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Nella quantità esorbitante di streaming, di dirette facebook, di drammatizzazioni dal divano di casa in pigiama o vestaglia con le luci al neon che in quest'ultimo periodo fioccavano e proliferavano, abbiamo scelto quella di Sergio Aguirre per la potenza del linguaggio, la miscelazione dei testi, l'impronta urgente, la presa diretta tra le parole e il suono, tra il senso e il significato, tra la carne che si andava toccando e l'intimità che veniva scossa, morsa, strattonata. Sono tra quelli che “il teatro non si fa online” e che “il pubblico deve essere vero, reale, tangibile” altrimenti non si può chiamare “spettacolo dal vivo”. Certo, tutto vero. D'accordo. Ma alcuni tentativi, come questo, travalicano il mezzo e arrivano comunque con una verità di spada sventrando l'oggi nella sua contemporaneità scavallando secoli e mettendo in scena sostanza viva, pulsante. E' una messa in discussione sul momento che stiamo vivendo, formale e temporale, una clausura che genera mostri asmatici e asfittici, anemici e ansiosi ma è sempre una presa di posizione forte, dura, a petto in fuori, una dimostrazione che la pandemia non schiaccia, non assorbe, non vanifica, non appiattisce tutte le energie, tutta la voglia, tutto lo sprizzare e il bisogno d'arte, di farla e di riceverla.38841186_1971056892954376_7227950159781429248_n.jpg

Voglio la Luna – Kaligola 1” (primo studio) è un lupo che geme al satellite senza luce propria di crateri butterati, è un urlo al destino, è un gorilla che si batte i pugni sul petto nella foresta ma è anche un grido, una richiesta, una mancanza, un SOS lanciato in mare aperto e un invito ad entrare nel suo mondo, ora accogliente adesso pressante infine corrosivo e corrucciato, è un lamento increspato di risa amare e tragiche ma anche una dichiarazione d'intenti, è una tromba squillante e un rullo di tamburi, è un armiamoci e partiamo, è un respiro nell'orecchio come una scrosciante pioggia torrenziale di fine agosto, carezza che ferisce e sconquasso, clangore di catene e velluto, è un'immersione in apnea dentro il limbo, è un affacciarsi sul baratro e vedersi specchiati nel fondo del bicchiere. Da Camus, “Caligola”, “Lo Straniero” e “Il Mito di Sisifo”, aggiungendoci sprazzi di “Macbeth” e tocchi dell'“Aspettando Godot”. Camus, Shakespeare, Beckett, lo spleen, la tragedia e la sospensione dell'attesa. Il tutto realizzato in solitudine dal 26 al 30 aprile in piena quarantena Covid-19.

Non solo teatroIMG-20200511-WA0028.jpg ma a tratti una vera e propria pellicola: giacca di pelle in stile Matrix e una fuga nei garage come incipit che trabocca e frigge, sbrana, addenta, s'addentra. Una performance da vedere ma anche da ascoltare. Atmosfere cupe pece da Mad Max. Un Caligola che è prigioniero, che vorrebbe rompere le catene che lo tengono legato a quel luogo, a quella condizione-situazione, a quella costrizione; ti parla, ti guarda e ti guarda dentro, in questo tunnel fisico e corporeo ma anche metaforico ed etereo, ti scava fino in fondo, è magnetico e calamitico, dai respiri pastosi e violenti, spessi e densi. “Ho sete d'impossibile” ci dice e tutto vibra, tocca corde profonde ime. Il suo microfono e il registratore (così come la banana) ci ricordano quello beckettiano dell'“Ultimo nastro di Krapp”.

