Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

FAENZA – “L'adolescenza è come un cactus” (Anais Nin). Ogni tanto il teatro prova a scandagliare quel microcosmo che tutti ci tocca, ci colpisce (a volte ferisce), sicuramente ci forma, ci dà un'impronta per quello che saremo più avanti: il mondo della scuola. Piccolo habitat dove convivono età diverse e l'insegnamento delle prime regole da rispettare, i compagni, il gruppo, la disciplina, gli amici, il divertimento, gli amori, i professori. C'è stata “La scuola” di Lucchetti, passata anche sul grande schermo, “L'ora di ricevimento” di Stefano Massini, anche questo divenuto una pellicola, che si interrogava sulle differenze culturali e religiose, e poi “La classe” di Fabiana Iacozzilli, con i traumi provocati da quell'istituto di suore sadiche e insensibili, “La classe” di Giuseppe Marini, con un corso di recupero per ragazzi difficili, “Nemico di classe”, una delle prime regie di Gabriele Salvatores sul testo di Nigel Williams, per non parlare de “Il dio della carneficina” di Yasmina Reza. Ecco, la scuola ci forma, ci sforma, ci dice quello che vogliamo diventare e quello che non vorremmo mai essere nel confronto costante con i compagni, con il mondo degli adulti.facebook_1637609252416_6868631037847694494.jpg

“Il periodo adolescenziale manca della percezione del futuro” (Vittorino Andreoli). Ed eccoci a questo “Il nodo” (prod. Società per Attori – Goldenart; testo della statunitense contemporanea Johanna Adams) per la regia di Serena Sinigaglia che vede lo scontro-incontro tra due universi separati, una professoressa (Arianna Scommegna) e una madre di un ragazzino (Ambra Angiolini). La scena ci dà subito, al primo impatto, l'idea del difficile, del complicato ma soprattutto dell'argomento impervio, proibitivo, ripido, burrascoso, sdrucciolevole e scivoloso: praticamente un dosso, una cunetta, un'ellissi, una gobba che scende giù a capofitto come una scogliera d'Irlanda. Su questa collina inclinata che declina verso l'abisso stanno banchi e sedie come quelle capre aggrappate e abbarbicate alle rocce sporgenti. In alcuni controluce le figure nere delle due donne su questa sorta di palla da basket tagliata a metà ricordavano il Piccolo Principe e l'Aviatore nell'omonimo libro di Saint-Exupery. Sarà per il tema, sarà per il nome di Ambra, il Teatro Masini di Faenza era pieno in ogni ordine compresi i palchetti. Il Masini è gestito da Accademia Perduta che dirige anche le stagioni dei teatri del Goldoni di Bagnacavallo, il Walter Chiari di Cervia, il Diego Fabbri e Il Piccolo di Forlì e il Dragoni di Meldola.

La il-nodo-cover.jpgstoria è semplice e al tempo stesso nasconde nelle sue pieghe, volutamente, tante ombre e ambiguità: un ragazzo si è suicidato con un colpo di pistola, la madre del ragazzo va a scuola dopo qualche giorno per un confronto con una professoressa che aveva sospeso suo figlio, cosa che il genitore pensa sia stata la molla scatenante del suo gesto estremo. Inizia così un corpo a corpo tra le due figure che mettono in campo la loro diversa autorità, il loro modo differente di essere donne, l'angolazione opposta di approcciarsi ai ragazzi. Nascono così guerriglie e accuse, schermaglie e solidarietà, odio feroce e abbracci, mea culpa e voglia di dimenticare, in una tensione crescente che sale a maree, e appena scema riprende vigore per scagliarsi ancora in impeti di rabbia e ira e astio, tra attacchi e difese inutili, per spiegare l'inspiegabile, per cercare di ricondurre l'accaduto a qualcosa di razionare, per incasellare questa morte in un continuum di cause ed effetto, di azione e reazione. Le due parti in causa vogliono dividere il senso di colpa che le affligge, vogliono scaricare il peso indicibile che stanno affrontando, vogliono sentirsi meno sole, abbandonate dalle istituzioni (la scuola che latita, la preside che come Godot doveva arrivare ma alla fine non si vede, diserta l'incontro) e dagli uomini (dove è il padre? La figura maschile?).img-1641814593.jpg

Di sottofondo il ticchettio di un orologio, quasi una clessidra per questo confronto su un immaginario ring dove le regole sono saltate, due donne sole su un'isola deserta con il loro dolore (diverso, certamente) pesante come un macigno che gli graverà sulle spalle fino alla fine dei loro giorni come Sisifo, incatenate alle loro responsabilità come Prometeo. E non c'è salvezza né possibile (auto)perdono per questa tragedia, il dialogo e la dialettica possono soltanto lievemente lenire ed essere un balsamo per colmare lacune, per cercare di razionalizzare la perdita, relativizzare il dramma e la sciagura.

