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1990, periferia di Tijuana, Messico. Un narcotrafficante di origini israeliane che si crede la reincarnazione di Cristo, Jesus; Nancy, giovane ragazza francese completamente sottomessa a Jesus; Babu, colto e raffinato dandy, esperto di fisica quantistica, importante cliente di Jesus; Lisavet, sorella di Babu e poetessa di discreta fama. Sono i quattro protagonisti che si sono affrontati in un serrato faccia a faccia, soprattutto con se stessi, ne Il Vangelo di Tijuana, ultimo audace, intenso spettacolo della Compagnia Oneiron andato in scena dal 27 novembre al 02 dicembre al Teatro Trastevere. Recensito ha incontrato il Presidente e fondatore della Compagnia, il regista Riccardo Maggi, una delle attrice e aiuto-regista Michela Tebi e Gianluca Giaquinto, autore del testo e già collaboratore in passato della Oneiron.

Gianluca, questo è il terzo spettacolo che scrivi per la Compagnia. A cosa ti sei ispirato?
G: È una domanda piuttosto difficile, solitamente tendo a scrivere senza aver in mente un progetto chiaro, parto da un’immagine e non da un concetto. Solo elaborando il testo scopro il destino dei personaggi. Qui inizialmente, infatti, ho pensato all’ingresso in scena di due personaggi: un messicano piuttosto ambiguo e una francese sui vent’anni, che si ritrovano in una baracca a Tijuana. L’impostazione è piuttosto classica, sono tre atti: nel primo introduco i personaggi, nel secondo sviluppo la trama e nel terzo si arriva ad un cambiamento di stile. Se il primo atto e il secondo sono diegetici, nel terzo c’è una sorta di monologo interiore di ciascun personaggio. Quindi dal primo al terzo atto c’è uno cambio piuttosto netto, sia nella scrittura che nell’impostazione registica. Inoltre, lo stile della storia si poggia su una tradizione piuttosto forte, ossia quella dei film di serie B degli anni Ottanta, la nascita del cinema pulp fondamentalmente, che io coniugo con i miei gusti letterari e filosofici. L’impostazione è quella di una storia pulp infatti, ma in sottofondo palpita una atmosfera alla Dostoevskij.

Che temi hai voluto affrontare?
G: Questi personaggi si amano perché dipendono uno dall’altro, nessuno dei quattro è fondamentalmente libero. Il tema dell’altro è un tema importante. Non è un caso che il personaggio principale sia attaccato all’idea di Dio. C’è questa contrapposizione del rapporto fra uomini, che è un rapporto di alterità; dall’altra parte ci sono delle idee portanti, ossia la Fisica per Babu, la Letteratura per Lisavet, il concetto di Dio per Jesus. Quindi c’è questa contrapposizione fra la dipendenza dall’altro e l’abbandono, invece, ad un concetto assoluto e, quindi, assolutorio.tijuana locandina

Come mai ambientare la storia proprio in Messico?
G: Se io avessi ambientato questa storia in un monastero, fra quattro frati, credo che non ci sarebbe stato un contrasto fra il contenuto filosofico e l’ambientazione. Il Messico serve, appunto, a creare una contrapposizione fra contenuto e forma. Il contrasto si fonda sull’uso della forza e il Messico mi ha permesso di giocare molto sul contenuto senza essere poi troppo filosofico o teorico. È un’ambientazione che apprezzo molto, mi riporta ad un cinema stile Tarantino, che sfrutta queste ambientazioni per mettere in scena drammi interiori esteriorizzandoli. La baracca va ad essere allegoria di una guerra, di uno scambio di droga ulteriore che è la debolezza dell’altro.

Per te chi è l’Altro? E qual è il tuo concetto di Assoluto?
G: L’idea dell’Altro mi viene da una frase di Simone Weil: “Come si può perdonare l’Altro di restare Altro?”. C’è questa impossibilità del personaggio di esistere indipendentemente dal carattere di chi gli è accanto. Dostoevskij ne ha parlato molto: il Sottosuolo non è altro che un mondo dove il personaggio si forma proprio sulla debolezza dell'altro e non sulla propria forza. Questi quattro personaggi si muovono in un mondo in cui la libertà non è totale. L’Assoluto che cos’è? È una domanda piuttosto difficile. È un’autonomia, una gratuità, un agire spontaneo, che si avvicina quindi all’agire del divino da un lato, ma anche del vegetale dall’altro. Questa spontaneità di comportamenti, questa esistenza autonoma e libera, che viene fuori soprattutto nel terzo atto, quando i personaggi cominciano a spogliarsi dei loro rapporti e ad esistere nella forma del monologo interiore.