Voglio far diminuire il dolore” ti strazia. Lo senti vicino nei suoi silenzi così pesanti, catacombe e chiavi, lucchetti e sferragliamenti da Caronte. Aguirre-Caligola ti scruta fino in fondo, dittatoriale senza far prigionieri, non è consolatorio, va dritto al punto, non chiede permesso. Dentro il cunicolo dell'esistenza, nel buco del travaglio, nel gorgo del tempo che ci sradica gaddiano e materico, sudato e partecipato, si affaccia dal suo vulcano distopico, dalle cavità del suo ego, dalla fenditura dell'anima sfibrata, dalla fessura della sua latitanza, dall'orifizio del suo disincanto, un 47332_106378926088858_2450893_n.jpgmessaggio cinico squisitamente politico, nel suo senso più alto, ed incastonato in questi tempi di repressione fisica e di contrazione economica, privata e personale. Trasognante e trasformista esce dalla finestra del suo mondo per affacciarsi al nostro così simili in questo momento; è un viaggio nel buio, un percorso frastagliato ad ostacoli, una matassa aggrovigliata di nodi, un incubo da sciogliere con l'alba, se mai arriverà. E' come un diario di bordo. Ci parla di solitudine, “Non posso accontentarmi di ricordi” sibila come un missile, è 15349782_1315228191870586_5883530472902519084_n.jpguna protesta, una ribellione soffocata: ti chiede da che parte stai, senza scorciatoie. Ci parla di vita e della condizione umana sempre compressa e contratta, parcheggiata. E' un vuoto incolmabile l'esistenza. “L'errore di tutti gli uomini è di non credere abbastanza nel teatro” ci ammonisce severo. Come non dargli ragione. L'unico rimedio è fuggire da noi stessi anche se fuori, facendoci capolino, fa paura. Sperando di vederlo dal vivo, su un palcoscenico con il pubblico in platea ad agognare nuove parole, ad immaginare ombre vive, a nutrirsi in un'altra dimensione.

Tommaso Chimenti

Quando un nome noto del teatro come quello di Emma Dante viene accostato a un classico senza tempo come "Le Baccanti", l’incontro promette scintille. E scintille sono, recapitate da un team di attori dell’Accademia Nazionale d’Arte drammatica “Silvio d’Amico”, in scena al Teatro India di Roma nel periodo festivo a cavallo tra il 2018 e il 2019.
Sin dal principio, la regista traccia la sua linea, tesa e vibrante come una corda di violino, tra l’inquietudine e la sacralità. Due aspetti spesso, se non sempre, contrapposti nella tragedia greca, che esplodono sotto la direzione di Emma Dante, il cui occhio stravolgente si sposa alla perfezione con l’impeto caotico già copioso in Euripide.
Coreografie tra la danza e l’inseguimento, luci intermittenti e giochi d’ombra, sono alcuni degli ingredienti che rendono l’opera, nella traduzione di Edoardo Sanguineti, apprezzabile su più livelli: quello letterale o razionale (apollineo) e quello istintivo, quasi subliminale (dionisiaco). Paradossalmente le parti corali, cantate e armonizzate dagli attori, numerosi ma sempre in equilibrio sulla scena, risultano le più canoniche.49616292_218497349081115_7963060359684685824_n.jpg
Anche la scenografia, di Carmine Maringola, riflette una duplicità insidiosa, le pareti rosa sembrano imprigionare, più che proteggere, ma non sono impenetrabili. Oltre alle uscite adibite, una per lato, capita di vedere personaggi invadere la scena strisciando sotto i suoi confini, o scuoterli dall’esterno con urla e strepiti. Avvolgente, ma non sicuro, il locus di questo studio flirta con l’uterino.
Vi sono poi le innumerevoli interpretazioni, innumerevoli davvero. Come per sedimentazione, "Le Baccanti" hanno acquisito nei secoli altrettante stratificazioni. C’è il conflitto tra sacro e profano, tra erotismo e castità, tra uomini e donne. C’è il conflitto generazionale tra vecchi e nuovi regnanti, quello tra madre e figlio. C’è Pènteo che, più che ateo, sembra figlio di una religiosità infertile e invidiosa. Di contro, un Dioniso doppio, nel ruolo e nel genere sessuale, assume i tratti di un anticristo ante litteram, un pifferaio magico dedito ai piaceri irresistibili della carne: pur nella sua onnipotenza, fa delle baccanti il proprio unico e solo strumento, perché di tutti il più invincibile.
Inevitabilmente a loro, alle Baccanti, l’ultima nota di quest’analisi. Prede di un’euforia senza confini ben distinti, devono mostrare al contempo la follia di un alter ego e le spaventose profondità del proprio vero io (in vino veritas). Un ruolo potente quanto complesso sotto la guida esperta e esigente della regista, che esalta però, singolarmente e in gruppo, l’interpretazione di tutte le attrici, scandite con ritmo musicale come canne di un organo di desideri inconfessabili.

Andrea Giovalè
5/01/2019

Foto di Tommaso Le Pera

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