Però nodo-angiolini.jpgse le due interpreti sono pugnaci, generose e dirette, Ambra ha piglio da guerriera mentre il ruolo della Scommegna arretra e incassa alle corde, c'è qualcosa, principalmente nel testo, che rimane sospeso, che non riesce perfettamente a sciogliersi come appunto questo “Nodo” che rimane lì a ricordarci qualcosa ma che non sappiamo dissolvere né dipanare. Sullo sfondo appaiono grandi temi, come il bullismo o la consapevolezza del proprio orientamento sessuale in età adolescenziale così come il perbenismo degli insegnanti e la responsabilità degli adulti, non pienamente approfonditi che confondono le acque facendo calare una coltre nebbiosa e insabbiando sospetti e incriminazioni. Anche la trasformazione dei personaggi e il loro lato psicologico, in evoluzione durante la piece, forse non convince appieno con tratti poco scandagliati e repentini cambi umorali e momenti che nella realtà non sarebbero perfettamente credibili.

“Sto male l’ho detto molte volte, ci sono cresciuto con quella frase, ho sempre saputo le ragioni del mio star male, era tutto perfettamente chiaro nella mia testolina di quindicenne” (Pier Vittorio Tondelli).

Tommaso Chimenti 11/03/2022

Foto di scena: Serena Serrani

GENOVA – “Harry Potter” ma senza magie. “Harry a pezzi” con molti brandelli sparsi a terra. “Harry ti presento Sally” ma senza Sally. Forzando l'originale, “A proposito di Harry”. Ci sono due momenti, all'interno dell'anno solare, dove, dati alla mano, aumentano esponenzialmente i delitti tra le quattro mura domestiche, litigi, separazioni, s'impenna la depressione e soprattutto il numero dei suicidi: l'estate, con la punta agostana, diciamo Ferragosto, e il 25 dicembre. Quest'ultimo è da una parte motivo di bilanci, un altro anno è finito e un altro deve iniziare con i soliti buoni propositi che andranno disattesi, la sfera religiosa, che tu sia credente o meno l'atmosfera dell'essere più buoni ci attanaglia facendosi sentire in difetto e perennemente in deficit, e, dulcis in fundo, l'aspetto capitalistico, i regali che, in tempo di disoccupazione e precariato, possono creare non poche notti insonni. C'è chi per le ferie e i regali si indebita, per quell'apparire di facciata, per il controllo sociale che inevitabilmente gli altri, scrutandoci e confrontandosi con noi, attuano, per quella parvenza di felicità che però, purtroppo, non si può comprare.169900-4c3f6ce9f6aa60e4d5189f89cc9fa086-1554710657.jpg

Il Natale ha quella pannellata patinata di festa, di campane, di jingle, di rosso, tutti ci si dovrebbe volere un po' più bene, così dice la pubblicità, ci si dovrebbe ritrovare e abbracciare e baciare. Ma i tempi sono quello che sono tra cinismo, disgregazione delle famiglie, individualismo, insoddisfazioni d'ogni sorta da tagliare a fette. Siamo sempre più soli, un po' per scelta consapevole, un po' per scelta degli altri, chiusi nei nostri loculi a vedere serie tv come forsennati addicted, attaccati ai nostri profili social che ci tengono collegati a tutto il mondo nel vuoto delle nostre stanze silenziose.

Il Natale di Harry” (testo di Steven Berkoff, come attore ha lavorato, tra gli altri, con Kubrick e Antonioni) è il 25 dicembre di tutti noi, anche senza le sue depressioni, con quell'attesa che monta e poi di colpo svanisce, quell'ascesa di ansia che ci lascia, appena trascorso, in un down prima dell'Ultimo dell'Anno altro picco dove ci dobbiamo divertire per forza e nessuno, puntualmente, lo fa. Un uomo chiuso nelle sue poche stanze, con i suoi pochi oggetti di una vita, a fare la conta dei biglietti d'auguri natalizi ricevuti. Perché sono i biglietti (i pollici blu dei like contemporanei) la cartina di tornasole di quanto sei amato e voluto e benvoluto, biglietti ipocriti e pieni di grandi messaggi che però nella realtà si trasformano in silenzi, vuoti, mancanze, assenze.