Michela, tu eri anche presente in scena come co-protagonista. Potresti presentarci tutti e quattro i personaggi?
M: Andiamo in ordine di apparizione. C’è Nancy (Elisabetta Girodo Angelin, ndr), una ragazza ventenne francese. Proviene da una famiglia borghese e ha avuto vari problemi di anoressia. Un giorno incontra Jesus (Giacomo De Rose, ndr), con cui instaura un rapporto di dipendenza, un rapporto quasi malato, in cui uno non può fare a meno dell’altro ma, allo stesso tempo, non sopporta la presenza dell’altro. È una ragazza molto fragile, che tende a nascondersi sotto una forza che non ha. Jesus è un narcotrafficante di origine israeliane che crede di essere la terza reincarnazione di Cristo. È convinto quasi sempre di quello che è, ma forse nel finale dello spettacolo comincia a rendersi conto di non essere ciò che riteneva per tutta la vita e tenta di sistemare le cose. Babu (Dimitri D’Urbano, ndr) è un assistente di Fisica Quantistica, tende molto a costruire la sua immagine per tentare di apparire in un determinato modo, pesa le parole che dice, ogni suo gesto è calcolato per poter essere visto come vuole essere visto. Ha un rapporto d’amore, una relazione con sua sorella Lisavet, l’ultimo personaggio, che interpreto io. È una poetessa arrivata in finale in un premio in Sud Africa. Vede il mondo in una maniera un po’ più particolare rispetto alle persone che non si occupano di Letteratura. Ha una certa sensibilità verso l’esterno, riesce a capire i propositi, a calcolare le intenzioni di chi le è attorno, si trova sempre un passo avanti rispetto agli altri ma, nonostante ciò, tende a rimanere in secondo piano, a non prendersi mai la scena, proprio per tenere tutto sotto controllo e gestire le cose come preferisce.

riccardoPensando a Tijuana, vengono in mente due artisti molto diversi fra loro, a livello musicale: Manu Chao e Charles Mingus. Se voi doveste assegnare uno stile musicale ad ognuno dei quattro personaggi, quale sarebbe?
R: Io so che Giacomo per interpretare Jesus ha sentito l’heavy metal. Babu ascolta Brahms. Oppure era Schubert?

G: Sì, Babu è per la classica e Jesus direi un rock piuttosto audace. Nancy è musica francese, il cantautorato anni Sessanta tra Jacques Brel e Serge Gainsbourg, mentre Lisavet è più da Chet Baker, Charlie Parker, vari trombettisti jazz…

Riccardo, tu come hai affrontato il testo da un punto di vista registico?
R: È stato un lavoro impegnativo. Per me si è trattato di un modo completamente nuovo di fare spettacoli: pur avendone già fatti con Gianluca, avevamo testi basati su situazioni surreali, anche fantastiche, a volte con accenni all’occulto, giocando molto sul tragicomico. Invece qui si è cercato di lavorare molto e soprattutto sul realismo scenico. Dal punto di vista registico, avendo a disposizione quattro attori bravi, capaci di lavorare da soli sul proprio personaggio, e potendo far affidamento su un testo scritto davvero molto bene e una colonna sonora inedita che ci è stata fatta da Alessandro Rebesani, ho visto le proposte che venivano fatte per la scena in generale. Il mio lavoro era vedere quello che accadeva e poi coordinare. Vedevo delle cose che gli attori facevano, delle strade che loro intraprendevano, magari non mi suonavano del tutto e provavo a proporre delle alternative. Ad esempio, per i monologhi del terzo atto: ognuno aveva uno stile preciso che ho coordinato solo dopo che ci è stata una proposta dell’attore che io ho direzionato. Il secondo atto, dal punto di vista registico, è quello che ho sentito più mio, dove ci sono più “chicche” ed è importante l’osservazione del controscena degli attori, perché mentre parla uno, un altro scopre qualcosa. Si potrebbe riguardare lo spettacolo per quattro sere consecutive e si vedrebbero quattro scene diverse, nel secondo atto.

