlo in scena. Echoes1Un testo per me funziona se, quando ho finito di leggerlo, comincio a viaggiare con la mente”.

La regia è interamente frutto della tua mente. Qual è il punto di partenza per mettere in scena un testo?

“Attingo dalla vita reale e poi rendo tutto astratto. Vivere è la cosa più importante e il teatro è un’altra cosa, bisogna distinguere tra realtà e immaginario”.

Il testo è scritto e diretto da un punto di vista maschile. Pensi che sia giusto che un uomo parli di violenza sulle donne?

“È necessario. Io da uomo mi vergogno vedendo altri uomini fare certe cose. Se una donna viene maltrattata e uccisa il problema non è solo delle donne ma anche e soprattutto degli uomini. Un discorso fra sole donne diventa autoreferenziale e fine a sé stesso. Spero che il mio contributo sia di buon auspicio”.

Cosa intendi per violenza di genere?

“Gli abusi sulla donna rientrano in un bacino più vasto. Dobbiamo chiederci perché oggi esiste la violenza. Gli attentati sono forse un eco di quello che abbiamo fatto noi occidentali durante il colonialismo?”

La violenza torna sempre indietro, le donne sono vittime di un odio universale che supera le differenze di genere e trova echi in una realtà attuale di terrorismo. Ma la tua messinscena è etichettata come femminicidio. Come valuti il significato di questa parola?

“Per me è solo un termine dal significato generico: non comprende solo l’omicidio ma ogni forma di violenza che intacca l’universo femminile. Nonostante questo ho cercato di rendere il racconto meno retorico possibile”.

C’è rimedio alla violenza?

“L’eco si perpetua: si tratta di un parallelo fra la donna dell’Ottocento e la donna di oggi e la realtà non è cambiata. L’elemento di cambiamento nel mio spettacolo è il fatto che la donna, da vittima, si trasforma in carnefice”.

Sembra che si sia ribaltato anche il rapporto fra donne e maternità: quest’ultima è il fine delle protagoniste mentre nel mondo di oggi lo scopo primario è il lavoro e la conseguente rinuncia all’essere madre.

“Esattamente. Tillie e Samira cercano la maternità perché è un dovere ed è la religione che impone loro questo; il fatto che nessuna delle due ci riesca mina la loro essenza femminile”.

Come hai scelto le due attrici in relazione al testo?

“In realtà ho modellato il testo su di loro. Per esempio ho omesso l’età: non dico che sono diciassettenni. Le ho scelte perché sono molto diverse eppure complementari. Federica ha già lavorato con me, c’è una grande intesa; interpreta il ruolo di Tillie, una donna più realistica, più intuitiva. Francesca interpreta Samira e si è molto emozionata durante il percorso di immedesimazione”.

Come sei solito lavorare con gli attori?

“Il lavoro con gli attori è importantissimo. Il fine non è soltanto la messinscena ma anche una crescita umana, un percorso emotivo, psicologico e fisico. È necessario lavorare con leggerezza e creare un clima di serenità anche quando si affrontano tematiche serie. L’attore non deve essere comandato ma usato come artista, come parte creativa del lavoro. Credo nello scambio reciproco”.

In “Echoes” convivono recitazione e coreografia. Come hai unito questi due linguaggi?

“Da una parte sono sempre alla ricerca di nuovi modi di esprimersi. Dall’altra vedo una grande attinenza tra movimenti e parlato.Massimodimichele2 Abbiamo lavorato su un doppio binario, quello della drammaturgia del corpo e quello della drammaturgia della parola. Ho fatto grande uso di gesti simbolici e ricorrenti”.

I gesti coreografici rimandano alle danze indiane e medio-orientali che utilizzano una tecnica chironomica emblematica...

“In realtà non hanno niente a che fare con queste danze. I gesti descrivono azioni, pensieri ed eventi. Ho avuto il piacere di collaborare con Francesca Zaccaria che ha studiato con Pina Bausch. Sono da sempre un grande amatore della danza contemporanea e del linguaggio del corpo e molte cose sono nate dall’improvvisazione, da un’idea mia o di Francesca; il secondo passo è quello di sviluppare i movimenti accennati, plasmandoli sulle capacità delle due interpreti”.

In scena vediamo dei tubi gialli. Puoi spiegarci il perché di questa scelta?

“Ho scelto dei tubi perché si annodano e s’intrecciano e per me sono una metafora dei grovigli dei pensieri che imprigionano Tillie e Samira. La scelta del giallo, poi, non è casuale: per citare Van Gogh è il colore dell’urlo e il colore di Dio e non a caso si tratta di un testo con una forte valenza religiosa. Il tubo può inoltre rappresentare un tunnel attraversato dalle due donne, oppure simboleggiare le loro vene".