Sono i Natale Harry - foto Donato Aquaro  HD-_FFA6710.jpgcinque giorni dicembrini che ci dividono dalla nascita di Gesù ed è proprio una libreria in stile Calendario dell'Avvento (e anche una piccola sedia da bambino, perché Harry tale è rimasto) che ci indica il passaggio del tempo su questa scacchiera con un'unica pedina in movimento (proprio Harry) che però è in stallo, è in quella fase (il celebre “finale di partita”) dove nessuno può più vincere e tutto è bloccato, otturato, vano. Lo stallo degli scacchi inevitabilmente ci fa venire alla mente Samuel Beckett e nella regia, colorata che dosa con segni e musiche le malinconie e il sarcasmo, di Elisabetta Carosio ci sono alcuni riferimenti al drammaturgo di Dublino: la telefonata con la madre aprendo il bidone dell'immondizia ricorda appunto il “Finale” con i genitori scheletri che escono dai grandi contenitori, quell'atmosfera perduta da “Giorni felici”, la cassetta che parte con la voce del protagonista di un tempo che ci porta all'“Ultimo nastro di Krapp”.

Enrico Campanati (nei monologhi si esalta)-Harry è dentro i suoi rituali, le sue liturgie, cerca di autoconvincersi che il “Natale sia un giorno come gli altri” ma il primo a non esserne sicuro è proprio lui, si sente un verme, solo in casa, senza amici, senza nessuno da chiamare, senza una famiglia, una compagna, dimenticato, abbandonato alle sue paure. E ci sono dei rumori di fondo, come l'eco della sua voce che ora gracchia, adesso sembra sott'acqua, ora riverbera ora si moltiplica che ci danno la sensazione di essere dentro un'altra dimensione spazio-temporale dove tutto è già accaduto e Harry sta rivivendo, all'infinito, in loop, la sua discesa agli Inferi, il suo scorticarsi senza soluzione né salvezza. Harry (Campanati, positivissimo, gli dà umorismo e sostanza, pienezza e pasta, sensibilità e umanità) è doppio e si divide tra il sé e la sua coscienza (Grillo parlante) che lottano, cozzano, si scontrano, litigano, si zittiscono a vicenda.Natale Harry - foto Donato Aquaro _FFA6676.jpg

Chiuso nel suo limbo, nel suo Purgatorio tutto sommato comodo ma noioso, inutile, Harry non ha niente che lo lega più all'esterno diviso tra uscire e perdersi nel mondo o rintanarsi (come un hikikomori anziano) nella sua abitazione come un “sepolto in casa”, recluso nel suo eremo di ricordi sbiaditi e per niente soddisfacenti: “In alcuni giorni il mio corpo è tutto una gigantesca verruca. E sarebbe tutto da eliminare”. E' un groppo alla gola: “La mia vita è una merda tanto che nessuno ci si vuole avvicinare”. Gli manca il calore di una compagna, si sente invisibile, dentro di sé ha il Grande Freddo, Una Specie di Alaska lo corrode: “Natale è come rimanere in piedi nel gioco della sedia”. Il dolore è compatto, l'infelicità solida, la solitudine pesante, i sensi di colpa gravosi, insopportabili, robusti.

Visto al Teatro della Tosse, Genova, il 9 aprile 2019.

Tommaso Chimenti 12/04/2019

MODENA – La scena è sgombra, pulita, larga. Ha già in sé i codici interiori di questa narrazione rarefatta, sbocconcellata, addentata e poi attesa sul bordo, tra il dietro il velatino (che si colora tenue) e davanti alla platea che rimane lì complice ed esclusa, vorrebbe ma non può. La nuova creazione ad orologeria di Deflorian-Tagliarini prende le mosse, l'incipit, la cornice, soprattutto è un pretesto (c'è chi dice che il pretesto sia già testo) da “Deserto rosso”, pellicola di Michelangelo Antonioni. A differenza degli ultimi loro lavori visti, “Reality”, tratto dalla notizia di cronaca della signora che annotava ogni suo più minimo gesto e azione quotidiana su dei diari, o “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”, dalla crisi greca passando per un suicidio di anziani che non ce la facevano più a (sopra)vivere, qui in “Quasi niente” (prod. Teatro di Roma, Metastasio, ERT) è la finzione il motore trainante, e non la realtà, è la celluloide l'innesto e la miccia. E questo, soprattutto all'inizio, tiene più QUASI-NIENTE_ph-Claudia-Pajewski_LR-6099.jpglontani, più distanti, sicuramente meno coinvolti emotivamente. Ma è questo “niente”, per nulla sollevato o addolcito da quel “quasi” che paradossalmente peggiora la situazione facendo cadere il sostantivo nello stallo tremendo immutabile, che lentamente entra di sottecchi, come sotterfugio, strisciante si fa strada nelle pieghe dell'ascolto e tutto ammanta, conquista inarrestabile, attanaglia caviglie e stomaco, ci fa sentire impotenti, soprattutto vicini a quella depressione che aumenta ma mai fino alla disperazione devastante ma rimanendo in quel limbo fastidioso come un sibilo, insopportabile come un acufene che non permette la definitiva discesa agli inferi e quindi la risalita e la rivoluzione.