La parola “vangelo” viene dal greco antico e significa “buona novella”: che tipo di messaggio volevate far arrivare agli spettatori?
G: Da un lato, una riflessione sulla malattia, quando un rapporto fra persone è malato. La risposta che credo di aver suggerito è che tra i personaggi, sebbene sembra ci sia una forma di cattiveria, in fondo è solo debolezza. Ogni personaggio sembra cattivo, sembra farsi carico di una violenza da condannare e, invece, è soltanto vittima di una debolezza da comprendere. Spero che il pubblico abbia sentito una compassione per i personaggi più oscuri, che non sono cattivi ma fragili, deboli perché hanno sofferto. Il Vangelo di Tijuana è un vangelo carnale. Sebbene si parli molto di Dio, è il vangelo di un mondo senza Dio, dopo la morte di Dio. Si può vivere in un mondo così pessimo? Secondo me sì. Tramite la spontaneità, la libertà dall’altro che non è indifferenza, ma una specie di amore che non pretende ma dà. Quello che San Paolo chiama agape. Un vangelo per uomini del terzo millennio. È un’idea che si incarna dentro una forma, ma la storia è una giustificazione per dire qualcosa. Il tema è piuttosto forte in verità.

R: Dal mio punto di vista, il messaggio è la caduta della maschera davanti alla morte. Quando i personaggi si puntano la pistola alla tempia giocando alla roulette russa, viene fuori la vera natura della persona, perché sei in punto di morte in quel momento e lo stai facendo con le tue mani, quindi ognuno reagisce nella maniera più consona alla sua natura. Quando gli uomini stanno per morire, vedi veramente chi sono.

G: Per me quello sparo però è un’allegoria della condizione perenne: quando stanno per spararsi, semplicemente si rendono conto che la vita è sempre in bilico su questo sparo. E cambia qualcosa.

R: Ad esempio, prendiamo il personaggio di Babu. Lui si spoglia dei suoi vestiti da dandy, quindi questa è la caduta della maschera. Chi è lui in realtà? È uno che finge, che è estetico all’inverosimile e quando si punta una pistola alla tempia decade tutto.

M: Sono d’accordo con quello che è stato detto. Ogni personaggio inizialmente è chiuso nel proprio mondo, con i suoi ideali e non si smuove. Ciò porta ognuno al terzo atto, dove scoprono il modo di liberarsi di queste catene. Il trovare il coraggio di essere liberi nonostante tutto quello che ci circonda e ci ha accompagnato per tutta la vita.image 1

In base a ciò che avete appena sostenuto, secondo voi, il teatro è paradossalmente il luogo dove si incontrano più volti che maschere?
G:
Il teatro drammatico, classico, permette di partire dalla maschera per arrivare al volto. L’evolversi del personaggio, la struttura stessa in tre atti, permettono che si parta dalla maschera e si giunga al volto. È vero che oggi va molto di moda il teatro senza trama, post-drammatico: si potrebbe dire che questo è il teatro del volto. Il nostro è un teatro ibrido. Questa trama, per tutti noi, era una giustificazione per tirare fuori qualcosa di personale, qualche sofferenza privata. Penso di sì, che il teatro sia il luogo del volto, ma un volto che si espone nel tempo: lo spettatore prima scopre delle maschere e, poco a poco, scopre il corpo nudo del personaggio che si fa persona.

R: Per me è una domanda complicata e trovo difficile poter rispondere ora. Magari fra cinquant’anni avrò la giusta esperienza per farlo (ride, ndr).

M: Sono abbastanza perplessa anche io. Forse non c’è neanche tanta differenza. Il nostro volto si compone comunque ogni volta di una maschera diversa. Il personaggio che noi interpretiamo è una maschera, ma diventa a sua volta un volto.

Per voi questo spettacolo è stato un “osare”. Legando quest’immagine a Tijuana e al bordo, il muro che divide questa città da San Diego, Stati Uniti, voi quale muro avete dovuto superare?
R: Io il totale controllo sulla scena. Ero totalmente legato al concetto di controllo scenico. Viene mosso un dito? Quel dito viene mosso in un particolare modo? L’attore deve muoverlo così dalla prima all’ultima prova. Non esiste che in scena ci sia anche solo un 2% di improvvisazione. Si può fare, certo, perché non si hanno dei burattini in scena e l’attore deve vivere e deve essere sempre in una nuova esperienza. Se un attore decide all’improvviso, durante la rappresentazione, di stare seduto invece che alzarsi, per me era inconcepibile da accettare prima del Vangelo di Tijuana. Però adesso ho scoperto che è possibile e che almeno in questo lavoro non bisogna mettere dei paletti. Il muro che ho dovuto superare è stato fidarmi più degli attori che di me stesso.