Le donne indossano abiti chiari. C’è una simbologia legata al colore dei costumi?

“I costumi sono color carne perché io volevo in scena due donne nude, più nello specifico due bambole rotte nude. Ho detto ad Alessandro Lai, costumista importantissimo e mio amico, che mi sarebbe piaciuto vedere sul palco delle barbie”.

Qual è il tuo rapporto con la critica teatrale?

“Credo che il web abbia in parte distrutto il ruolo del critico. Una critica può essere positiva o negativa ma deve sempre essere argomentata. Succede troppo spesso di leggere recensioni che assomigliano a post di Facebook scritti male. Faccio parte di una generazione di registi che ha imparato a non dare troppo peso alle stroncature, credo sia parte del gioco”.

Da regista, qual è la più grande soddisfazione a cui aspiri?

“Sono egoista, faccio gli spettacoli per me. Vedo la messinscena come una tela bianca da disegnare e il primo da soddisfare sono io. Come seconda cosa l’emozione vera del pubblico che non si riscontra quasi mai alla prima recita. Nella prima c’è troppa emozione. Sono un attore, so come ci si sente”.

Benedetta Colasanti, Chiara D’Andrea 28/04/2018

Recensione "Echoes": https://www.recensito.net/teatro/echoes-henry-naylor-massimo-di-michele-teatro-di-roma.html

 

L’affetto ha tante forme. Talmente tante che è impossibile raccontarle tutte, ma è sempre possibile raccontarne una nuova. Michela Murgia l’ha fatto, con il suo “Accabadora”, romanzo vincitore del Premio Campiello 2010, e oggi lo rifanno la regista Veronica Cruciani, l’autrice teatrale Carlotta Corradi e l’attrice protagonista Monica Piseddu, andate in scena dall'1 al 4 marzo al Teatro India di Roma. Un quadrato di narratrici attorno a una storia che sì, presenta temi delicati e attuali quali eutanasia e maternità di fatto, ma che ha soprattutto una cosa, al centro: l’affetto.
In un paesino sperduto della Sardegna, non importa quale, la piccola Maria, quarta figlia di una madre stanca, viene affidata a Bonaria Urrai, una sarta solitaria di nero vestita (nei suggestivi drappi neri a cura di Barbara Bessi). Ed ecco che subito l’affetto si solidifica attorno a questo primo significativo legame e lo cristallizza nel tempo indefinito di una memoria, quella di Maria stessa. Memoria che poi si fa voce, saltellando qua e là in un passato che ha il candore dorato di un’Arcadia dall’accento sardo, o il profumo innocente del pane appena sfornato.Accabadora 1
Eppure, presto incominciano a proiettarsi ombre lunghe sul racconto di Maria, un’intensa Monica Piseddu che tenta in tutti i modi di svicolare, evitare di calpestare ricordi traumatici, ma sempre più invano. L’arrivo della notte segna la prima di una serie di turning point a opera del contributo audio (Hubert Westkemper) e video (Lorenzo Letizia) dello spettacolo, catalizzati da un grande pannello sullo sfondo sul quale si proiettano immagini di specchio e confuse visioni subconsce. Da dietro la parete, inoltre, scricchiolii, guaiti, rantoli e altri suoni angoscianti, acuti di un tappeto musicale buio e tangibile.
Il monologo, che nell’adattamento di Carlotta Corradi trasuda la letterarietà della fonte senza farne segreto, anzi, valorizzandone i passaggi narrativi, è un resoconto indiretto che procede a tentoni, fino a capire chi fosse veramente Bonaria Urrai, la “tzia” facente funzioni di madre. Il titolo stesso, il dialettico “accabadora”, ne costituirebbe succosa anticipazione, ma è comunque superfluo. La comunicazione non verbale, corporale e polifonica della protagonista, a suo agio tra accenti e cadenze, dice tutto ciò che vorremmo sapere. Compreso il graffiante segreto che, forse, vorremmo poter ignorare.
Giunti alla fine del viaggio, a sorpresa, scopriamo di poterlo fare. Noi, come Maria, come Bonaria Urrai prima di lei, giungiamo alla comune conclusione che proprio l’affetto può richiedere le cose più spregevoli ma, trovata la forza di metterle in pratica, ci ripaga trasformandole. È così che la missione di Veronica Cruciani, in cabina di regia, si compie: con un abbraccio tra figlia e madre, e tra amore e morte.

Foto di scena: Marina Alessi.

Andrea Giovalè
4/3/2018

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