Quel star male ma mai così male da poter prendere in mano la propria vita e ribaltarla ma anzi trascinarsi nelle cose che ci conoscono, nelle azioni abitudinarie, come se ci potessero salvare dall'oblio, nelle ripetitività del consolatorio, nel chiuso delle nostre quattro mura senza la voglia di scambiarsi (l'altro fa sempre paura e crea disordine nel meticoloso castello di carta innalzato a barriera), di misurarsi, di confondersi, di prendersi responsabilità, di instillarci nuovi dubbi. In questo piano, come detto diviso in due, tutto è delicato e raffinato, delicato e pastello, hopperiano per costruzione, lineare per definizione, dove tutto sta al suo posto ma è e rimane e non vive, non muta, non prende forme. Al massimo viene spostato, che siano mobili o persone.

QUASI-NIENTE_ph-Claudia-Pajewski_LR-6407.jpgCinque persone, cinque personaggi, che poi in definitiva sono cinque momenti di vita, visti dalla sponda maschile come da quella femminile (la depressione non ha generi, la depressione non è classista né sessista né razzista), cinque età, la trentenne, la quarantenne, il quarantenne, il cinquantenne, la sessantenne, cinque specchi e caleidoscopi di quella che fu la Giuliana del film, la grande Monica Vitti. Ma il cinema si confonde con le persone e con le personalità degli attori creando e modellando questa lingua d'asfalto calda, pare immobile, di silenzi che aggrediscono e staticità irrevocabili, di pause strazianti che tolgono il respiro. “Non ce la faccio più” è il refrain ma non si sa bene di che cosa non ce la facciamo più queste cinque figure e soprattutto non hanno armi per difendersi, non hanno più linfa da mettere in campo per deviare i colpi, per incassare o per offendere e rispondere a loro volta (“Se sia più nobile tollerare le percosse di una sorte oltraggiosa, o levarci a combattere tutte le nostre pene e risolutamente finirle? Morire, dormire, null’altro. E con il sonno dar termine agli affanni dell’animo e alle altre infinite miserie che sono l’eredità della carne”, Amleto docet).

Monica Piseddu, non la accomuna soltanto il nome con la Vitti, è, come al solito, strepitosa nel suo essere misurata, nel dare voce alla marginalità con quella levità soave per niente bonaria, mentre abbiamo finito gli aggettivi per il duo Deflorian – Tagliarini, artisti che plasmano la materia (sempre più “francesi”), ma anche i silenzi, i non detti flebili e tutto quello che sta, invisibile intangibile muto, in cielo e terra (ritorniamo a Shakespeare). Complementari i due innesti, Benno Steinegger che dà fisicità e presenza, e Francesca Cuttica, voce di velluto appuntito traQUASI-NIENTE_ph-Claudia-Pajewski_LR-6421.jpg Nada, Cristina Donà e Mara Redeghieri degli Ustmamò. Questo non è un dramma ma è molto drammatico, è un Purgatorio di melassa che, nella sua fissità e fermezza, non permette alcun passaggio al livello superiore, al Paradiso, alla serenità. E' l'ansia (tra Francis Bacon e Pollock ma al rallentatore) la protagonista principale, è il sentirsi sempre fuorigioco, incapaci di affrontare le piccole sfide della vita, di riuscire ad avere un pensiero lucido sull'oggi, su se stessi e sul posto che occupiamo nel mondo, sulle priorità.

“Quasi niente” mette a nudo il fango che t'impasta e ti tira a fondo e quando te ne sei accorto ormai sei troppo immerso nel tunnel, hai perduto la strada, non vedi più la luce e tutto è lontanissimo, tutto inafferrabile, desolatamente distante e la fatica si fa sentire e ti rassegni ad un altro giorno ancora così, un altro e poi un altro ancora. Niente soddisfa più, niente ha un senso: “Se potessimo vivere la vita come le sequenze al cinema” si dicono, per avere una direzione certa, una guida in questo mare sconfinato di scelte che poi ti lascia immobile, stranito, straniato, debole, inerme, disarmato, senza filtri, senza pelle (D'Alatri), in mezzo al Deserto, che sia Rosso o di altre sfumature. Il vuoto avanza e non lo puoi fermare perché è un nemico che sa come seminarti tra ossessioni e disagi vari, sogni di disastri e distruzioni.