M: Per me è stato fidarsi più di me stessa che del regista, invece. Sono abituata ad essere diretta precisamente, avere delle azioni prestabilite da fare, creare proprio in scena una macchina che funzioni e che si incastri. Quindi trovarmi in uno spazio così tanto libero è stato difficile inizialmente, non riuscivo a sentirmi pienamente a mio agio. Poi grazie al lavoro con i ragazzi, che sono stati eccezionali, al gruppo e alla sintonia che si sono creati, queste difficoltà sono andate a cadere e questo muro è crollato.

G: Il mio muro è stato quello di dover scrivere di argomenti personali, intimi, dolorosi. Essere in grado di scrivere di storie proprie senza simbolizzarle troppo.

Il motto di Tijuana è “Qui inizia la patria”. Da artisti, qual è la vostra patria?
M: Geograficamente, non l’Italia. Non penso che sia un posto che in questo momento possa far da patria all’arte, diventa sempre più difficile e meno rispettato come lavoro e, quindi, inizio a sentirla sempre meno mia e vicina.

R: Artisticamente non Roma, con cui è odio e amore per me. Mi ritengo un nomade. Volevo fare il chitarrista prima di rendermi conto che, per diventarlo, dovevo saper suonare una chitarra, un fumettista prima ancora di rendermi conto che mi annoia disegnare per due volte di fila lo stesso pupazzetto, lo scrittore prima ancora che mi tedia scrivere un libro, l’attore prima di rendermi conto che sono un cane. Adesso come regista, drammaturgo e insegnante ai bambini mi trovo benissimo: queste sono le tre patrie che ho adesso. Poi si vedrà.

G: Io sono apolide (ride, ndr). Un luogo che considero la mia patria? Neanche il teatro, in verità. Siamo tutti di passaggio. Non credo che ci sia un posto in cui mi senta a casa. Forse perché non esiste? Potrebbe essere l’arte in generale. Penso che l’arte sia soprattutto dolore e insoddisfazione, voglia di migliorare, che non ci sia neanche un luogo statico dove dormire: nell’arte non si dorme, si cambia e si viaggia.

image 2Il Vangelo di Tijuana è stato dedicato alla memoria di Domenico Bisazza: potete raccontarci qualcosa di lui?
R: Gli spettacoli in cui lui ha partecipato e quelli di futura produzione saranno tutti dedicati a lui. Lui è stato il primo protagonista in uno spettacolo con Gianluca. Prima ancora di essere un attore straordinario, meraviglioso scenicamente, era una persona fantastica. Per me era un amico: quando ti vedeva, ti abbracciava, ti baciava. E non era per attirare l’attenzione o per fare scena, ma perché era proprio così. Totalmente senza filtri e spontaneo. Eccezionale. Eravamo proprio al Teatro Trastevere in cartellone con La Profezia e io di questo spettacolo ero innamorato del contorno, dei personaggi secondari che ruotavano attorno al protagonista. Un recensore mi ferma e mi dice che nello spettacolo avevamo un attore protagonista meraviglioso e me lo ha ripetuto spesso. Sì, era vero, lui lo era. Nell’ultimo periodo abbiamo avuto la fortuna di collaborare molte volte insieme e ora posso confermarlo: è stata davvero una fortuna. Abbiamo tutti un ricordo meraviglioso di lui.

Parliamo della Compagnia Oneiron: com’è nata la vostra collaborazione?
G: Riccardo ed io ci conosciamo da molti anni, fin da bambini. Io mi occupavo principalmente di prose e romanzi. Un giorno lui mi chiese di scrivere un testo per il teatro, che divenne poi lo spettacolo La Profezia.

R: Io ricordo una versione diversa, a dire il vero. Fu lui a chiamarmi per dirmi che aveva pronto un testo per il teatro e mi invitò a leggerlo. Mi piacque molto e decidemmo di metterlo in scena.

M: Riccardo ed io, invece, abbiamo frequentato la stessa Accademia. La cosa buffa è che non ci siamo quasi mai parlati in tre anni (ride, ndr). Poi, per puro caso, ci siamo ritrovati a collaborare insieme per l’esame finale di regia: abbiamo capito di avere una buona sintonia sul lavoro, spesso la pensiamo allo stesso modo e così abbiamo deciso di continuare a dedicarci unitamente a questo mestiere.

E il vostro nome a cosa è ispirato?
R: Il sogno legato al teatro è un concetto vicino al tipo di spettacoli che proponiamo, molto onirici. Io ho fatto il liceo classico e questo termine greco mi piaceva.