QUASI-NIENTE_ph-Claudia-Pajewski_LR-6478.jpgE' un soffio amaro, una carezza ruvida e sottile, una richiesta d'aiuto muta, un abbraccio senza forza, è “Quasi niente” che sembra meglio del niente ma che invece rimane alibi all'isolamento: “Quando non sono malata mi sento poco interessante, non mi percepisco”. La serenità vista come una tregua: “Ho solo sotterrato tutto sotto un grande Fare”. Come sventolare una bandiera bianca ad un nemico che però porti e curi e culli dentro. Sono tutti Giuliana, siamo tutti Giuliana. Prima o poi, a flash, a strascichi, a lampi, ad intermittenza o quotidianamente. Non riusciamo ad abituarci all'idea di noi, all'idea del troppo tempo a disposizione, all'idea della fine. Tutto questo ci uccide.

Tommaso Chimenti 29/11/2018

Foto: Claudia Pajewski

SCANDICCI – “Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo”, Michele, il ragazzo di Udine suicidatosi a febbraio; la lettera integrale la trovate qua: http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/02/07/la-lettera-prima-del-suicidio-michele-30-anni-questa-generazione-si-vendica-del-furto-della-felicita/3374604/
Diluviano le gocce come le lacrime. Si aprono le acque del sentimento, della riflessione, della commozione. Si piange perché ce l'abbiamo finalmente fatta e in fondo non ci si sperava potesse più accadere, si piange perché, per diluviol'ennesima volta, non ce l'abbiamo fatta come le mille altre volte precedenti. Siamo tutti “L'uomo nel diluvio” (visto al Teatro Studio scandiccese, ex feudo Krypton, ora chiamato “Mila Pieralli”) perennemente marginali facciamo pendant con l'arredamento, siamo numeri per le statistiche, massa allo stadio, chilometri di code. Poco altro. In questa storia ci sono tre elementi, biblici e di riscatto, di piccole vittorie, cadute e risalite: il parallelismo tra Noè e il protagonista (lo stesso Valerio Malorni, autore insieme a Simone Amendola) con Berlino sullo sfondo, panacea di tutti i mali, Sacro Graal del Messia Merkel, Terra Promessa che non esaudisce né esaurisce tutti i desideri ma almeno quello della sostenibilità e vivibilità lo soddisfa.
Una narrazione a blocchi, più vicino alla performance (costruzione nella quale sono riscontrabili svariati difetti di amalgama tra le parti slegate e “incollate”), a strappi, a patchwork, un assemblaggio partendo dallo spicchio centrale sospeso, come crocifisso sopra un altare ipotetico e visionario, immateriale e invisibile, che pare sorriso sdentato o, appunto, nave (siamo ancora al paragone emigranti italiani – migranti africani?) o Arca per la salvezza, i video, i racconti personali, canzoni sparatissime, una lettera-confessione, la lettura di una recensione di un critico tedesco allo stesso spettacolo al quale stiamo assistendo. Potremmo dire, e racchiudere il tutto in una sola parola: autoreferenziale. Ma, d'altro canto, cosa c'è di più urgente della propria biografia?
“La fantasia è un posto dove ci piove dentro” (Italo Calvino).
Quella di Malorni (a tratti, lateralmente, marginalmente, viene alla mente, vedendolo in azione, Ascanio Celestini, sarà per la foga, sarà per il romanesco da guerriglia urbana) è un vivido ragionamento (teatro povero) sanguigno e sofferto, sull'emigrazione dei ragazzi italiani in giro per l'Europa per cercare lavoro, quello stesso lavoro (peggio ancora se è di un'occupazione artistica, creativa o letteraria che si tratta) che in Italia o non c'è o viene affidato ad altri per altri canali, tutto compresso e sporcato da politica, burocrazia, antimeritocrazia, affarismo, nepotismo, mafie. Un po' di luoghi comuni però spruzzati qua e là ci stanno sempre bene a rimpolpare il discorso di precariato ed emigrazione.
“Amo la pioggia, lava via le memorie dai marciapiedi della vita” (Woody Allen).
Ma l'acqua ritorna potente nel discorso di Malorni, l'acqua pulisce e distrugge, dà da bere e scava; l'andare alla deriva sembra essere l'unica via d'uscita, l'annegare è una solida possibilità o, al limite, galleggiare in attesa dello tsunami. Nessuna programmazione, tutto è gestito dal caso e dal caos, aspettando, molte vite inutilmente, che il vento cambi rotta. L'Italia affonda nella merda come già avevano detto in teatro Scimone e Sframeli con il loro “Pali”. Non si può che essere solidali con questa fioritura colorita di rabbia e desolazione che il monologhista mette sulla scena, la sua verve castrata dagli eventi ma non atterrita completamente, la sua energia come cane alla catena che si sfiata fino all'afonia. Il suo è un urlo teatrale ma anche generazionale, sociale ma anche geo-politico di un sistema (quello capitalista come quello teatrale, soprattutto quello under 35, che tende a far sopravvivere e non a vivere degnamente) che ha fallito e si è mangiato le ultime due infornate di giovani con tante belle speranze, lauree, master e competenze che, una volta fuori dalla scuola e gettati nel mondo, si sono ritrovati porte in faccia, destini sbarrati, ad elemosinare un co.co.co, un call center, l'obolo di un voucher senza contributi né malattia né ferie né maternità, accattonando l'ennesimo stage non pagato “ma almeno è un modo per restare nel mercato, per cercare visibilità”.
diluvio1“Alcuni dicono che la pioggia è brutta, ma non sanno che permette di girare a testa alta con il viso coperto dalle lacrime” (Charles Chaplin).
Se in Europa il tasso di disoccupazione giovanile è del 22%, in Italia abbiamo appena sfondato il tetto del 40%: evidentemente c'è qualcosa che non va, o che va peggio nello Stival tricolore rispetto ad altre nazioni. Sarà stato l'euro ad affossarci, sarà la corruzione, tumore che pare inestirpabile dal nostro dna, saranno i nodi della politica sporca e del malaffare, sarà la mancanza di infrastrutture adeguate. Le piaghe sono putrescenti, anche gli eterni ottimisti vacillano, il partito dei rassegnati avanza, mentre il debito pubblico aumenta esponenzialmente. Il mito di Berlino (palliativo, placebo per i sintomi ma non certo cura), città fredda e nuova, dove, come dice Malorni (allievo di Mario Scaccia), si può tranquillamente sopravvivere ma non è la soluzione a tutti i problemi (puoi fare il cameriere e altri mille lavoretti interinali ma difficilmente se hai studiato da ingegnere farai l'ingegnere). Per i nostri trentenni (ma anche quarantenni) è sempre troppo presto fin quando non diventerà troppo tardi: “Il problema non è il diluvio ma la nebbia”. Non si vedono spiragli, zero fessure, poco ossigeno.
“C’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo” (Fabrizio De André, “Il Bombarolo”).
Parole schiette quelle di Malorni (piaciute sia alla giuria del Premio “In-box” '14 che a quella di “Scenario”) che però un po' si perdono nel raffronto e continuo paragone tra il Bel Paese, che evidentemente non lo è più, e la grigia Berlino tratteggiata come paradisiaca meta. E l'attore romano, infine, fa addirittura analisi direttamente in scena del suo stesso spettacolo e anzi, dando un colpo anche, già che ci siamo, alla “casta” dei giornalisti, soprattutto quelli teatrali (i più pericolosi e perniciosi), ci dice, lo dice alla critica paludata, come si scrive una vera recensione leggendoci (tutta!!!) quella uscita su Der Spiegel. Non siamo certo del partito di quelli che, se Saviano attacca l'Italia, allora Saviano non è patriottico ma augurarci un futuro da berlinesi non so se sia un auspicio positivo o una fattura di malocchio. “Berlino, ci son stato con Bonetti, era un po' triste e molto grande però mi sono rotto, torno a casa e mi rimetterò in mutande” (Lucio Dalla, “Disperato erotico stomp”).