G: (ridendo, ndr) Riccardo, in verità, per anni ha letto Artemidoro di Daldi e il suo L’Oneiron, il primo libro occidentale sui sogni: ecco da dove viene il nome.

R: Scherzi a parte. Il nome è nato un po’ per casualità, ma poi ci siamo talmente affezionati ad esso che ora non possiamo immaginarne uno diverso.

Progetti futuri?
R: Vorremmo puntare il massimo su Il Vangelo di Tijuana, farlo circolare e riproporlo il più possibile.

M: Con Riccardo speriamo di portare in scena, il prossimo anno, anche uno spettacolo scritto da noi, Off - La Prima Guerra dell'Arte.

R: Non è un testo che, però, va proposto a cuor leggero, deve essere studiato più a fondo. Alcuni aspetti, tra cui il titolo, sono ancora provvisori. Riprenderemo comunque anche il progetto di Bloccati, uno degli ultimi corti andati in scena con Domenico.

M: Abbiamo, inoltre, ripreso l’insegnamento del teatro nelle scuole elementari, un’attività bellissima. Vorremmo allargare il giro.

G: Io mi prenderò una pausa, invece. Sono entrato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico per il Master in Drammaturgia e mi concentrerò su quello.

Per concludere, potreste dire tre aggettivi per descrivere Il Vangelo di Tijuana?
G: Soffocante, intimista, viscerale.

R: Difficile, faticoso ma appagante. Io, da regista, sono arrivato alla fine dello spettacolo stanco però molto contento.

M: Direi viscerale anche io, ma aggiungo profondo e mutevole.

Chiara Ragosta, 03/12/2018

Lo scorso giovedì 27 settembre è andato in scena, allo Spazio Diamante di Roma, nel corso del Festival InDivenire, “Due addetti alle pulizie”. Della compagnia teatrale Le Ore Piccole, testo e regia di Chiara Arrigoni per uno spettacolo a due interpretato da Andrea Ferrara e Massimo Leone. Autore e attori, quindi, tutti diplomati all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica “Silvio d’Amico”, e che hanno debuttato già in occasione del recenteFestival ContaminAzionirealizzato e promosso interamente dagli allievi della suddetta (al Teatro India di Roma, dal 18 al 23 settembre passati).

“Due addetti alle pulizie”, a sottolineare le sue nobili origini, nasce come spin-off de “Il Calapranzi” di Harold Pinter, e ne ripercorre infatti le dinamiche dialogiche e conflittuali tra due protagonisti antitetici, polarizzati fra loro. Lo spettacolo, tuttavia, è perfettamente fruibile, che si abbia assistito o meno al suo progenitore pinteriano.12 Add
Entrano in scena due addetti alle pulizie, incaricati di ripulire scantinati due o tre volte al mese. Rispetto a quanto lavorano, guadagnano davvero molti soldi, tanti che neppure il più ingenuo e idealista dei due (Andrea Ferrara) potrà ignorare a lungo la verità dietro il proprio lavoro. E una volta che la verità è venuta a galla, non sarà facile rimetterla a posto, nemmeno per il più cinico e aggressivo della coppia (Massimo Leone).
La regia adopera gli strumenti della crudezza e i dilemmi morali della vicenda per svelare al pubblico, gradualmente, l’antefatto e le sue spiacevoli conseguenze. Il testo, senza troppi fronzoli, non tergiversa nemmeno tanto a lungo attorno al nocciolo del problema. È più l’imbarazzo dei protagonisti, e la loro paura sotterranea, che ci lascia il tempo di presagirlo prima di prenderne coscienza. L’opera è un dialogo tra Pinter e Tarantino, che coniuga abilmente i punti più attuali del primo con le deviazioni più di genere del secondo. Uno scontro perfettamente coerente tra due metà solitamente complementari, ma inconciliabili all’interno di una situazione assurda e, vista dall’interno, tragicamente senza uscita.
Assistiamo quindi all’inesorabile srotolamento dei demoni interiori dei due personaggi, senza grandi sconvolgimenti o colpi di scena, motivo per cui ne assorbiamo il disagio generazionale, oltre alle ansie etiche e morali. La deresponsabilizzazione di una società che, per sopravvivere alle proprie colpe, deve accecarsi o farsi tirannide ricorda da lontano il meno allegorico dramma ancestrale di Edipo, ma non per questo risulta meno attuale nel dramma di una macchia ostinata, sul pavimento della nostra coscienza.

Andrea Giovalè
28/09/2018

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