Tommaso Chimenti 21/02/2017

MONTALCINO - “L'estate da noi non è mica un periodo felice che il caldo ti toglie la pace la polvere copre ogni cosa e ti spezza la voce”. Ha ragione Daniele Silvestri. Nella stagione del caldo e dei bikini, delle onde e del solleone aumentano i suicidi. Sarà la costrizione al divertimento forzato, sarà l'appiccicaticcio sudato, saranno le zanzare. “Estate sei calda come il bacio che ho perduto, sei piena di un amore che è passato che il cuore mio vorrebbe cancellare”. Forse l'estate piace solo ai bambini, con i loro secchielli e palette. In un luogo più immaginifico che realistico, più dell'anima e del sogno che terreno hanno luogo “Le vacanze dei Signori Lagonia” (prod. Teatrodilina e portati a Lagonia1Montalcino nel corposo e interessante cartellone ideato dal sensibile, capace e attento direttore Manfredi Rutelli per il finalmente riaperto Teatro degli Astrusi), momento sospeso dove confessarsi, tra la logorrea della moglie obesa e invalida e immobile (Francesco Colella en travestì, riempie la scena con un personaggio statico, sorta di Hamm del “Finale di Partita” beckettiano; anche autore del testo insieme a Francesco Lagi, regia), e i silenzi o i moti gutturali primitivi e ancestrali del marito un po' Shrek e un po' Lerch (Mariano Pirrello in punta di piedi dà tempi e ritmi, come vero metronomo, si aggira come atomo attorno al nucleo), scendere a patti, fare i conti di un'esistenza disgraziata, processarsi a vicenda, condannarsi, forse perdonarsi. Come in “Zigulì”, eccezionale monologo di qualche stagione fa con protagonista Colella, anche qui si parla di figli; non ci sono, fanno capolino, sono pesanti macigni anche se invisibili, indigeribili nella loro assenza che fa male.
Una spiaggia lontana da occhi di altri villeggianti, una “solitary beach”, per dirla con le parole prese in prestito da Franco Battiato: “nel pomeriggio quando il sole ci nutriva di tanto in tanto un grido copriva le distanze e l'aria delle cose diventava irreale: mare mare mare voglio annegare, portami lontano a naufragare”. Un istmo, una parentesi graffa questa lingua di terra, un limbo d'attese dove non si sente il “sapore di mare che hai sulla pelle” di Gino Paoli né la “voglia di remare per fare il bagno al largo, per vedere da lontano gli ombrelloni” di Giuni Russo. La spiaggia è approdo, è sponda, è andare, è partire. Ma lei, matrona dittatoriale, è ancorata al terreno senza possibilità di movimento e lui, ubbidiente ex muratore disoccupato, costruisce castelli di sabbia perfetti. Uno dipendente dall'altro guardano la marea, la schiuma, le onde, quella massa d'acqua che imperterrita prosegue a Lagonia2lisciare il bagnasciuga e che può essere rivelatrice, che può portare con sé risposte aspettate da un'intera vita. Nei loro silenzi, che fanno massa e sono solidi come mura difficilmente scalabili e costruite pazientemente nel tempo, si sentono i lamenti e le fragilità, le debolezze e i dolori di molte famiglie del Sud portate negli ultimi decenni sul palcoscenico, da Emma Dante a Franco Scaldati, da Scimone Sframeli a Scena Verticale, da Enzo Moscato a Michele Santeramo e Fibre Parallele.
La settecentesca, e sempre da brividi, “Lascia ch'io pianga” (aria di Handel e libretto di Giacomo Rossi) infatti fotografa alla perfezione questi sentimenti di rancore misto a rassegnazione, abbandono e sconforto impastati nelle lacrime seccate, depressione e forza di sopportazione arrivata al limite, sottomissione e accettazione passiva che ribollono dentro, l'abbattimento di giorni e mesi e anni sempre uguali infangati di noia, lo scoramento nell'oggi e la sfiducia che domani le cose possano cambiare, una grande malinconia di fondo che si incastra come Tetris a un'agitazione demoralizzante che li rende inquieti da una parte e docili repressi dall'altra: pentole a pressione tristi e polverose pronte a saltare o a farsi esplodere. La desolazione e il vuoto di questa convivenza divenuta accanimento terapeutico si spande come macchia d'olio amara, si allarga senza salvezza, in preda ai morsi dell'agonia. Forse l'inferno per alcuni è proprio qua, sulla Terra.

Tommaso Chimenti 15/01/2017

EMPOLI - “Qualsiasi pazzo con delle mani veloci può prendere una tigre per le palle, ma ci vuole un eroe per continuare a strizzarle” (Stephen King).
Gli eroi sono quello che non siamo riusciti ad essere noi comuni mortali, sopra le righe, irriverenti al potere, al destino, non si sono piegati, non hanno chinato la testa, non hanno cercato compromessi, non si sono scusati, non hanno fatto un passo indietro. L'eroe è chi ci ha messo la faccia, quello che non ha pensato alle conseguenze, quello che non ha avuto paura di mettere la propria vita a repentaglio per un'idea, per un principio.
Quello che la gente ama più dell’eroe è vederlo cadere(film Spiderman).
Proprio per questo gli “Heroes” che Ippolito Chiarello porta in scena con calore e decisione, qui in forma di primissimo studio e work in progress, con la faccia bianca metà cerone attoriale e metà incarnato da defunto, tradiscono fin dal principio, nella sintassi e nella parola, i personaggi ai quali l'epiteto etichettante positivo è affibbiato. Nessuno dei personaggi ritratti dalla penna di Francesco Niccolini (qui messi in scena otto sui dieci, mancano all'appello Andy Warhol e Mia Zapata) era un eroe, voleva essere un eroe, o era visto come tale.Ippolito1
Per fortuna gli eroi muoiono di morte violenta(Gesualdo Bufalino).
L'eroe è puro, integerrimo, pulito, sopra ogni sospetto, limpido, senza macchia. Robert Leroy Johnson, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Jeff Buckley, Kurt Cobain o Amy Winehouse (quasi tutti appartenenti al Club 27, ovvero “suicidatisi” alla soglia dei trent'anni) erano corrosi dal veleno di vivere, mangiati dal verme della depressione, distrutti giorno dopo giorno dalla loro voglia di annientarsi, sparire. Erano miti, per gli altri, per i fan accaniti, ma mai eroi.
Non ci sono mai stati dei grand’uomini vivi. È la posterità che li crea(Gustave Flaubert).
Ippolito Chiarello (in residenza al Giallo Minimal Teatro di Empoli dopo aver partecipato a “Verso Terra” di Mario Perrotta e che si appresta a volare a Vancouver per portare in Canada il suo “Barbonaggio Teatrale”) è un Lucifero (che nel finale si trasforma inspiegabilmente in un Dexter che brandisce una sega elettrica) deejay dietro il suo microfono, che ci ricorda “Jack Folla” o “I cento passi” e “Radio Freccia”, la bocca rossa carnosa ne “I guerrieri della notte” o “Radio days”, ci presenta la carrellata di artisti, musicisti più che maledetti, fragili.
Chi c’è di più solo di un eroe?(Boris Vian).
Proprio per questo non ci è chiaro l'appiglio ai “supereroi”, che hanno poteri oltre il consueto e la natura umana e lo mettono a disposizione del Bene e a favore della comunità, mai li usano in termini egoistici, né l'escamotage registico della sedia sul palco, tirando dentro dalla platea uno spettatore al quale viene chiesta la vita per poter diventare un “semidio”; il fatto che ognuno di noi possa, nella sua piccola esistenza, essere o diventare un eroe è un altro grosso filone da approfondire oppure accantonare visto che porterebbe in tutt'altra direzione il lavoro. Niente di più lontano dai personaggi dilaniati dal mostro interiore dell'incomprensione, dalla tenia dell'infelicità, dal baco strisciante della non accettazione. L'eroe non cerca la morte, tanto meno il supereroe, che per definizione non può morire.
Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi(Bertold Brecht, “Vita di Galileo”).
ippolitoQuesti erano soltanto uomini e donne bisognosi d'affetto, con un talento innegabile, che hanno messo in musica il loro travaglio. Il nostro Caronte ci porta nelle pieghe delle patologie, psichiche più che fisiche, di questi corpi malati che cercavano disperatamente il silenzio e l'oblio, la negazione di sé e che, invece, erano stati catapultati nell'occhio di bue della popolarità, nella luce della responsabilità.
Non v'è eroe vivo che valga un eroe morto(Oriana Fallaci).
Il peso che li schiaccia e li trita è enorme: se prima non si sentivano accettati, non erano stati amati, adesso sentono che l’affetto smisurato che proviene dall'esterno è fuori controllo, è basato soltanto sulla copertina, sulla superficialità, sulla morbosità, sulla curiosità.
Gli eroi son tutti giovani e belli(Francesco Guccini, “La Locomotiva”).
Che poi tutti alla fine si aspettano la canzone-citazione di David Bowie, omonima del titolo della pièce, che invece viene estromessa dalla sentita e lancinante ed emozionante playlist, e viene sostituita, incomprensibilmente, nell'ouverture come nella chiusa, da “Space Oddity”, sempre del Duca Bianco: “Sebbene nulla, nulla ci terrà uniti, possiamo batterli, ancora e per sempre. Oh possiamo essere Eroi, anche solo per un giorno(David Bowie, “Heroes”).
Ancora di più, rimaniamo convinti che i veri eroi siano altri: “Sono un eroe, perché lotto tutte le ore. Sono un eroe perché combatto per la pensione. Sono un eroe perché proteggo i miei cari dalle mani dei sicari dei cravattari. Sono un eroe perché sopravvivo al mestiere(Caparezza, “Eroe”).

Tommaso Chimenti 19/10/2016

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM